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Autore: _Frame_    12/11/2017    2 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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148. Gli impegni coniugali e Le riflessioni del dopo sbornia

 

 

20 maggio 1941,

Fiordo Kattegat, Svezia

Bordo dell’incrociatore HMS Gotland

 

L’aria all’interno del centro di comando dell’incrociatore odorava di chiuso e di ferro. Una leggera umidità riempiva le pareti della sala. I borbottii degli uomini ai comandi si mescolavano con l’eco dei sonar e con i ronzii dei pannelli che srotolavano lingue di carta con sopra raffigurate le proiezioni prese dagli indicatori di posizione.

Sottili perline di sudore inumidivano la fronte del primo supervisore radar. I suoi occhi lucidi e appesantiti si spostavano rapidamente fra le linee dei grafici sparsi sopra le carte millimetrate, seguivano il ritmo degli squilli dei sonar che oscillavano fra le pareti della camera. Il supervisore radar fece scorrere fra le sue mani il nastro di carta con il tracciato delle onde, tornò a guardare il radar, annuì, e indicò una delle curve all’assistente. “Sì, sì, proprio in questo punto,” mormorò.

L’assistente ricontrollò la schermata del radar venendo investito dal suo riverbero che gli illuminò le guance di verde, e anche lui fece correre le punte delle dita sul lungo foglio di carta. Corrugò le sopracciglia, un fremito di ansia gli scosse la voce affaticata dall’aria umida. “Non è possibile,” sibilò anche lui. Si passò una mano fra i capelli, e un altro rivoletto di sudore gli rigò la tempia. “Ricontrolla di nuovo. Ricontrolla.”

I lampeggi e gli squilli ovattati dei sonar si propagavano fino a qualche tavolo più in là, dove altre due figure erano chine sui pannelli e sulle apparecchiature radio, sugli indicatori di velocità e di direzione del vento.

L’operatore radio indicò con la punta di una penna incappucciata i segni che aveva tracciato sulla rotta lungo le carte millimetrate. Vi batté due volte sopra e sollevò gli occhi per incrociare lo sguardo di Svezia che scrutava i grafici stando in piedi dietro le spalle chine dell’uomo. “Non c’è pericolo di ghiaccio, signore,” lo rassicurò l’operatore, “quindi pensavamo di procedere seguendo questa traiettoria, vede.” Percorse la carta millimetrata con l’estremità della penna, stette fuori dalla rotta dei traffici mercantili tedeschi, e salì verso nord. “Basta solo che non oltrepassiamo questo confine e che non ci addentriamo in acque danesi e...”

“Signore.” La voce tremante del supervisore radar chiamò Svezia dall’altro capo della sala del centro di comando.

Sia Svezia che l’operatore radio si voltarono levando gli sguardi dai pannelli, e fronteggiarono gli occhi ancora tremolanti e spaventati dei due supervisori dei radar. Quello che lo aveva chiamato si sfilò le cuffie, si scambiò un’occhiata rapida con il collega, e il suo viso divenne grigio d’ansia. “Credo,” deglutì, “credo che debba subito venire a controllare questo, signore.” Prese un respiro pesante, la sua voce suonò grave e seria. “È urgente, temo.”

Svezia sollevò un sopracciglio, mantenne il viso rigido, l’espressione lievemente corrugata, e si lasciò pungere da una sottile e fastidiosa sensazione, fredda come l’alito di un brutto presagio.

L’operatore radio con cui stava lavorando spinse la sua seggiola all’indietro e aprì un braccio a indicare la seconda postazione a Svezia. “Prego.”

Svezia attraversò il piccolo corridoio che univa le due postazioni, si portò all’altro lato della camera superando una torretta di pannelli, quelli da cui provenivano i blip! dei sonar, e si mise alle spalle dei due supervisori radar, inondandoli con la sua ombra.

Il primo supervisore si rimise le cuffie, stese uno dei nastri di carta con raffigurate sopra le proiezioni delle onde, e lo porse al suo collega per tenerlo aperto senza che si arrotolasse di nuovo. “Abbiamo rilevato un traffico che non ci era stato segnalato.” Si girò e indicò il quadrante verde dell’indicatore radar, la sua mano s’illuminò di verde. “Guardi qua.” Due puntini di un acceso verde fosforescente lampeggiavano e si ingrossavano ogni volta che la lancetta del radar vi passava attraverso, completando il giro dell’ovale. Il dito del supervisore ebbe un lieve fremito. “Ci stiamo avvicinando parallelamente a due imbarcazioni che procedono verso nord, verso il Fiordo Skagerrak.”

“Per di più sono due imbarcazioni pesanti, signore,” intervenne l’assistente che reggeva le proiezioni su carta. “Non può trattarsi di un semplice traffico mercantile. E sono sicuramente tedesche, dato che non abbiamo ricevuto nessun segnale di movimento a partire da Scapa Flow.”

Lo sguardo di Svezia rimase catturato dal quadrante che rifletteva quei lampeggi verdi sulle sue lenti. Restrinse le palpebre, ne catturò l’abbaglio, ma il suo viso rimase freddo. Navi pesanti? Ma cosa potrebbero... Uno dei blip! lo colse come una scossetta e fece sussultare la sua espressione granitica. Un ricordo sgusciò fuori dalla sua testa, come un seme che viene estratto dalla terra ribaltata e messa a nudo sotto la luce del sole. Che sia...

“Una delle due potrebbe essere una corazzata,” disse il supervisore, “ma non ne siamo ancora sicuri.”

L’assistente scosse il capo e si strofinò i capelli dietro l’orecchio. “Ma questo non spiega comunque perché stiano attraversando il fiordo.”

“Che stiano risalendo il mare dalla Danzica?”

“Per arrivare fino all’Atlantico?” L’assistente si strinse nelle spalle. La sua espressione vacillante e increspata dalla penombra della camera si fece ancora più scettica. “Ma anche se fosse, loro...”

La mente di Svezia si estraniò. Scivolò fuori dalla camera del centro di comando dell’incrociatore e volò in un posto più tiepido e luminoso, a rivivere il dolore di quando aveva dovuto abbracciare Finlandia lasciando che lui soffocasse i singhiozzi sulla sua spalla, e di quando poi lui si era calmato, asciugandosi le lacrime dalle guance arrossate. “Dovrò solo sorvegliare una traiettoria. Partiranno da Gotenhafen. Ci sarà anche una corazzata, sai, quella nuova.” C’erano i fascicoli che Giappone gli aveva consegnato aperti sul tavolo, le fotografie di Gotenhafen, di quella corazzata gremita di file di bandiere tedesche che riempiva tutto il campo visivo, gli equipaggi in divisa radunati sul ponte, e il cielo terso dietro di loro. Finlandia era tornato a stringersi nelle spalle, a scuotere il capo, a riassumere quell’espressione smarrita e addolorata. Perché mi hanno costretto a questo? Perché mi devono costringere a compiere una cattiveria del genere?”

Svezia tornò nel centro di controllo. Rimase a fissare il vuoto, ancora rapito dalle ultime parole sofferenti di Finlandia, isolato dai ronzii provenienti dai pannelli, e corrugò la fronte, diventando più buio in viso. Perché gli hanno chiesto di sorvegliare la loro navigazione? si domandò. Perché hanno voluto coinvolgerlo? Un primo reflusso di rabbia salì a scaldargli il sangue, raffreddato subito dalla sua mente che si imponeva di rimanere lucida e limpida come un lago ghiacciato. Germania non fa mai nulla senza motivo, non lascia nulla al caso. Se ha richiesto l’intervento di Finlandia, significa che lui e Prussia hanno in mente qualcosa, che ha intenzione di sfruttarlo. Chinò le spalle per avvicinarsi ai grafici appena srotolati e poggiò una mano sui pannelli. Strinse il pugno, i suoi occhi di nuovo freddi e sottili corsero sulle proiezioni delle onde, tornarono di nuovo fermi su quei due puntini verdi che bucavano il radar. Ma sfruttarlo per cosa? Non può permettersi troppe libertà con Finlandia, non ora che parte del suo territorio è sotto il governo dell’Unione Sovietica. Oppure... Si strinse il mento e i suoi pensieri si fecero più oscuri, gli trasmisero un profondo brivido di disagio che penetrò fin dentro le ossa. Che Finlandia sia semplicemente uno strumento per avvicinarsi a qualcun altro oltre che a Russia?

I puntini verdi sullo schermo del radar tornarono a catturare il suo sguardo, i blip! costanti dei sonar erano continui e dolorosi affondi di ago nel suo cuore già ferito e sanguinante, corroso dal dubbio. Il duro e freddo sguardo di Svezia si incrinò come ghiaccio scalfito. Che cosa dovrei fare adesso che anche la mia marina è venuta a conoscenza del passaggio del convoglio? Dovrei avvertire l’Ammiragliato Inglese? Se Inghilterra stesso intervenisse e arrestasse qualsiasi cosa Germania abbia intenzione di fare nell’Atlantico, allora Finlandia non subirebbe danni. Un viscido e primordiale sentimento di sfiducia nei riguardi di Inghilterra lo fece esitare assieme a tutto l’odio che suscitava il ricordo del suo profilo, del suo sguardo cinico e indifferente. Ma cosa dovrei risolvere in tutto questo? continuò a chiedersi Svezia. Se avvertissi Inghilterra, sarebbe come tradire Finlandia? Oppure lo starei tirando fuori dai guai? Se solo sapessi quali sono le vere intenzioni di Germania...

I due supervisori dei radar continuavano a guardarlo trattenendo il fiato, le mani impietrite sui grafici, e i volti bianchi come cera tinti dalle sfumature verdi dei quadranti. Svezia li ignorò. I suoi pugni premuti sui pannelli di comando tremarono di indecisione, appesantiti da tutta la pressione di quel dubbio che gli gravava sulle spalle. Anche il suo sguardo tornò a vacillare. Forse dovrei semplicemente lasciar correre tutto, si disse, aspettare che Inghilterra e Germania si scontrino da soli, senza intervenire. Socchiuse le palpebre, e nel buio compose le immagini delle loro nazioni, così come si vedevano sulla cartina. I confini che li separavano, le gabbie che li tenevano divisi in due spartizioni differenti, suscitarono in lui una stretta al cuore. Che cosa devo fare? Io sono il primo a non nutrire nessuna fiducia nemmeno nei riguardi di Inghilterra. Se un giorno noi cinque ci riuniremo, sarà solo perché avremo riconquistato il nostro legame con le nostre forze. Ma rispetto a loro quattro io ho un’arma in più: la mia neutralità. E gli unici per cui ho intenzione di sfruttarla sono loro.

Svezia riaprì gli occhi. Affrontò i due puntini sui radar a viso alto, con sguardo più fermo e di nuovo duro come ghiaccio.

Se avvertissi Inghilterra del passaggio delle due navi, allora lui potrebbe fermare Germania in tempo, potrebbe evitare che tutto si trasformi in una battaglia nei mari del nord, e potrebbe evitare di farci combattere per l’ennesima volta uno contro l’altro. Dopo tutti i secoli passati a combattere fra noi... Tornò la rabbia a morsicargli il petto. La rabbia che aveva provato dopo la prima separazione, quando si era conclusa la guerra al Nord e quando era stato costretto a vedere Finlandia finire fra le braccia di Russia, la rabbia di quando anche Danimarca e Norvegia erano stati conquistati, la rabbia di quando Inghilterra aveva occupato Islanda, la rabbia di trovarsi impotente davanti al viso di Finlandia bagnato da lacrime di rimorso che non sapeva come asciugare. Svezia schiacciò i pugni fino a sentire le falangi scricchiolare. Non permetterò mai che sia una guerra manipolata da altri a usarci come armi per farci di nuovo del male a vicenda.

“Ehm.” Il primo supervisore si scambiò un’occhiata con l’assistente, si schiarì la voce e tornò a rivolgersi a Svezia con tono più intimorito. “S-signore? Cosa,” il suo tono tremolò di nuovo, “cosa facciamo?”

Svezia sciolse i pugni dal piano del pannello, raddrizzò le spalle riempiendo la parete con la sua ombra, e si girò, allontanandosi dalla camera a passo pesante e imponente. Andò ad avvertire l’Ammiragliato.

