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Autore: Roscoe24    12/11/2017    4 recensioni
“Ahi,” si lamentò, toccandosi la fronte. Ci sarebbe spuntato un bel bernoccolo, se lo sentiva.
“Oh santi numi!” sentì esclamare e poi di nuovo il botto metallico dello sportello che veniva chiuso. Alec aveva ancora le mani sulla fronte, quindi non poteva vedere chi fosse il suo interlocutore. La verità era che si stava vergognando così tanto di essersi comportato come un tale imbranato che non aveva il coraggio di togliersi le mani dal viso.
“Ehi, là sotto. Tutto bene?” lo sconosciuto appoggiò le mani sui polsi di Alec, il quale percepì il tocco caldo contro la sua pelle. Curioso, si liberò la faccia.
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Isabelle Lightwood, Jace Wayland, Magnus Bane, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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“Le sta stampando!” esclamò Magnus, mentre Alec, davanti alla macchinetta per le foto tessere, si chinò all’altezza del foro di emissione per prenderle. Osservò quella striscia di carta plastificata che ritraeva quattro piccole foto di loro due insieme: in una Magnus tirava fuori la lingua, mentre Alec gonfiava le guance; in una erano schiena a schiena e con le mani mimavano una pistola, come se fossero due detective – da ciò era nata la terza foto che li ritraeva mentre ridevano come matti perché si erano sentiti troppo stupidi dopo aver optato per quella posa che faceva molto anni ’80; nella quarta e ultima foto, invece, si stavano baciando. Quella era la preferita di Alec. Insieme alla prima… o forse, le preferiva tutte, visto che non riusciva a scegliere quale gli piacesse di più, dal momento che più le guardava più trovava quelle foto di proprio gradimento.
“Tienile tu.” Disse Magnus, al suo fianco.
Alec alzò lo sguardo dalle foto a lui, lo sconforto attraversò i suoi lineamenti, “Non posso. Se le trovassero…” si interruppe a metà frase e Magnus gli passò un braccio intorno alla schiena, capendo perfettamente dove voleva arrivare il discorso di Alec.
“Le terrò io per te, allora, va bene?”
Alec annuì, passando il pollice sulle foto, come se volesse salutarle a dovere prima di consegnarle a Magnus. Sapeva che non poteva rischiare di tenerle in casa perché se sua madre o suo padre le avessero trovate, le conseguenze di tale scoperta non sarebbero state piacevoli. Soprattutto per Alec, che si sarebbe trovato con le spalle al muro e magari colto anche impreparato. Aveva intenzione di parlare ai suoi, ma dal momento che non aveva ancora scelto come dire loro la verità, non voleva che fosse un imprevisto a farlo al posto suo. Così, consegnò le foto a Magnus, che le mise nella tasca interna della sua giacca di velluto rosa antico.
“Le difenderò a costo della vita!”
Alec rise, “Non esagerare, adesso.” Era bello come Magnus riuscisse a fargli tornare il buon umore con così tanta semplicità.
L’eco delle loro risate ancora si stava disperdendo nell’aria di fine ottobre, quando il cellulare di Magnus squillò, sul display un nome che attirò l’attenzione di Alec più di quanto avrebbe voluto: non che di solito sbirciasse il telefono di Magnus, solo che normalmente lui non agiva come se avesse dovuto nascondere qualcosa.
Non appena quel Ragnor cominciò a troneggiare sul display, infatti, Magnus gli diede le spalle e Alec si rese conto che come quel ragazzo aveva il potere di mettergli il buon umore, aveva anche la capacità di toglierglielo. Perché si nascondeva? Chi era quel Ragnor? E perché Alec sentiva una zavorra attaccata al cuore che glielo gettava in un’oscurità dolorosa, come se tanti denti aguzzi e spietati glielo stessero masticando? Si impose di mantenere la calma, di non lasciarsi andare a conclusioni affrettate. Si fidava di Magnus, vero? Certo. Era di se stesso che non si fidava, del fatto che, nonostante tutto, ancora non si sentisse abbastanza per lui perché, sebbene sapesse ciò che Magnus provava nei suoi confronti, Alec rimaneva sempre il solito imbranato, impacciato e inesperto ragazzo che nella sua vita aveva avuto solo un’esperienza. E quell’esperienza portava una giacca rosa e gli stava voltando le spalle, adesso.
“Torno prima di cena, sì.” Stava dicendo Magnus, “Sì, la pizza va benissimo.” Sussurrava e ancora non si voltava, “Non devi scusarti, Ragnor, so che lavori fino a tardi.” Una risatina affettuosa, comprensiva, “Stai tranquillo, lo so.” Una pausa, “Sì, sono con lui.”