 

♦♦♦

 

20 marzo 1941,

Maleme, Isola di Creta

 

I rombi appartenenti ai motori degli aerei ancora in funzione e i ronzii delle eliche che singhiozzavano gli ultimi giri prima di spegnersi coprivano il frinire dei grilli, il brusio del vento notturno che soffiava freddo e umido attraverso gli edifici dell’aeroporto, e le voci degli ufficiali e dei soldati che occupavano la pista illuminata dai riflettori, immersa in una sottile nebbiolina di sabbia secca. Il riverbero artificiale dei riflettori batteva contro le finestrelle superiori della stanzetta – un piccolo ufficio all’interno dell’hangar – e rischiariva la grigia e fitta atmosfera che ne riempiva le pareti, come se la notte fosse scivolata anche lì dentro. Regnava un silenzio pesante e molle che pareva galleggiare come una nebbiolina lattea attorno alle nazioni riunite alla tavolata, ovattando le loro teste indolenzite e ingrigendo le loro facce segnate da lividi e rese più sofferenti da quegli sguardi smorti che non riuscivano a rimanere alti.

Germania si portò una mano alla fronte, si massaggiò le tempie tenendo il gomito poggiato sul tavolo, e distese quell’espressione infiacchita che lo teneva avvolto in un’aura nera e fredda come il suo umore. Emise un sospiro rauco. “In conclusione,” anche la sua voce suonò più debole rispetto al solito, stanca come il suo sguardo, “se dovessimo trarre un bilancio complessivo da questa prima giornata dell’offensiva su Creta...” Girò una carta dai fascicoli, scoprì la mappa dell’isola, una di quelle che avevano esaminato prima di partire, con tutti gli obiettivi cerchiati e i numeri delle divisioni stampati sul mare e sulle coste, e sfiorò l’unica città cerchiata e conquistata dal loro esercito. ‘Maleme’. Un’ombra di sconforto gli mascherò il volto. “Potremmo dedurre che l’operazione non è partita nel migliore dei modi.” Germania scosse il capo e si massaggiò la curva del collo irrigidito dai fasci di nervi induriti e doloranti. “Di certo non nella maniera in cui tutti avevamo sperato.”

Austria riappoggiò sul tavolo i fascicoli che aveva sfogliato durante la riunione. Si sfilò gli occhiali, si massaggiò le palpebre che stavano diventando sempre più nere e pesanti da tenere aperte, e sospirò anche lui. “La difesa era sorprendentemente preparata, e stazionava esattamente nei punti in cui abbiamo deciso di sferrare gli attacchi con i paracadutisti.” Lo disse a fatica, lottando contro il dolore che ancora premeva sulle costole ogni volta in cui traeva un respiro o pronunciava una sillaba. Ogni volta il fantasma del calcio del fucile tornava a picchiargli lo sterno e a soffocarlo, una martellata dietro l’altra. Austria fece scivolare i polpastrelli dalle palpebre, smettendo di massaggiarsi, e rivolse lo sguardo a Germania. Sollevò un sopracciglio e gli inviò un barlume di sospetto. “Molto strano, non trovi?”

Davanti a lui, dall’altro lato del tavolo, Bulgaria premette l’involucro del panno di cotone contro il livido attorno all’occhio destro. Spremette le dita facendo gocciolare due rivoletti di acqua gelata lungo il viso, e strizzò anche l’altro occhio per resistere alla puntura di dolore che gli aveva bucato il cranio. “E dovrebbe essere questo a preoccuparci?” Si rimboccò la giacca che aveva appoggiato sulle spalle, per non farla scivolare, e si massaggiò la spalla bendata. I punti appena cuciti continuavano a bruciare e a tirargli la ferita, gli facevano salire la voglia di strappare la fascia e di piantare le unghie nella carne, lacerando tutto solo per disfarsi del prurito che gli stava mangiando la pelle. Bulgaria strinse i denti e si grattò attorno alla benda, senza toccarla. “Sappiamo tutti che Inghilterra ha la sfera di cristallo.” Rivolse il pollice alla sedia accanto a sé. “Chiedete a Rom, anche lui traffica con quelle diavolerie.”

Romania gli lanciò un’occhiata di sbieco, da sotto le ciocche di capelli che ricadevano in disordine sulla benda incerottata attorno alla fronte, e tamburellò le unghie sul tavolo. “Ti sembra il caso di scherzarci?”

Bulgaria scrollò le spalle, nascose un sorrisetto dietro l’impacco premuto sull’occhio sinistro. “E chi scherza?”

Germania scosse il capo. “Potremmo esserne sorpresi,” disse, riprendendo il discorso, “ma anche questo ha una spiegazione.” Piegò entrambi i gomiti sul tavolo, intrecciò le mani davanti al volto, e i suoi occhi si spostarono verso una delle sottili finestrelle intagliate sotto il soffitto. Le luci provenienti dalla pista di volo battevano sul vetro, splendendo come se fosse giorno. Diedero di nuovo al suo viso un aspetto più duro, accentuarono la rigidezza dei suoi lineamenti e la freddezza delle sue iridi. “Inghilterra rimane pur sempre uno stratega astuto,” continuò Germania. “È vero che il territorio di Creta non gli appartiene e che non lo conosce, ma conosce invece molto bene le basilari strategie belliche. E non era difficile da parte sua immaginare che avremmo attaccato proprio sui quattro punti dell’isola dove sono posizionati i campi di volo.” Lo sguardo di Germania tornò a scivolare sulla mappa, sulle quattro città bersagliate e difese dagli inglesi, e quella visione gli fece corrugare un sopracciglio. “Tuttavia, questo non risolve il problema della massiccia difesa impostata da Inghilterra, che è ben superiore a quanto ci eravamo preparati.”

Nel suo angolino accanto allo spigolo del tavolo, dopo essere rimasto in silenzio durante tutta la riunione, Romano ebbe un primo piccolo sussulto che lo fece irrigidire. Si tenne stretto nelle spalle, continuò a massaggiarsi il braccio fasciato che bruciava per le suture fresche, cucite anche sulla ferita al fianco, e lanciò un’occhiata alla sedia accanto a lui che era rimasta vuota. Il raggio di luce cadeva lungo lo schienale senza incontrare la resistenza di un corpo, e faceva brillare i granelli di polvere galleggiante. Gli aprì un vuoto nel cuore, addensò la sensazione di solitudine trasmessa dall’assenza di Italia che era rimasto in tenda, senza aver detto nemmeno una parola dopo che la battaglia era conclusa ed erano tutti rientrati a Maleme. Romano allontanò gli occhi dalla sedia vuota e si diede un’altra strofinata al braccio. Si morsicò il labbro e rimase in silenzio, avvolto dal dolore che gli incupiva il volto.

Ungheria abbassò le carte che stava sfogliando, si scostò una ciocca di capelli dal viso, e intercettò l’espressione avvilita di Romano. Anche lei esitò, tornò a rivivere il momento in cui Germania aveva ordinato di ritirarsi, la tristezza e la paura di quando li aveva raggiunti tenendo Italia in braccio che continuava a piangere silenziosamente tenendosi aggrappato alle sue spalle. Ungheria chinò la fronte, fece aderire il panno riscaldato che teneva attorno alla spalla e sull’incavo del collo per sciogliere uno strappo ai muscoli, e spinse la sedia più vicino a quella di Austria, per avvicinarsi alla sua presenza rassicurante. Si schiarì la voce, e anche lei parlò con tono più fioco e rauco, come se avesse inalato una boccata di fumo bruciante. “Quali obiettivi siamo riusciti a raggiungere con il primo assalto?”

Germania corrugò uno sguardo più assorto e pensoso, e i suoi occhi si posarono sull’unica città cerchiata che spiccava sulla mappa dell’Isola di Creta. “Qui a Maleme siamo riusciti a conquistare sia Quota 107 che il campo di volo,” rispose. “Però le teste di ponte sul fiume non sono ancora solide, e rimane il problema delle artiglierie inglesi alla foce, ma entro domani dovremmo riuscire a espugnare completamente la zona.”

“E La Canea?” Romania si passò una mano fra i capelli, li tolse da davanti la benda che gli fasciava la fronte passandogli sopra l’orecchio, e si strofinò una tempia dolorante tenendo l’occhio strizzato. “Pensavo sarebbe stato facile prenderla di conseguenza, dopo aver occupato Maleme, dato che sono molto vicine.”

“Ma gli spostamenti su Suda sono più lenti del previsto,” rispose Germania. “Inghilterra sta mantenendo una buona difesa marina, e questo ci impedisce di inviare rinforzi alle truppe di terra.” Spinse la mappa verso il centro del tavolo, mostrandola a tutti, e fece correre la punta dell’indice nell’angolo retto che formava l’insenatura della costa. “Ha praticamente fortificato la Baia con i suoi convogli, ed è riuscito a creare un sistema a catena che dobbiamo assolutamente rompere se vogliamo riuscire a vincere.”

Bulgaria premette il panno umido sul livido che gli gonfiava l’occhio, facendo scivolare due rivoli d’acqua sulla guancia, e sbuffò facendo roteare lo sguardo al soffitto. “Già,” mormorò. “Volere vincere.”

Romania fu l’unico a sentirlo. Lanciò un paio di sguardi cauti attorno a sé – nessuno li guardava – e si avvicinò a Bulgaria dando una spintarella alla sedia. Chinò la spalla per potergli sussurrare accanto al viso. “Che vuoi dire?”

Bulgaria usò la mano che non reggeva il panno umido per coprire il movimento della bocca e bisbigliò ancora più piano. “Dico che noi stavamo andando forti a Rethymno.” Aggrottò la fronte, e un’altra gocciolina d’acqua gli scivolò attraverso il viso. “Se solo Germania non avesse interrotto così l’attacco, allora saremmo riusciti a conquistare anche quel campo di volo e...”

“Abbandonare il suolo di Rethymno è stata una scelta necessaria.”

Bulgaria saltò sulla sedia e si morse la lingua, rimangiandosi il sapore ferroso delle parole che aveva appena pronunciato e che la voce di Germania gli aveva fatto ringoiare. Fece correre lo sguardo lungo tutta la tavolata. Tutti lo fissavano. Bulgaria si morsicò anche il labbro assieme alla lingua, accostò una spalla a quella di Romania, e abbassò il panno umido dalla fronte, per coprirsi la faccia che stava diventando viola di vergogna. S... si è sentito?

Germania sistemò un fascicolo di carte battendone i bordi sul tavolo e la sua voce rimase di pietra, dura e indifferente. “La difesa superava le nostre aspettative, noi non eravamo preparati a sufficienza, e avremmo solo sofferto perdite inutili.” Posò le carte, e il suo sguardo premette su Bulgaria, come a seppellirlo. “Se non ti trovi d’accordo con la mia gestione dell’assalto, ti faccio salire sul primo Junker e ti faccio riportare ad Atene, dove non avrai più nulla di che lamentarti.” Una maschera di buio si concentrò attorno alle sue palpebre, donò ai suoi occhi una sfumatura metallica e tagliente che avrebbe potuto affettare anche un blocco di cemento. Le sue parole suonarono violente e pesanti come un affondo al cuore. “Ti sta bene così?”

Bulgaria rabbrividì, scosso da un violento spasmo di paura. “Ehm.” Si spinse di più contro Romania per proteggersi dagli sguardi che premevano su di lui come tante martellate al cranio, e mascherò quell’espressione di vergogna con un mezzo risolino sbilenco. “N-nossignore.”

L’aria attorno a Germania divenne una fitta nebbia nera, l’atmosfera si congelò, i rumori esterni suonarono più bassi e ovattati, come rinchiusi all’esterno di una bolla di ghiaccio. La voce di Germania divenne cupa e ostile come i suoi occhi, minacciosa come un coltello piantato sotto la carotide. “Allora impara a parlare solo quando ti è richiesto.”

Bulgaria deglutì, si fece più piccolo contro il braccio di Romania, desiderando farsi inghiottire dalla sedia, e rispose con voce più fioca. “Sissignore.”

Romania soffiò un sospiro sconsolato e lo guardò storto, sibilando anche lui da sopra la sua spalla. “Idiota.”

Bulgaria gli diede un calcio da sotto il tavolo.

Romano si girò a guardare Bulgaria di traverso, a metà fra odio e compassione, e fece schioccare la lingua fra i denti, in una smorfia di indifferenza. Anche lui tornò a chiudersi nel suo angolino accanto allo spigolo del tavolo e a ignorarlo.

Bulgaria si scollò da Romania, dopo avergli rifilato il calcio alla caviglia, e piegò il gomito sul tavolo. Tenne premuto il panno sul bernoccolo, lasciò che l’acqua fresca gli freddasse i bollori, e masticò un lamento a denti stretti. Formicolii nervosi gli attraversarono le gambe, il suo ginocchio traballò e la punta del piede picchiettò a terra. Italia fa danni anche quando prova a fare la cosa giusta, si disse. Ora hanno tutti i nervi fuori dalle orecchie solo per la scenata che ha piantato durante l’assalto. Buttò l’occhio sulla sedia vuota accanto a quella occupata da Romano, e un barlume di dubbio gli attraversò lo sguardo. Chissà se sarà di nuovo in grado di...

“Come intendi gestire l’attacco delle prossime giornate?” domandò Austria, tornando a riporre l’attenzione solo su Germania.

Germania guadagnò un sospiro, e anche i lineamenti del suo volto si distesero, sciolsero l’aura di fumo nero che lo aveva avvolto come una seconda ombra. Acquietò il timbro di voce. “Con nuove ondate, ovviamente,” rispose. “E sfruttando l’obiettivo che abbiamo raggiunto conquistando Maleme. Organizzeremo nuovi attacchi ad area con i Junker, decollando dalla base di Tanagra.” Indicò la città di Maleme con un cenno del mento. “Da Maleme, invece, ci allargheremo facendo arrivare dei rinforzi dal campo di volo che ormai è praticamente in mano nostra. Dobbiamo assolutamente completare l’assedio del fiume Tavronides e costruire la testa di ponte. Una volta fatto, saremo in grado di portare mezzi, rifornimenti e artiglierie su tutta l’isola, e a quel punto per noi sarà facile completare l’assedio e la conquista.”

Romano scrollò le spalle, senza alzare gli occhi, e parlò per la prima volta. “Abbiamo anche i rinforzi via mare, se è per questo.”

Tutti lo fissarono, e Ungheria sussultò, colta alla sprovvista. Nessuno si mosse.

Romano si girò verso di loro, si mise a braccia conserte, e flesse il capo verso Germania, rivolgendogli un’occhiata fredda. “I miei convogli sono ancora in grado di affrontare quelli di Inghilterra, se il problema più grande da superare è la difesa della Baia di Suda. Potrei dare ordine di tentare un altro assalto e di sfondare la difesa costiera usando la Terza Flottiglia del Dodecaneso e attaccare la Forza C inglese.” Sollevò le sopracciglia in uno sguardo più fine e provocante. “Se mi dai il permesso.”

Germania concentrò lo sguardo solo su di lui, isolandosi dalle occhiate più tese che si stavano scambiando gli altri. “Ovviamente,” rispose. “Gli stormi della Luftwaffe poi faranno da scorta. Proteggeranno loro le torpediniere.”

Romano sbuffò. “Grazie tante.”

Austria si scrollò di dosso quella sensazione di disagio che lo aveva punto come una spina di ghiaccio, e si ricompose allentando il bavero della giacca. “E riguardo la questione...” Diede un’aggiustata alla montatura degli occhiali, spingendoli alla radice del naso. “Di Rethymno ed Heraklion?” chiese. “Dopo il nostro abbandono di questo pomeriggio, i campi sono ancora tutti in mano inglese. Sarà difficile riuscire a sfondare la loro difesa, ora che l’effetto a sorpresa verrà meno.”

“Me ne rendo conto.” Germania tornò a intrecciare le mani davanti al volto che si macchiò nuovamente di un’ombra grigia e stanca, ma tenne gli occhi alti. “Ma tenteremo lo stesso un altro sfondamento. Ci divideremo di nuovo in due squadre e prenderemo di mira non solo i campi di volo, ma anche i centri abitati.”

Austria corrugò un sopracciglio. Gettò a Germania un’occhiata scettica e cauta come quella che gli aveva rivolto quando lui aveva ordinato la ritirata, ignorando la presenza di Inghilterra che stava ancora occupando il campo di battaglia. “Sei sicuro che sia la decisione giusta? Intendo...” Si mise anche lui a braccia conserte e rilassò le spalle sullo schienale. La sua voce si ammorbidì. “Sei sicuro di star compiendo le scelte più opportune per il proseguimento dell’offensiva, anche a fronte di un attacco fallimentare come quello di oggi?”

Gli occhi di Germania tornarono a stringersi. Gettarono un abbaglio affilato e metallico, sguainato sulla difensiva. “Cosa vuoi dire?”

Ungheria si portò una mano alle labbra e si rosicchiò le punte delle unghie, i nervi tesi e i muscoli rigidi. Spostò gli occhi da Germania ad Austria, da Austria a Germania, e sentì quei loro sguardi addensarsi e intrecciarsi come un reticolo di corrente elettrica che scaldava e faceva ronzare l’aria in tutta la camera. Il respiro divenne soffocante.

“Quello che voglio dire,” riprese Austria con lo stesso tono duro, “è che forse non è stata una scelta saggia permettere a Prussia di separarsi da noi e di seguire le operazioni nell’Atlantico. Sarebbe dovuto rimanere qua ad aiutarti a coordinare l’attacco, in modo...” Un bagliore più misterioso gli attraversò le lenti. “Da evitare spiacevoli incidenti.”

Bulgaria e Romania si guardarono di sbieco, ed entrambi rimasero rigidi come statue di sale, trattennero il fiato. Anche Romano sgranò gli occhi, li fece correre fra Germania e Austria, come visualizzando quella saetta che era schioccata fra i loro sguardi. Ma cosa gli prende?

Germania corrugò la fronte, raddrizzò le spalle, e tornò a viso alto. “Non credi al fatto che io possa terminare l’assedio su Creta da solo.” Non era una domanda.

“Non ho detto questo.” Austria si strinse nelle spalle e sospirò. “Dico solo che Prussia compensa certe mancanze nella tua strategia. Dopotutto, in guerra non esistono scusanti ma solo...” Attraverso il suo sguardo piatto e freddo passò un lampo di furbizia. “Errori e conseguenze.” Le sue parole fecero eco a quelle pronunciate da Germania, suonarono come una provocazione. “O mi sbaglio?”

Germania irrigidì, rimase immobile, strinse i pugni facendo scricchiolare un angolo della carta fra le dita, e i suoi occhi congelarono l’ambiente. Quelle parole lo avevano colpito come un pugno alla bocca dello stomaco. Le guance erano impallidite, il battito del cuore si era appesantito.

Austria si alzò, si rimboccò il bavero della giacca, e spostò già un piede verso l’uscita, con un movimento lento. “Riflettici.”

Ungheria scattò in piedi a sua volta prima che lui potesse compiere un passo e lo seguì. “Austria, aspetta.” Si allontanarono entrambi, lasciando quell’atmosfera di ghiaccio elettrico che ronzava sulla pelle arrivando ad annodare lo stomaco.

Germania distese i pugni che aveva impietrito, rilassò la tensione dei muscoli e scosse il capo, si passò una mano sul viso spingendo i capelli all’indietro. “Fra un paio d’ore vi comunicherò le direttive. Fino a quel momento...” Rivolse a tutti gli altri uno sguardo più stanco e distante. “Cercate di riposare e di riprendere le forze. Domani dovrete essere in piena forma.” Piegò un cenno col capo verso l’uscita. “Andate.”

Bulgaria scattò in piedi per primo, senza farselo ripetere. Si gettò il panno umido – ormai intiepidito – attorno al collo, e strinse un braccio di Romania per farlo alzare dietro di lui. Lo spinse via tenendosi appiccicato alla sua spalla e tornò a mormorargli accanto all’orecchio. “E io che pensavo si sarebbero sbranati.”

Romania gli strinse il braccio a sua volta e gettò un’occhiata fulminea da sopra la spalla. “Ssh,” sibilò fra i denti. “Stai zitto, scemo.”

“Che c’è?” Bulgaria si lasciò scappare una ridacchiata. “Sarebbe stato epico. Almeno una distrazione da tutto il macello di oggi.”

Romano si trovò congelato sulla sedia, da solo nella camera assieme a Germania. Il suo sguardo volò verso le quattro ombre che se ne stavano andando, tornò su Germania, stando basso e nascosto sotto i capelli che ricadevano in disordine sulla fronte, e intercettò una sua occhiata più mite che lo catturò come un risucchio. “Tu stai bene, Romano?” gli disse.

Romano sobbalzò e strinse i denti. Le unghie si piantarono nella manica che stava strofinando. Merda, ringhiò mentalmente. Adesso sembra quasi che sia solo io dalla sua parte. Come se fossi l’unico ad aver capito perché l’ha fatto e l’unico disposto a giustificarlo. Chinò lo sguardo, abbandonandosi al peso della colpevolezza. Che poi forse è anche vero così. Sospirò, si tenne il braccio stretto e rannicchiò le ginocchia chiuse. Annuì con un gesto fioco. “Sì.”

Lo sguardo di Germania gli percorse il fianco. “Le ferite?”

Romano massaggiò d’istinto il rilievo delle bende, attorno alle ferite che continuavano a bruciare e che ogni tanto sentiva ancora sanguinare e inumidirgli l’imbottitura di garza, ma scosse le spalle. “Guariranno.” Non alzò gli occhi da terra.

Germania annuì con un movimento impercettibile, si alzò anche lui dalla sedia e si allontanò con un sospiro, passando dietro la sua schiena. “Vai a riposarti.” Uscì. La sua presenza abbandonò la camera lasciando un’impronta fredda e buia, come se la sua ombra fosse rimasta incollata alle pareti.

Romano tenne la coda dell’occhio ferma sulla sua sagoma di Germania che si allontanava, fino a che il rumore dei suoi passi non svanì assieme a lui. Tornò a guardare la sedia vuota accanto a lui, tornò a sentire quel buco nell’anima che gli bruciava il cuore, e deglutì a fondo per ingoiare la voglia di pianto che scottava più delle ferite che si stavano rimarginando. Incrociò le braccia sul tavolo, scivolò con le spalle in avanti, e rintanò la faccia fra gli incavi dei gomiti. Rimase lì.

 

♦♦♦

 

20 maggio 1941,

Rethymno, Isola di Creta

 

Una goccia di rum percorse l’orlo del bicchiere che pendeva dalla mano socchiusa di Inghilterra. La goccia piovve dall’ovale di vetro, seguita da un filo di liquore bruno come ambra sciolta, e allargò la chiazza scura che si stava espandendo sul pavimento della tenda, sotto il fianco della brandina su cui giaceva il corpo sdraiato di Inghilterra. I piedi nudi sporgevano dall’estremità inferiore, il braccio cadeva dall’orlo lasciando riversa al suolo la mano che reggeva il bicchiere, la guancia schiacciava il fagotto della sua giacca appallottolata che stava usando come cuscino, e i capelli spettinati si erano incollati al viso cinereo. Rauchi sospiri di fiato inasprito dai vapori dell’alcol passavano attraverso le labbra socchiuse. Una patina di stanchezza teneva unite le palpebre nere e gonfie, e gli faceva luccicare le ciglia.

Dal bicchiere cadde un’altra goccia, andò a battere sulle tavole di legno che rivestivano il pavimento. Plic! E quella vibrazione cristallina si trasmise anche agli altri cinque bicchieri vuoti e laccati di rum, di cui uno rovesciato, che tenevano fermi gli angoli di una cartina di Creta aperta sotto la brandina, lontana dal tavolo da dove pendevano altre mappe millimetrate segnate sui bordi da file di calcoli scritti a matita. Croci e cerchi si disperdevano nel territorio dell’isola invasa dalle frecce che schizzavano fuori dalle coste dell’Attica. La città di Maleme era sbarrata da violente graffiate di matita rossa. Tre chiazze di rum sgocciolate dal bicchiere vuoto avevano sciolto e appannato i profili dei monti che si rialzavano nel territorio.

Inghilterra girò la guancia spremendola contro la sua giacca appallottolata, e vi soffocò un rantolio. Un’ondata di nausea gli gonfiò la testa, gli diede l’impressione di star galleggiando a mezz’aria fra le pareti della tenda. L’odore del rum rovesciato sul pavimento e il sapore che ristagnava nel suo stomaco ribaltarono la pancia facendo sorgere un conato di bile che gli bruciò la lingua. Inghilterra contrasse il ventre, fece stridere le unghie sul bicchiere, strizzò le palpebre gonfie e nere come lividi, e strinse i denti per contenere un rantolio di nausea e dolore. Si rotolò supino facendo cigolare la branda, e quel movimento gli diede l’impressione di essere un cubetto di ghiaccio che viene mescolato all’interno di una coppa di whisky. Mollò il bicchiere e si prese la faccia fra le mani. Spinse le dita contro gli occhi che pulsavano come se qualcuno gli avesse gonfiato i bulbi oculari fino a spremerglieli fuori dal cranio, e mugugnò contro i palmi. “Urgh, la testa.” Si diede una strofinata alla fronte con le dita umidicce e ancora dolciastre di rum, si passò una mano fra i capelli scoprendosi gli occhi dalle ciocche, e sbatté le palpebre. Mise a fuoco il soffitto della tenda.

Lampeggi di dolore gli abbagliarono la vista. Martellate di luce picchiarono contro la testa e gli fecero vedere triplo, il nodo di nausea lievitò in fondo allo stomaco e gli riempì la bocca di un sapore acido, sudori freddi gli imperlarono la fronte e le guance, la sua faccia divenne bianca e ghiacciata come marmo d’inverno.

Inghilterra tornò a tapparsi il viso, a isolare il fischio che gli stava trapanando le orecchie, e tornò a immergersi nella bolla di nero che aveva cominciato a condensarsi già dopo il terzo bicchiere di rum riempito fino all’orlo e scolato in sole due ingollate. Nel buio, riaffiorarono le immagini della giornata che ancora gli pesava sulle ossa, sui muscoli e sul cuore. Tante fotografie che parevano riaffiorare e galleggiare sulla superficie di un lago nero. La sagoma della pistola che Italia gli aveva premuto sulla fronte tornò ad avvicinarsi al suo campo visivo, la fioca luce che aleggiava nel ricordo delineò il profilo del suo volto rigato dalle lacrime che continuavano a gocciolargli dalle palpebre, quegli occhi straziati e colmi di dolore tornarono a penetrargli lo sguardo, a forargli il cuore come un pugnale. Inghilterra percepì di nuovo le vibrazioni trasmesse dai brividi che scuotevano le gambe di Italia allacciate al suo torso, gli stessi tremori che scuotevano la sua voce rotta dai singhiozzi e strozzata dal groppo di pianto che pesava in fondo alla gola. “Io non sono una nazione debole, io non sono l’ombra di mio nonno, io non sono il cane di Germania. Perché non riesco a dimostrarlo a nessuno?” L’immagine si dissolse. I colori e le ombre si sciolsero come una pozza di acquerelli e si riformarono, composero l’immagine di Italia abbracciato al collo di Germania che lo teneva stretto a sé dopo avergli staccato la pistola dalle mani. La sagoma dei loro corpi abbracciati si allontanava, la loro ombra si rimpiccioliva fino a sparire, abbandonando i fumi del campo di battaglia e lasciando nel petto di Inghilterra un doloroso buco di pietà e sensi di colpa che si era piantato come un chiodo nelle costole.

Inghilterra soppresse un altro grugnito dentro le mani incollate al viso, soffiò un sospiro caldo e appesantito dal rum, e tornò rosso in viso, caldo all’altezza delle guance, dove quel disagio che provava in fondo alle viscere era salito a formicolare. Urgeva un altro bicchiere.

Fece cadere un braccio dalla branda, urtò uno dei bicchieri vuoti con la mano e lo rovesciò, sollevò il trillo del vetro che era andato a sbattere contro quello vicino, e distese le dita sul pavimento, tastò in cerca di un’altra fiasca piena. La vista ancora rivolta al soffitto della tenda continuava a ondeggiare, a sdoppiarsi e a ricomporsi, a illuminarsi e a macchiarsi di aloni neri. Non dovrei bere così tanto, dato che domani dobbiamo continuare a difendere l’isola. Inghilterra si accasciò sul fianco, spostò la mano facendola scivolare in mezzo ad altri due bicchieri unti di rum, e la infilò sotto la branda, continuando a cercare. Fece spallucce. Bah, al diavolo. Ne aveva troppo bisogno.

I lembi della tenda si spalancarono e sbatterono contro le pareti di tela, una sagoma si materializzò all’entrata e la sua voce squillò come una martellata data a una campana d’ottone. “Inghilterraaa!

Inghilterra sobbalzò e ricadde sulla branda, cacciò un grido di panico che gli fece schizzare il cuore in gola. “Ah!” Tornò ad afferrarsi la testa e tenne ferma la vista che si era di nuovo sdoppiata, lampeggiando come un faro puntato dritto negli occhi. “Dannazione.”

Australia entrò nella tenda, sollevò le due gavette di acqua limpida che gocciolavano lungo i bordi d’alluminio, e allargò un sorrisone solare che illuminò tutto l’ambiente in penombra. “Ti ho portato l’acqua per il dopo sbornia!”

Inghilterra ringhiò morsicandosi il labbro inferiore fra gli incisivi, raggiunse uno dei bicchieri di rum vuoti e lo stritolò fra le dita facendoci stridere le unghie sopra. “Quale dopo sbornia?” Sollevò le spalle dalla branda reggendosi con il gomito, tirò sopra la spalla la mano che reggeva il bicchiere, e alzò la voce. “Chi ha bisogno di un dopo sbornia?” Le guance bruciarono di nuovo per alcol e rabbia. “Per avere un dopo sbornia devi essere ubriaco!” Scagliò il bicchiere contro Australia. “Io non sono ubriaco!”

Australia si abbassò di colpo. Il bicchiere volò sopra la sua testa con un fischio, si schiantò sulla parete della tenda, la tela si deformò accogliendo il suo peso e lo sbalzò lontano, facendolo ricadere sulle assi di legno che rivestivano il pavimento. Australia lo scavalcò con un saltello, compì altri due rimbalzi per schivare gli altri bicchieri vuoti, e andò al tavolo dove erano sparse le mappe di Creta e del Peloponneso. Annuì a Inghilterra, tornò a sorridergli con aria accomodante. “Okay, okay.” Gli mostrò di nuovo le gavette lucide e scintillanti, imperlate di condensa. “Allora facciamo che io lascio queste qua per quando sarai abbastanza ubriaco da averne bisogno, okay?”

Inghilterra sbuffò alzando gli occhi al soffitto. Fece scivolare le gambe giù dalla branda, appoggiò a terra i piedi nudi, piantò i gomiti sulle cosce e tornò ad afferrarsi la testa fra le mani. Si massaggiò le tempie e la fronte, spalmò via dal cranio il dolore che continuava a picchiare sulle ossa e a ovattargli la mente come una nuvola di fuliggine. “Vattene da Nuova Zelanda e bada che non si muova troppo,” brontolò. “Le ferite sono ancora fresche e rischiano di perdere troppo sangue, fallo stare fermo. E vale anche per te.”

Australia spostò una delle mappe e appoggiò le due gavette d’acqua sul tavolo. Si strinse nelle spalle mantenendo quel sorriso solare e sereno. “Guarda che Kiwi è già da un’ora che è in piedi. Sta facendo un giro del campo per controllare gli altri soldati feriti.”

Inghilterra aggrottò la fronte, trattenne un ringhio, e la sua vista divenne rossa. “Mai che ascoltiate, una buona volta. Mai che ascoltiate.”

Australia soffiò un sospiro, scosse il capo, schivò altri bicchieri sparsi a terra facendo scricchiolare le assi di legno, e tornò ad attraversare la stanza che odorava di rum. Aprì un lembo della tenda, si affacciò all’aria della sera che si stava già tingendo di indaco, illuminata da qualche fuocherello che brillava nell’accampamento, e si bloccò con il braccio ancora sollevato. Buttò un’occhiata alle sue spalle, alle mappe aperte sul tavolo, alla cartina spiegata sotto la branda di Inghilterra, ai segni rossi, alle croci e ai cerchi, e flesse un sopracciglio in un’espressione interrogativa. Tornò a guardare Inghilterra. “Però io non ti capisco,” gli disse.

Inghilterra fece scivolare le dita dalle palpebre nere, e anche lui scoccò ad Australia uno sguardo confuso. “Capirmi per cosa?” Aveva ancora la voce impastata dall’alcol.

Australia mollò il lembo della tenda che tornò ad appiattirsi tappando l’entrata, e levò i palmi al soffitto stringendosi nelle spalle. “Perché ti disperi?” fece con tono scanzonato. “Stiamo andando forti, l’isola è praticamente ancora tutta in mano nostra. Dovremmo festeggiare!”

Inghilterra tornò a sentire un peso di piombo crollargli sul cuore e riaprire quel buco nel petto che pareva succhiargli l’anima. Lasciò cadere la testa in mezzo alle spalle e la scosse, tornò a passarsi le mani sul viso e a stropicciarsi la pelle rigonfia attorno alle palpebre. “No, non dobbiamo festeggiare,” si lamentò. “Non c’è un bel niente da festeggiare.” Spostò un piede nudo e scoprì la cartina di Creta. L’immagine allungata dell’isola e i segni rossi che la trafiggevano gli provocarono un altro conato di nausea. “Germania oggi ha subito un bel colpo, ma l’effetto sorpresa era la nostra cartuccia migliore e ora non possiamo fare altro che procedere per inerzia, continuando quello che abbiamo cominciato fino a spegnerci lentamente quando i tedeschi arriveranno a divorare l’intera Creta. Più ci penso...” I suoi occhi rossi di alcol e gonfi di sonno e dolore si persero in una nebbia grigia di smarrimento e disperazione. “E più comincio a realizzare quanto folle fosse questa missione di difesa. Senza contare il fatto che...” Altri lampi tornarono ad abbagliargli lo sguardo. Gli schiaffarono in faccia altre immagini strappate dalla pellicola della giornata passata a combattere e a correre attraverso i campi di ulivi. I soldati che sfrecciavano in mezzo ai nuvoloni di polvere, i lampi delle armi, i rombi dei bombardieri, i tuoni delle esplosioni fra le mura della città. E quella sensazione dura e fredda che nemmeno il calore dell’alcol era riuscito a sgarbugliare dal suo petto. Inghilterra restrinse gli occhi sulla mappa di Creta, la sua voce si fece più bassa e acida, il suo viso più tetro. “C’è qualcosa che non mi convince.”

Australia sbatté due volte le palpebre, lo sguardo ancora spaesato. “E cosa?”

Inghilterra incrociò le braccia contro le ginocchia e rantolò un sospiro più pesante. Flesse le spalle in avanti per avvicinarsi alla mappa spiegata sul pavimento in mezzo ai bicchieri e picchiettò un piede scalzo a terra. Il calore del liquore che fumava nel suo cervello accelerò i suoi pensieri, li fece ronzare attraverso le orecchie, e la fronte di Inghilterra si corrugò in un’espressione assorta. “Ho combattuto praticamente in ogni centimetro di Creta.” Piantò la punta del piede contro l’insegna di Maleme trafitta dai segni di matita. “Ho seguito l’assedio della prima ondata a Maleme assieme a Nuova Zelanda.” Fece strisciare il piede verso est. “Siamo passati per La Canea e per Rethymno per riuscire a raggiungere te. E in tutto questo...” Scosse lentamente il capo. Un brivido gelido gli scivolò lungo la schiena, come se una goccia di rum gelato gli fosse piovuta sotto la giacca. “Non ho nemmeno incrociato l’ombra di Prussia.”

Australia sbatté di nuovo le palpebre. Un barlume di sorpresa gli attraversò gli occhi. “Prussia, dici?” Compì un paio di passi all’interno della tenda e tornò a stringersi nelle spalle. “Ma perché dovrebbe essere importante?” chiese. “Magari è solo rimasto ad Atene. Qualcuno doveva rimanere su a coordinare i lanci, il Quartier Generale e tutto il resto, no? E a tenere d’occhio Grecia.”

“Sì, ma non Prussia.” Inghilterra tenne i gomiti premuti sulle ginocchia e sollevò il capo. Intrecciò le mani davanti al volto, lasciando che l’ombra gli rabbuiasse lo sguardo, e tamburellò le dita sulle nocche. Il piede scalzo continuò a picchiettare sul pavimento. “Uno come lui che si lascia sfuggire l’occasione di farsi un bel bagno di sangue per rimanere ad Atene a stare chino su mappe, calcoli e bollettini radio? No, piuttosto avrebbero lasciato Austria.” Scosse le spalle. “O, almeno, io avrei fatto così. Per di più, l’operazione su Creta è delicata tanto per noi quanto per loro, sicuramente anche Germania lo sa e non la starà prendendo sottogamba. Che senso avrebbe lasciare il cavallo migliore chiuso nella stalla, quando c’è bisogno della forza di tutti per riuscire a strapparci l’isola dalle mani?” Spostò il piede, tornò a scoprire la carta di Creta, ma la sagoma dell’isola tornò a evocare in lui un forte senso di nausea, un bruciore di rabbia incandescente che scottava più di tutte le sorsate di rum che si era scolato. Inghilterra serrò i denti, stritolò le dita intrecciate graffiandosi le nocche, e pestò la carta con il piede. “Dove diavolo è, maledizione?” ringhiò. “Che cosa stanno confabulando che noi non sappiamo?”

Australia scosse il capo, gli si avvicinò, e si chinò a raccogliere la cartina di Creta da sotto il suo piede. “Forse avremmo potuto scoprirlo,” fece roteare lo sguardo, “se solo non se fossero andati così all’improvviso.”

Inghilterra aprì la bocca per rispondergli, ma i lembi della tenda tornarono a spalancarsi facendo entrare una zaffata di aria fresca. Un’ombra si materializzò all’entrata. “Signore.” Sbucò il viso di un ufficiale che si guardò attorno e si soffermò su Inghilterra e Australia. L’uomo si mise dritto in attenti, la posa solenne ma i muscoli frementi di impazienza come il suo sguardo leggermente accaldato. “Chiedo il permesso di entrare, signore.”

Inghilterra lasciò di nuovo ciondolare il capo fra le spalle, aprì le mani sulla faccia seppellendovi un sospiro rauco ed esausto, e tornò a massaggiarsi gli occhi spremendo profondi movimenti circolari contro le palpebre. “Spero sia maledettamente importante.”

“Sissignore,” annuì l’ufficiale. “È urgente, signore.” Sollevò un foglietto giallo che teneva stretto fra le dita e lo sventolò. “Un bollettino dall’Ammiragliato di Londra.”

Australia finì di ripiegare la mappa di Creta che aveva appena raccolto e sollevò un sopracciglio. “Da Londra?” Un luccichio di curiosità gli balenò negli occhi, come la scintilla sulla punta di un diamante.

Inghilterra tirò su la testa di colpo, sgranò gli occhi cerchiati di nero, e la stessa scossetta di sorpresa che aveva punto Australia gli corse attraverso la schiena. “Da Londra?” Si rialzò di scatto e un capogiro gli vorticò attorno alla testa, fece oscillare le pareti della tenda, i suoi piedi si incrociarono urtando uno dei bicchieri vuoti, e Inghilterra dovette prendersi la testa fra le mani per fermare la trottola di vertigini.

Australia lo acchiappò per un braccio e lo tenne dritto. “Vuoi che ci pensi io? Non stai in piedi, nonno.”

Inghilterra si strappò via dalla sua presa e lo guardò di traverso. “Non dire idiozie.”  Dall’Ammiragliato? Quel pensiero continuò a frullargli nella testa e a pungerlo come il rum che gli brontolava nello stomaco. Ma cosa potrà mai...

Si allontanò da Australia e si portò a piedi scalzi davanti all’ufficiale ancora sull’attenti. Tese il braccio, aprì la mano verso il bollettino, trafisse l’uomo con occhi inquisitori. “Di che cosa si tratta?”

 

.

 

Si era rimesso gli stivali. Inghilterra camminava su e giù nell’ambiente della tenda da campo in cui filtrava sempre meno luce, e i suoi passi schioccanti risuonavano sul pavimento di assi di legno sgombro dai bicchieri vuoti. Apriva e stringeva le mani giunte dietro la schiena, piccoli e nervosi gesti che spremevano fra le dita tutta la tensione che gli correva nel sangue, e guardava a terra. La mente più lucida, gli occhi meno rossi anche se ancora gonfi e cerchiati di nero, la testa più leggera, e lo stomaco già pieno di due bicchieri d’acqua che aveva bevuto mentre rileggeva il bollettino dell’Ammiragliato per la quindicesima volta.

Inghilterra si girò e continuò a camminare dalla parte opposta, appesantendo il passo. Emise un profondo sospiro, aprì e strizzò le mani chiuse dietro la schiena. “Due grandi navi da guerra,” borbottò. In testa rivide le parole stampate sul bollettino trapassare gli altri pensieri come la lama di una spada e riempirgli la mente solo con il loro suono. “Due grandi navi da guerra tedesche sono state avvistate mentre navigavano lungo il fiordo Kattegat,” ripeté, “fra Svezia e Danimarca, dirette con ogni probabilità verso nord, con obiettivo ignoto.” Si girò, riprese la marcia, e sciolse una mano per portarla a massaggiarsi la fronte e le tempie. Grugnì un sospiro più aspro, in viso divenne livido come le sue palpebre. “Che gran bella notizia da ricevere mentre ci troviamo dall’altro capo d’Europa, nel bel mezzo di un’operazione da cui dipenderà l’intero destino della guerra.”

La fatina fece dondolare le piccole gambe dall’orlo della gavetta svuotata, i piedini agitarono le pieghe dell’abito a sbuffo e toccarono la superficie di alluminio, facendola trillare come una campanella. Lei scrollò le spalle, si passò una mano fra i capelli biondi e li lasciò ridare fra le ali aperte. “Be’, sai com’è che si dice, no?” Rigirò la manina davanti al viso, si esaminò le unghie, e piegò un piccolo sorriso beffardo. “I guai non vengono mai soli.”

Il coniglietto volante si arrampicò sull’orlo del tavolo lasciando le ali piumate ripiegate sulla schiena. Si tenne appeso con le zampine anteriori, spinse il musetto oltre il bicchiere d’acqua ancora pieno – il terzo – e arricciò il nasino accanto al bollettino che avevano lasciato aperto vicino alle carte di Creta. Gli diede un’annusata. “È stato Svezia ad avvertirci, giusto?” Si rivolse a Inghilterra. “Quindi almeno su quello possiamo stare tranquilli, dato che Svezia non imbroglierebbe mai nessuno e dato che non otterrebbe nulla nell’ingannare qualcuno visto che è neutrale.”

Inghilterra si strinse nelle spalle. “E se non altro...” Si riavvicinò anche lui al tavolo, stese il braccio e aprì la mano sulle carte. Sotto le mappe del Peloponneso, da qualche parte, giaceva ripiegata anche una carta dell’intera Europa. “Almeno ora sappiamo dove si trova Prussia.” La sua mano fremette, un brivido di sollievo e allo stesso tempo di timore gli scosse il braccio fino al cuore.

La fatina e il coniglietto si scambiarono un’occhiata di sbieco, lui da dietro un’orecchia cadente e lei da dietro una ciocca di capelli che le era scivolata sul viso.

La fatina tornò a pettinarsi e sbatacchiò le ali facendo piovere una nuvoletta di polverina color lavanda dentro la gavetta vuota. “Credi davvero che sia lui a guidare le due navi al Nord?”

“Ma allora vuol dire che anche al Nord la faccenda è seria,” esclamò il coniglietto. “Più seria di quello che crediamo, altrimenti Prussia non avrebbe mai abbandonato Creta per occuparsi di un’operazione di poco conto.”

Inghilterra si strinse il mento, corrugò un’espressione assorta e si massaggiò le guance. “Uhm.” Si batté l’indice sul labbro inferiore. “Due navi,” rimuginò di nuovo, immaginando il profilo delle imbarcazioni scivolare sull’orizzonte del mare nero, contro un cielo plumbeo e gonfio di nuvole. “Due grosse navi da guerra tedesche dirette al Nord. È chiaro che passeranno proprio sotto il naso della Home Fleet, e magari lo staranno pure facendo apposta.”

La fatina annuì e anche i suoi occhietti si fecero più scuri e seri. “Io direi che sarebbe già ora di inoltrare l’informazione a Scapa Flow per mettere in allerta i convogli.”

Inghilterra scosse il capo, ancora aggredito da quel groviglio di dubbio che gli stava ribollendo nello stomaco peggio della bevuta di rum. “Ma cosa diavolo staranno cercando di fare nel territorio che è sotto la nostra copertura?”

Anche il muso del coniglietto si arricciò in un’espressione dubbiosa. “Uhm.” Il coniglietto sbatté due volte le ali facendo piovere una piuma a terra, si diede una spinta con le zampe posteriori e si accucciò con tutto il peso sul tavolo. Saltò fino alle carte, spostò quella di Creta con il musetto, e andò in cerca di quella europea che ritraeva anche i mari nordici. “Ti hanno già detto che genere di navi sono?”

“Oh, probabilmente saranno due incrociatori,” gli rispose Inghilterra. “Hanno detto che una potrebbe essere una corazzata, ma...” Si strofinò la nuca e scosse la testa. “È impossibile. L’unica corazzata che i tedeschi potrebbero sferrare per un’operazione simile potrebbe essere solamente...”

“È la Bismarck!” La fatina saltò in piedi sull’orlo della gavetta e spalancò le ali di colpo. I suoi furbi occhietti dalle sfumature viola si accesero, l’aura attorno a lei divenne elettrica, spruzzò scintille agitandole i capelli. “È ovvio che una delle due è la Bismarck,” tornò a esclamare lei. “Mi ci gioco le ali.”

Un soffio di brividi corse anche sulla schiena di Inghilterra, gli annodò lo stomaco facendogli salire una pelle d’oca che pizzicò lungo tutte le braccia. Inghilterra si morse il labbro, stette in silenzio, e le guance riacquistarono un po’ di pallore. La Bismarck?

Il coniglietto scosse la testolina facendo dondolare le orecchie. “No, non può essere, i tedeschi hanno concluso le prove solo un paio di mesi fa, non possono averla già spedita per una missione in mare aperto.”

La fatina strinse i pugnetti, le ali frullarono di agitazione, i suoi occhietti si illuminarono di una luce più aggressiva. “Proprio perché le hanno fatto fare un sacco di prove di tiro che adesso sarà ancora più preparata ad affrontare una missione vera, con l’equipaggio fresco e perfettamente addestrato.”

“E allora l’altra nave?” ribatté il coniglietto. “Un’altra corazzata?”

“Uhm.” La fatina richiuse le ali, acquietò l’aria attorno a lei rilassando la tensione dei suoi muscoli, e levò gli occhietti al soffitto. Si batté l’indice sulle labbra e si strinse nelle spalle. “Forse la Tirpitz?”

“No.” Questa volta fu Inghilterra a scuotere il capo. “Impossibile che sia la Tirpitz, non era ancora pronta a entrare in acqua. Poi, accanto a una corazzata è più probabile che ci sia un incrociatore.”

“Lo Scharnost?” Il coniglietto flesse la testolina mimando sguardo interrogativo. “O la Gneisenau?”

La fatina incrociò le braccia al petto e fece roteare lo sguardo al soffitto. “Ma se sono ancora fuori combattimento dopo che li abbiamo attaccati. Poi sono ormeggiati in una zona che è costantemente sotto il tiro della RAF, avremmo notato subito un loro spostamento.” Sbatté le ali, si alzò in volo, e si allontanò dalla gavetta di alluminio. Atterrò sull’orlo del bicchiere d’acqua ancora pieno e unì i palmi, diede una sfregata alle manine gonfiando una nuvoletta di polvere viola. “Fidatevi, una è la Bismarck, non c’è altra opzione.” Batté le manine, lasciò cadere la polverina nell’acqua, e un colorito bruno invase il bicchiere come una colata di inchiostro. Si levarono vapori dolci, sciropposi e pungenti. L’acqua era ridiventata rum. La fatina volò via, circondò il bicchiere con un campo di magia color lavanda e lo fece fluttuare fino a Inghilterra. “Contando poi che è proprio Prussia quello che manca all’appello qua a Creta, è ovvio che lui per primo avrebbe voluto salire sulla nave che porta il nome di...”

Inghilterra sospirò, esasperato. “Va bene, va bene, ammettiamo...” Acchiappò il bicchiere fluttuante, fece ondeggiare il liquore appena trasmutato fra le pareti, e buttò giù un altro sorso pensando: al diavolo. Si leccò le labbra e tamburellò le unghie sul vetro, tornò a camminare avanti e indietro. “Ammettiamo che una delle due sia davvero la Bismarck.” La sua fronte tornò a corrugarsi in quell’espressione di dubbio e tensione. “Cosa dovrei fare?” sbottò. “Come dovrei reagire? Non so nemmeno il perché stiano portando due navi da guerra verso l’Atlantico.”

La fatina fece tamburellare le dita sulle braccia incrociate e sollevò un sopracciglio. “Mhm.” Ronzò di nuovo attraverso il tavolo, distese le braccia, spalancò le manine gettando l’aura color lavanda in mezzo alle carte, e spiegò le mappe fino ad arrivare a quella europea. La distese, la riadagiò sul tavolo, e vi volò sopra. Atterrò appoggiando i piedini nudi sul tratto di mare fra Groenlandia e Isola di Jan, la sua ombra si allargò sulla distesa azzurra. “Ultimamente...” Camminò lungo il mare affettato da meridiani e paralleli. “Ci sono state un sacco di ricognizioni aeree da parte della Luftwaffe in questo tratto di mare qua, proprio nel punto di accesso all’Islanda.” Si girò verso Inghilterra e gli indicò la mappa sotto di lei. “È ovvio che i tedeschi stanno macchinando qualcosa. Anzi, avremmo dovuto accorgercene prima di adesso e avremmo anche dovuto alzare subito le barriere difensive.”

“Forse stanno solo pattugliando il mare per poter trasportare ancora più navi?” propose il coniglietto.

“Ma la domanda rimane.” Anche Inghilterra posò gli occhi sulla mappa. Il suo sguardo volò fra le isole, percorse il mare in mezzo ai fiordi, attorno alla Gran Bretagna, lungo le coste della Groenlandia. Stese il braccio che reggeva il bicchiere facendo piovere una gocciolina di rum. “Perché lo stanno facendo? Cosa vogliono ottenere? Un movimento del genere...” Aprì la mano libera sulla carta e strinse le unghie. Graffiò un nome. ‘Norvegia’. “Mi fa quasi pensare che stiano andando in Norvegia a raccogliere uomini e navi,” il suo sguardo tornò a salire, “per poi proseguire verso nord e preparare una massiccia invasione di sbarco in Islanda o nelle Isole Fær Øer.”

Il coniglietto gli zampettò vicino, toccò la mappa con la punta del musetto peloso. “Non potremmo avere più informazioni sulla rotta che stanno seguendo?” propose. “Così almeno potremmo capire dove sono realmente diretti.”

“Potremmo comunque considerare diverse rotte e andare a esclusione.” Inghilterra riappoggiò il bicchiere ancora pieno di rum e stese l’indice verso la Groenlandia. “Lo Stretto di Danimarca,” fece scivolare il polpastrello più in basso, “il passaggio fra Islanda e Isole Fær Øer,” ancora più in basso, “oppure quello fra Fær Øer e le Isole Shetland,” e toccò le coste della Scozia, “oppure ancora fra le Shetland e le Orcadi. Ma di solito i convogli tedeschi passano sempre per lo Stretto di Danimarca, quindi diamolo per quasi certo.”

“Magari stanno andando in Norvegia solo per portare rifornimenti.” Il coniglietto scivolò seduto sui posteriori e si strinse nelle ali. “Dopotutto, sia Norvegia che Danimarca fanno da base di partenza per gli stormi della Luftwaffe, avranno bisogno di più materiale, carburante, e tutto il resto.”

La fatina tornò a levare gli occhi al soffitto, si strinse l’anca con una manina e fece di nuovo frullare un nervoso ronzio d’ali. “Ma ciò non spiega l’uso di una corazzata simile solo per una semplice operazione di trasporto.”

“No,” ribatté Inghilterra. “Avrebbe senso, invece.” Tracciò un ovale invisibile con l’indice che racchiuse i confini del Mare del Nord. “Questo stretto è una zona molto pericolosa. Probabilmente si stanno semplicemente difendendo in anticipo in vista di possibili attacchi da parte nostra, vogliono solo proteggere il convoglio. Però...” Inghilterra scosse il capo e tornò a strofinarsi la nuca, a corrugare la fronte e a rosicchiarsi il labbro che sapeva di nuovo di liquore. “Rimane sempre il dilemma di Prussia,” rimuginò. “E se c’è di mezzo lui, la cosa migliore da fare è tenere conto dell’ipotesi peggiore che possa verificarsi.” L’indice che aveva appena usato per delineare il confine sulla mappa prese a picchiettare, a battere l’unghia nello spazio di mare azzurro, mentre gli occhi di Inghilterra continuavano a perlustrare i confini di terra. Inghilterra sentì di nuovo il viso bruciare di nervosismo, i bollori lo scaldarono fino alle punte delle orecchie. “Non posso permetterlo,” disse con voce più grave. “Dobbiamo fermare il convoglio, subito.” Tornò a picchiare l’indice sui mari nordici su cui si affacciavano i fiordi norvegesi. “Se Prussia è davvero a comando della Bismarck, e se davvero si stanno preparando a compiere delle operazioni d’assalto o d’invasione, non c’è altra scelta se non combattere direttamente i convogli via mare.”

Gli occhi della fatina si illuminarono come ametiste, le sue guance si imporporarono, e l’aura attorno a lei si tinse di un viola acceso. “Uuh, una battaglia navale!” Le ali fremettero di eccitazione.

Gli occhi del coniglietto rimasero invece velati di ansia, le orecchie basse e mogie come il suo sguardo. “Ma un’operazione del genere richiederà tantissime navi da parte nostra,” esclamò. “Dovremmo effettuare un vero e proprio accerchiamento se vogliamo sconfiggerli. E la Bismarck è troppo moderna e potente, non sarà facile per noi come lo è stato durante l’Operazione Excess, quando ci siamo trovati contro due sole torpediniere italiane.” Il coniglietto sollevò una zampetta e contò sulle punte delle unghie. “La Bismarck è nuova, è robusta, è stabile, è veloce, ed è enorme. È molto più grande e grossa rispetto a qualsiasi corazzata o incrociatore britannico.”

“Tranne lo Hood,” precisò la fatina.

“Lo Hood è solo più lungo.”

Inghilterra si intromise fra i due e sdrammatizzò con una scrollata di spalle. “Allora ci basterà semplicemente radunare molte più navi.”

La fatina sbatacchiò le palpebre, assottigliò le palpebre stendendo un sorrisetto da svampita, e si posò la manina sulla bocca per nascondere una ridacchiata trillante. “Eh eh.” Le sue guance si chiazzarono di rosso. “Ce l’abbiamo più lungo.”

Il coniglietto sobbalzò e la guardò di traverso, lanciandole un’occhiata di rimprovero.

Inghilterra fece finta di non aver sentito e scosse il capo. Raccolse la gavetta ancora colma di acqua fresca, la versò dentro un altro dei bicchieri ancora sporchi di rum, e l’acqua si tinse di un lievissimo colorito bruno. Voleva rimanere lucido. “Vediamo...” Fece oscillare il bicchiere, prese un disgustoso sorso di acqua aromatizzata di liquore, e tornò a passeggiare su e giù fra le pareti della tenda. La nuvoletta di alcol che gli offuscava i pensieri cominciò a dissolversi, l’acqua fresca sciolinò gli ingranaggi del cervello e la sua mente si rimise in moto andando sempre più veloce. “Ci servirà innanzitutto una portaerei, questo è innegabile.”

“La Victorious?” La fatina schioccò le dita, gonfiò uno sbuffo di polverina viola che si dissolse subito, rivelando un foglietto di carta che fluttuava assieme a un mozzicone di grafite. La fatina raccolse carta e grafite, tornò a volare sull’orlo del bicchiere di rum che Inghilterra non aveva finito, si sedette sopra facendo penzolare le gambe, e iniziò a prendere nota. “Considerando che la Illustrious è ancora...” Si morse il labbro e non finì la frase.

“Uhm.” Inghilterra continuò a passeggiare e squadrò il soffitto della tenda, come a sbirciare nei suoi stessi pensieri che gli frullavano nella testa. “L’idea non è male, ma dovrò tenere anche conto che l’equipaggio della Victorious non è perfettamente addestrato per operazioni del genere, specialmente i piloti degli Swordfish. In questa stagione è facile trovare onde alte, e decollare dalle piattaforme delle portaerei è pericoloso. Se non fossero addestrati bene, rischierebbero di schiantarsi.”

“Ma non abbiamo alternative,” disse la fatina, “quindi diamola per buona.” Segnò il nome della portaerei sul suo foglietto e picchiettò la punta della grafite sul foglio. “Chi le affianchiamo? Per proteggere una portaerei di questo calibro ci vorrà una buona forza navale.”

Inghilterra strinse l’orlo del bicchiere d’acqua fra i denti e lo rosicchiò con gli incisivi, corrugò le sopracciglia e continuò a scaldare la testa. Camminò di nuovo davanti al tavolo e schioccò le dita in direzione della fatina. “Repulse.” Le fece cenno di segnare sul foglio. “Non è forte come la Bismarck ma sa farsi valere. E anche,” mulinò l’indice, “La King George V. Direi che fra tutte è l’unica che potrebbe tenere testa a una corazzata tedesca di quelle dimensioni.”

“Okay.” La fatina finì di trascrivere, continuò a dondolare i piedini formando sbuffi fra le pieghe dell’abito di seta, e annuì. “Questo per quanto riguarda la Home Fleet.” Sollevò il mozzicone di grafite e lo picchiettò sul labbro, aggrottando un’espressione pensosa. “Poi sarà anche il caso di avvertire la Forza H. Ora è a Gibilterra, se non sbaglio. Non possiamo lasciare la Victorious, il Repulse e la King George V senza copertura.” Riavvicinò la grafite al foglio e congelò la manina. Un pensiero le fulminò la testa facendole sgranare gli occhi. “Oh, e lo Hood?” esclamò, ricordandosi della battuta che l’aveva fatta arrossire come una scioccherella. “Non possiamo lasciare a casa lo Hood, sarebbe un sacrilegio!”

“È vero!” Il coniglietto sollevò una zampetta per confermare. “È la nostra ammiraglia!”

Inghilterra soffiò un sospiro storto da un’inflessione di dubbio e fece roteare lo sguardo al cielo. “Non lo so,” commentò, “forse sta diventando un po’ antiquato. E se c’è davvero il rischio di andare contro la Bismarck...”

“Oh, suvvia, niente lagne.” La fatina gli puntò il mozzicone di grafite contro, bacchettandolo, e aggrottò le sopracciglia. “Non si lascia a casa l’ammiraglia della Royal Navy, porterebbe solo scalogna e farebbe credere al nemico che non stiamo facendo sul serio.”

“Affianchiamole la Prince of Wales!” Anche gli occhietti neri del coniglietto brillarono di entusiasmo, come gemme di carbone lucido. “Così siamo sicuri che si proteggeranno a vicenda. Non può esistere una battaglia navale senza la Prince of Wales.”

“Parole sante.” La fatina bagnò il mozzicone di grafite con la punta della lingua e segnò tutto sul foglietto. “E per quanto riguarda la scorta?”

Inghilterra tornò a sporgersi verso la mappa e fece correre gli occhi attraverso i mari nordici, sulle coste della Groenlandia, e su quelle della Scandinavia. Picchiettò le unghie sul vetro. “Su al nord abbiamo di pattuglia il Norfolk e il Suffolk.” Indicò l’Islanda con un cenno del mento. “Il Suffolk dovrebbe essere ancora in Islanda a rifornirsi, ma li metteremo in allerta e li farò spostare sullo Stretto di Danimarca. Ovviamente distribuiremo le navi della Home Fleet in modo da dare copertura a ogni imbarcazione.”

La fatina schiuse le mani dal foglietto e dal mozzicone di grafite e spalancò le braccia, esultando di entusiasmo. “Splendido!” Batté due volte le mani. Foglio e grafite svanirono in un puf! ricreando la nuvoletta viola al profumo di lavanda. La fatina accavallò le gambe facendo dondolare il piedino nudo e affilò un sorriso zuccherino, velato di malizia. Sollevò le estremità delle sopracciglia e rivolse a Inghilterra quel fine sguardo di complicità. “Qual è il piano?”

Il mezzo broncio di Inghilterra tornò a flettersi in un’espressione più mite e pensosa. Inghilterra si girò, compì un paio di passi lungo il bordo del tavolo, e mostrò due dita aperte a forma di V alle due creature fatate. “Divideremo le cinque navi di punta in due squadre.” Rivolse le punte delle dita alla mappa, verso le Isole Orcadi. “Da Scapa Flow partiranno Hood, King George V e Victorious.” Batté le dita sullo Stretto di Danimarca. “Hood e Prince of Wales saranno subito spedite a nord, nelle acque islandesi, nel caso ci fosse bisogno di intervenire nello Stretto di Danimarca, che è il punto che più mi preoccupa.” Le dita scivolarono più a sud. “King George V, Victorious e Repulse, invece, scandaglieranno il passaggio a sud delle Fær Øer. Raggiungeranno il resto dei convogli solo se si riterrà necessario. Il resto dei convogli si terrà pronto a intervenire nel caso i tedeschi ci sfuggissero, in modo da far barriera prima che entrino nell’Atlantico.”

Il coniglietto rabbrividì fino alle punte delle vibrisse, e i suoi occhietti lucidi e neri come bottoni riflessero il movimento compiuto dalle dita di Inghilterra. “S-sarà...” Deglutì. Sollevò il musetto in cerca di uno sguardo di consolazione da parte di Inghilterra. “Una vera e propria caccia.”

“Esattamente.” Inghilterra sollevò la mano dalla mappa e strinse le braccia al petto, continuando a reggere il bicchiere d’acqua fra le dita. I suoi occhi si riempirono di ombra. Li attraversò una scintilla sottile e affilata che gli rese lo sguardo appuntito come quello di un predatore in agguato. “Prima di una battaglia, questa sarà soprattutto una caccia, dato che non conosciamo le posizioni esatte del convoglio tedesco e nemmeno la loro destinazione. Perciò dovremo prepararci a una navigazione lunga, visto il fatto che non sappiamo per quanto tempo staremo in acqua.” Inghilterra si strinse nelle spalle e sospirò. “Il problema più grande da affrontare sarà il carburante, immagino. I tedeschi hanno sicuramente i serbatoi pieni, visto che sono appena partiti. Perciò, prima di smuovere il completo delle nostre forze, ci assicureremo di trovare il loro convoglio con gli incrociatori, e solo poi scaglieremo addosso ai tedeschi tutta la Home Fleet e la Forza H.”

“Oppure potremmo fare delle ricognizioni aeree,” disse la fatina.

Inghilterra imitò il suo stesso sguardo sdrammatizzante e annuì. “Oppure potremmo fare delle ricognizioni aeree, d’accordo.” Si strinse il mento con la mano che non reggeva il bicchiere e borbottò a labbra strette, di nuovo sentendo quel groppo di ansia e preoccupazione premere sul petto. “Sarà un macello scattare delle foto aeree con tutte le nebbie di stagione.”

La fatina sventolò una manina per scacciare le preoccupazioni. “Oh, ma quello è il lavoro dei piloti, non ti disperare.” Si sistemò le pieghe dell’abito attorno alle gambe, ronzò per sollevarsi dal bicchiere, e tornò ad atterrare con i piedini nudi sull’orlo di vetro. Batté le manine e fece frullare le ali in un moto di eccitazione. “Quando si parte, capitano?”

Il coniglietto sobbalzò, sollevò un’orecchia e le inviò un’occhiata di allarme. “P-pa... partire?”

“Sì, partire.” La fatina si cinse i fianchi e si sporse verso il coniglietto, corrugò un piccolo broncio. “Che ti aspettavi, che rimanessimo qua dopo aver saputo che la più fottuta corazzata tedesca che sia mai stata costruita sta facendo il bagnetto proprio a confine con il nostro territorio, probabilmente per divorarci tutti?”

“M-ma non possiamo lasciare Creta!” Il coniglietto le saltellò vicino e si sollevò sulle zampette posteriori per fronteggiarla a muso dritto. “Abbiamo appena cominciato la battaglia per difenderla, e se Inghilterra se ne andasse proprio ora non reggeremmo un giorno di più. Sarebbe come... come dare le chiavi di Creta direttamente in mano a Germania.”

La fatina spalancò le ali, allargò a ventaglio l’aura color lilla attorno a lei, e i suoi occhi fiammeggiarono di indignazione. “Come puoi paragonare la difesa dell’intero Atlantico rispetto alla difesa di una stupida isoletta nel Mediterraneo?”

“Abbiamo fatto una promessa a Grecia!” esclamò il coniglietto. “Non possiamo tradirlo!”

La fatina sbuffò, alzò lo sguardo al soffitto, e gli batté più volte il pugnetto in mezzo alle orecchie felpate, come stesse bussando al suo cranio. “Svegliaaa, se perdessimo il controllo dell’Atlantico e dei traffici mercantili, allora non potremmo nemmeno mai più mettere piedi fuori dal Regno Unito. Nulla entrerà e nulla uscirà, moriremo di fame, e Germania si impadronirà del mondo intero, altro che del Mediterraneo.”

Il coniglietto si sottrasse, arruffò i ciuffi di pelliccia in mezzo alle orecchie che la fatina gli aveva scompigliato, e tornò a zampettare verso Inghilterra. “I-Inghilterra,” rivolse la zampetta verso la fatina, “dille anche tu che non possiamo abbandonare Creta.”

Inghilterra non li ascoltava. I suoi occhi bassi erano ancora fissi sulla mappa, quello sguardo meditativo si teneva assorto nelle traiettorie invisibili che lui continuava a tracciare mentalmente e che passavano sempre sotto la sua nazione, per poi riversarsi nell’Atlantico. Una gocciolina di condensa scivolò lungo la superficie di vetro del bicchiere, gli serpeggiò fra le dita, ma lui non la notò nemmeno.

Il coniglietto afflosciò le orecchie e flesse la testolina di lato. “Inghilterra?”

Inghilterra guardò dentro il bicchiere che teneva in mano, fece oscillare l’acqua, contemplò il suo riflesso screpolato che si specchiava sulla superficie trasparente. Prese un lungo e profondo sospiro, la sua voce si fece più fredda. “Se riuscissi ad affondare la Bismarck, se riuscissi ad affondare la corazzata più potente che sia mai stata buttata in acqua...” Strinse le dita, le unghie graffiarono il vetro, e dentro il suo petto tornò a infuocarsi quel solito brivido di vita che avvertiva in fondo alla schiena quando combatteva. “Allora Germania si ritroverebbe di nuovo in una pessima posizione per quanto riguarda la lotta in mare, mentre noi acquisteremmo ancora più prestigio. E in più si tratterebbe di un danno morale immenso per tutta la loro nazione.” Fece oscillare l’acqua. “Un’occasione del genere,” scosse il capo, “non posso lasciarmela sfuggire dalle mani, sarebbe da pazzi. Soprattutto se considero la piega che sta prendendo questa guerra, e se considero il rischio che presto Germania potrebbe provarci una seconda volta con me.”

Gli occhi del coniglietto luccicarono di tristezza, le sue orecchie rimasero così basse da toccare il tavolo con le punte. “Ma come farai con Creta?”

Inghilterra ruotò inconsciamente lo sguardo verso l’apertura della tenda che ora giaceva piatta e chiusa. Sospirò, senza riuscire a nascondere un brivido di timore e insicurezza che gli fece vacillare la luce negli occhi. “Ci sono Australia e Nuova Zelanda,” rispose. “Se la caveranno. Sono più forti di quanto io stesso mi aspettassi.”

La fatina piegò un sorrisetto sarcastico, mostrò i palmi al soffitto e ridacchiò. “Il vero dilemma è: come farai ad affondare un mostro come la Bismarck? Se quella fosse davvero la Bismarck.”

Inghilterra strabuzzò gli occhi e si morse il labbro. “A... a questo...” Effettivamente... Tornò a fare su e giù marciando fra le pareti della tenda e sventolò la mano verso la fatina. “A questo ci penseremo,” la liquidò. “Penso meglio quando sono direttamente sul campo di battaglia, ora non sappiamo quasi nulla di questa situazione. Non sappiamo nemmeno se quella che hanno avvistato sia effettivamente la Bismarck.” Buttò giù un sorso d’acqua ancora dolciastro di rum per rinfrescarsi la bocca. “Lascerò Creta ad Australia e a Nuova Zelanda, e raggiungerò Prussia nell’Atlantico.”

La fatina diede un frullio d’ali e un lampo di allarme le passò attraverso il visetto, facendole sgranare gli occhi. “Aspetta, aspetta...” Ronzò davanti a Inghilterra, spalancò le ali, e gli frenò la camminata tendendo le manine davanti al suo viso. Aggrottò un sopracciglio, lo guardò di traverso, con aria severa e volto granitico. “Non intenderai andare a buttare giù la Bismarck da solo, per caso?”

Inghilterra ricambiò l’occhiataccia. “E che alternative ho?” Aprì una mano per scostare la fatina da davanti il suo viso, e continuò a marciare su e giù. “Non posso portare con me Australia e Nuova Zelanda, qualcuno deve rimanere a Creta. Senza contare il fatto che i mari del nord non sono un posto per loro.” Bevve un altro sorso d’acqua e borbottò con le labbra ancora strette sull’orlo di vetro. “Si congelerebbero e basta.”

La fatina scosse la testa. “Inghilterra, fermo, fermo, fermo un secondo.” Tornò a volargli davanti e gli premette le manine sul naso, bloccandolo. Si spinse indietro di un battito d’ali, per guardarlo dritto negli occhi, e fece sventolare un indice davanti a lui, canzonandolo con voce da maestrina. “Ricordi per caso quello di cui abbiamo discusso dopo l’ultima missione in mare aperto contro Prussia? Quella che ti ha ridotto a un colabrodo?” Aprì le braccia indicandosi il profilo dei fianchi su cui ricadeva l’abito di seta. “Quella da cui ne sei uscito tutto sciolto nel tuo stesso sangue, come un ghiacciolo annaffiato in succo di carne? Eh, eh, ricordi?”

Il viso di Inghilterra si gonfiò in un broncio scuro, divenne paonazzo, e lui si riparò da quelle insinuazioni girandosi di profilo e stringendo le braccia al petto. “Cosa dovrei ricordarmi?” I ricordi però sgusciarono lo stesso fuori dalla mente. Tornò il calore e la consistenza umida del sangue che colava dall’occhio ferito e bendato, che correva anche dal fianco dove Prussia gli aveva conficcato il pugnale sotto le costole, e anche dalla coscia in cui aveva affondando una seconda coltellata. Tornò il caldo formicolio al viso poco prima di svenire, la vista appannata e sgranata di nero, le forze che lo abbandonavano facendogli sentire il corpo pesante e la testa svuotata.

La fatina raddrizzò le spalle e tirò su il mento mettendosi in posa solenne. “Oh, be’, ti faccio io un ripasso. Ecco, guarda qua.” Volò di nuovo sopra il tavolo, posò i piedini sull’orlo del bicchiere, strinse un pugnetto davanti alla bocca per schiarirsi la voce, e si portò la mano alla fronte. Lo sguardo pallido e sofferente di chi sta per svenire. “Oh, no, non posso assolutamente affrontare un’altra operazione del genere da solo,” si lamentò imitando la voce di Inghilterra, “devo per forza trovare qualcuno che mi venga a raccogliere con un cucchiaino se dovessi di nuovo finire spappolato come un pudding.” Compì due passetti all’indietro, si trafisse il cuore con una coltellata invisibile, sputò un gemito di dolore, e si lasciò crollare nel bicchiere. Splash! Schizzi di rum piovvero sul tavolo e sulle carte aperte. La fatina diede due sbracciate, emerse sputando rum come una fontanella, e si appese con le manine al bordo di vetro. “E poi sei morto.” Diede una scrollata alle ali imbrattate di perle di liquore. I capelli biondi zuppi di rum si erano incollati al visetto e gocciolavano rivoletti color ambra lungo le sue guance e le sue labbra.

Inghilterra le diede le spalle, divenne ancora più rosso in viso, e si morsicò la bocca fumando di vergogna. “Non è vero che ho detto così,” brontolò.

“Ma cosa possiamo farci?” intervenne il coniglietto. “Non possiamo inventarci degli alleati o tirarli fuori dalla terra.”

La fatina emerse dal bicchiere di rum, si sedette sull’orlo continuando a gocciolare dal vestito che era aderito al suo corpicino snello come una seconda pelle, e accavallò le gambe. “La mia opinione?” Raccolse i capelli zuppi, li arrotolò fra le manine e diede una strizzata alle ciocche, facendo sbrodolare il liquore. I suoi occhietti tornarono bui e sottili, volarono su Inghilterra, e quello sguardo lo colpì come un duro pugno sul naso. “Fottitene.” La fatina tese la mano e diede un taglio netto all’aria. “Fottitene di Creta. E fottitene anche del fatto che Australia e Nuova Zelanda si congelano sotto i venti gradi Celsius. Caricati le tue dannate colonie in spalla e parti. Lascia il Peloponneso, vai a fare il culo a Prussia e fa’ vedere a Germania che siamo ancora noi i padroni del mare.”

Inghilterra scrollò il capo, chinò la fronte, e si massaggiò la nuca continuando a rimuginare. No, no, non mi piace. Devo trovare un’altra soluzione. Deve esserci un’altra soluzione!

Il coniglietto inviò uno sguardo di rimprovero alla fatina. “Come puoi essere così meschina?”

La fatina lasciò di nuovo dondolare le gambe e fece spallucce con aria innocente. “Non è meschinità, è strategia.” Scivolò giù dal bicchiere, atterrò sulla mappa con l’abito ancora bagnato e incollato al suo corpicino gocciolante, e camminò attraverso la carta lasciando minuscole impronte di piedini che attraversavano la distesa del mare in una doppia traiettoria scura.

Il coniglietto si girò verso di lei. “È comunque una cosa meschina.”

“Già,” ribatté la fatina, “ma a quanto pare solo gli stronzi vincono le guerre. Quindi ne vale la pena.”

“Non dire le parolacce.”

La fatina lo ignorò arricciando una smorfia signorile, e continuò a camminare sulla mappa. La scia di piccole impronte umide superò il Regno Unito, salì al nord e toccò la Groenlandia tagliando in due un’altra isola che galleggiava silenziosa e tranquilla, affacciata sullo sbocco che dava sull’Atlantico.

Inghilterra gettò un’occhiataccia alla fatina e aprì la bocca per dirle di non camminare sulla mappa e di non imbrattarla di rum, ma le sue labbra si congelarono. Sbatté le palpebre, gli occhi restarono fissi e sgranati, a riflettere quella solitaria isola toccata dalle impronte dei piccoli piedi nudi, e una forte vampata di calore gli arrivò addosso, travolgendolo in violento abbaglio che gli illuminò la mente. I ricordi si srotolarono dalla sua testa, corsero davanti ai suoi occhi come le pagine impolverate di un album fotografico che viene sfogliato di fretta. Il buio e uggioso pomeriggio al porto di Reykjavik, la figura che gli era affianco che guardava il mare plumbeo con quell’espressione triste e sempre un po’ imbronciata, un’ombra alata a proteggerlo standosene appollaiata sulla sua spalla, e quell’ultima fredda occhiata distaccata che si erano rivolti prima di separarsi.

Sentendo ancora l’amaro in bocca di quel giorno e il grave senso di quella piccola sconfitta che gli pesava ancora sulle spalle, Inghilterra decise cosa fare.

 

.

 

Inghilterra si era già pentito di quello che aveva deciso di fare.

Strinse le mani che aveva intrecciato sull’orlo del tavolo, guadagnò un respiro lungo e profondo che gli rinfrescò la mente, e soppresse quel gorgoglio di malessere che ristagnava in fondo alla pancia, dove tutto il rimorso si era annidato come se avesse ingoiato un gomitolo di rovi. Parlò con voce stremata. “Ammettiamo...” Strizzò una dose di coraggio fra le dita fino a farle sbiancare, fino a piantarsi le unghie nella carne, e fronteggiò le due presenze sedute davanti a lui, dall’altro capo del tavolo.

Gli sguardi sorridenti di Australia e Nuova Zelanda fremettero di speranza ed entusiasmo. I due si guardarono, trattennero un risolino stringendo le labbra. Nuova Zelanda continuò a far oscillare le gambe che non riuscivano a stare ferme, attraversate da brividi di impazienza, e anche Australia contenne un’espressione imporporata di emozione che gli fece scintillare le iridi. L’espressione di chi sta già fiutando qualcosa, di chi si sta già pregustando il sapore dolce della torta solo dopo averne odorato il profumo che evapora dall’impasto ancora caldo.

Inghilterra intercettò quei loro sguardi di complicità e sentì di nuovo quel formicolio di rimorso e nervosismo grattargli le pareti dello stomaco. Tossicchiò e ingoiò il boccone di bile. “Ammettiamo per ipotesi... solo per ipotesi che...” Sciolse le mani intrecciate e tamburellò le dita sul tavolo. Allontanò gli occhi mostrando uno sguardo vago, si strinse la fronte spremendo un profondo massaggio sulle tempie con i polpastrelli. “Che io mi trovi costretto a lasciare voi due qua a Creta da soli e...”

Australia scattò in piedi come una molla. “Non ti deluderemo!”

Nuova Zelanda batté le mani e annuì alzandosi anche lui. “Facciamo i bravi, promettiamo!”

“Prendiamo noi a calci i crucchi!”

“Sì, sì, e quando tornerai avremo già vin –”

Inghilterra si tirò in piedi e piantò l’indice verso il basso. “Seduti!” ruggì.

Australia e Nuova Zelanda tornarono a guardarsi senza perdere il sorriso, Nuova Zelanda si rosicchiò il labbro per non ridacchiare di nuovo e le guance gli divennero tutte rosse. Si rimisero entrambi seduti, senza riuscire a far smettere di tremolare le ginocchia, e trattenne il fiato per sforzarsi di rimanere in silenzio.

Inghilterra tornò a sospirare e si lasciò ricadere sulla sedia. “Ho detto solo per ipotesi...” Tornò a mulinare la mano e a fare aria vaga. “Che io sia costretto a lasciarvi qua a Creta da soli, a cavarvela contro i tedeschi e...” Mai più prendere decisioni quando sei ubriaco, mai più prendere decisioni quando sei ubriaco, mai più prendere decisioni quando sei ubriaco, ed è già la settantesima volta durante questa diavolo di campagna che ti ritrovi a dire non prendere mai più decisioni quando sei dannatamente... “E che sia costretto ad assentarmi per qualche giorno.” Si mise a braccia conserte, mostrò a entrambi uno sguardo di nuovo serio e composto, e sollevò un sopracciglio, esitante. “Voi ve la sentireste di portare avanti da soli la difesa dell’isola?”

Nuova Zelanda tornò ad annuire con foga e distese un sorriso raggiante. “Assolutamente sì.”

Australia si batté un pugno sul petto e tirò su il mento. “Puoi contare su di noi, non gli permetteremo mai di prendere il controllo di...” Sbatacchiò le palpebre, la sua espressione si congelò, e un brivido di dubbio gli scosse la voce. “Un momento.” Premette le mani sul tavolo e si sporse con le spalle in avanti, fronteggiò Inghilterra aggrottando una ruga di scetticismo. “Ma perché ora devi andare via così all’improvviso?”

Nuova Zelanda alzò la manina. “C’entra il bollettino che ti è arrivato prima?” azzardò. “Quello dall’Ammiragliato?”

Inghilterra sbuffò e fece roteare lo sguardo. “Già,” si lamentò. “In pratica...” Appoggiò il peso sui gomiti, si strinse la fronte fra le dita massaggiandosi le palpebre, ed esalò un altro sospiro più stanco tenendo gli occhi distanti. Quelle parole uscirono dalla sua bocca come freddo fumo nero. “Credo di sapere dove si trova Prussia.”

Sia Australia che Nuova Zelanda strabuzzarono lo sguardo. Australia trasse un sospiro di stupore. “Sul serio?”

Inghilterra annuì, e il suo sguardo rimase distante, proiettato nelle scure e gelide acque dell’Atlantico che già vedeva tingersi di oleose pozze di sangue. “Probabilmente – e dico probabilmente – sta guidando delle operazioni navali dirette nell’Atlantico.” Fece scorrere una mano su una delle carte che erano spiegate sul tavolo in mezzo a loro, ci fece tamburellare le dita sopra e scosse il capo. “Non posso lasciare che i tedeschi prendano il dominio dell’Atlantico, altrimenti i miei traffici mercantili finirebbero per bloccarsi e non potrei più rifornirmi. E a quel punto sarei definitivamente tagliato fuori dalla guerra.”

Nuova Zelanda squadrò la mappa con occhi intimoriti, e tutto l’entusiasmo si sciolse dal suo visetto lasciandogli l’ombra di un tremore. “Sei proprio sicuro che Prussia è lassù nell’Atlantico?”

“Se Prussia è là allora non risparmierà colpi,” esclamò Australia. “Ti farà il sedere a pezzi!”

Inghilterra fece roteare lo sguardo masticando un grugnito. E grazie tante. “Lo so,” soffiò con un sospiro, “ma non ho scelta, purtroppo.”

Gli occhi di Nuova Zelanda tornarono a inviare a Inghilterra uno sguardo apprensivo. “E vuoi comunque fare tutto da solo?”

“Non ti preoccupare.” Inghilterra strinse le braccia al petto, rilassò le spalle sullo schienale della seggiola, e accavallò una gamba all’altra. Un breve senso di sollievo, simile a quello che provava quando beveva, riuscì a fargli fiorire un minuscolo sorriso sulle labbra che ancora sapevano di rum. “Ci sarà lo stesso qualcuno al mio fianco.”

Australia flesse il capo di lato mimando l’espressione incuriosita di un animaletto che sbircia fra le foglie di un albero. “Sul serio?” fece. “E chi? Se noi rimarremo qua a Creta...” Si strinse nelle spalle e rise. “Non è che ti rimangano molti alleati.”

Nuova Zelanda ridacchiò a sua volta, nascondendosi la bocca, e gli diede una spallata. “Cattivo.”

Inghilterra li ignorò e mantenne lo sguardo dritto e fiero, rispose con tono fermo e sicuro, un po’ da sbruffone. “Questo lo dici tu. Invece avrò una buona compagnia su nell’Atlantico.” Fece scivolare lo sguardo sulla mappa, sulle piccole impronte di rum ancora umide che riusciva a vedere solo lui, e si pregustò un sorriso di vittoria dolce come tutto il liquore che si era appena scolato. “Una compagnia glaciale.” La traiettoria della camminata della fatina raggiungeva quella piccola isola sotto la Groenlandia e ne tagliava il nome in due, come a conquistarne la meta, come a indicarne la via. ‘Islanda’.

   
 
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