Alec non ci stava capendo molto, solo il fatto che, evidentemente, questo Ragnor sapeva della sua esistenza e aveva la faccia tosta di chiamarlo sebbene sapesse fossero insieme. E Magnus aveva un’altrettanta faccia tosta a rispondere alle sue chiamate di fronte a lui! Sentì chiaramente un moto di gelosia corrodergli le budella, ma aspettò, paziente, facendo ricorso a tutta la sua razionalità.
“No.” continuò Magnus, “No non glielo dirò.”
Dirmi cosa? –  pensò Alec.
“No, Ragn-” Magnus sbuffò, arrendevole, “Va bene, va bene, va bene, glielo dico. Basta che smetti di blaterare. Sì, sì, ci vediamo a cena. D’accordo, sì! Ho capito!” concluse esasperato la chiamata e si voltò con calma verso Alec, che, evidentemente incapace di controllare le sue espressioni facciali, si stava mostrando più inquieto di quanto avrebbe voluto.
“Non fare quella faccia, pasticcino.”
“Non chiamarmi pasticcino.” Brontolò l’altro, lapidario.
Magnus si avvicinò e fece per prenderlo per mano, ma Alec si ritirò bruscamente – gesto che a Magnus fece più male di quanto diede a vedere.
“Ragnor è il mio tutore legale, Alexander.”
Tutta quella sensazione spiacevole, la gelosia, la rabbia, persino, sciamarono in un attimo e Alec si sentì profondamente idiota e tremendamente stronzo. Le sue insicurezze l’avevano portato a conclusioni affrettate, sebbene la sua razionalità gli avesse suggerito di non farlo, e cosa ci aveva guadagnato? Un bel niente. Aveva fatto rimanere male Magnus scostandosi dalla sua presa – perché sì, se n’era accorto – e aveva fatto anche la figura dell’insensibile, del ragazzino viziato, quando l’ultima cosa che voleva era che Magnus si sentisse forzato a parlare della sua famiglia. Si sentiva una persona orribile.
“M-mi dispiace, Magnus.” Con una falcata lo raggiunse e lo stritolò in un abbraccio, che Magnus ricambiò immediatamente, stringendo la presa sulla schiena di Alec. “Non volevo… i-io… non ho giustificazioni.”
Magnus ispirò profondamente il profumo di Alec, trovandolo rassicurante oltre ogni limite. Lo trovava strano, a volte, che la sua idea di sicurezza venisse da un ragazzo che era entrato nella sua vita da poco, ma contrariamente a quanto si potrebbe pensare, tutto ciò non lo spaventava. Alexander era un’ancora, per lui. Il suo profumo, qualcosa che gli ricordava l’odore secco della sabbia del mare, era avvolgente come i suoi abbracci, caldi e forti. Alexander era casa, una sensazione che nella sua vita aveva provato rarissime volte.
“Sei geloso, muffin?” disse Magnus, la voce ovattata dal petto di Alec.
“Forse…” ammise cauto Alec, cominciando ad accarezzare la schiena di Magnus con movimenti lenti e rassicuranti. 
Magnus lo strinse forte, “Non esiste persona al mondo in grado di eguagliarti, tesoro mio. Non hai e mai avrai rivali, Alexander, perché non voglio nessun altro al mio fianco, se non te.”
Il cuore di Alec ebbe un sussulto, come se venisse buttato giù da un dirupo altissimo.
“Io starò sempre al tuo fianco.” Gli sussurrò, “Vuoi parlarne?” domandò con cautela.
Magnus sciolse l’abbraccio per guardarlo in viso. Voleva parlarne? Probabilmente no, ma desiderava davvero che Alec lo conoscesse, che sapesse tutto della sua vita, voleva offrirgli il suo cuore nella sua interezza, come Alexander aveva fatto con lui, mostrandogli le sue paure. “Ragnor,” cominciò con un filo di voce, un masso ad ostruirgli la gola, “Mi ha adottato dopo che i miei genitori sono… sono…” aprire il proprio cuore era più difficile di quanto si aspettasse, sebbene volesse davvero farlo, almeno con Alec.
“Non serve dirlo,” Alec gli prese il viso tra le mani, “Ho capito, Magnus.” Lo abbracciò di nuovo, mentre lacrime silenziose cominciavano a bagnare il viso di Magnus, che si aggrappò nuovamente ad Alec per non precipitare di nuovo negli abissi profondi di quel suo cuore malandato, fatto a pezzi e masticato, che aveva ricominciato a battere solo dopo l’incontro con Alexander.
“Mi dispiace.”
“Non devi, Magnus. È un argomento doloroso e non voglio forzarti a parlarne.”
“Grazie.”
“Non devi nemmeno ringraziarmi.”
Magnus accennò una minuscola risata, mentre scioglieva l’abbraccio e cominciava ad asciugarsi gli occhi, “Ragnor mi ha detto di chiederti una cosa,” avanzò, cambiando argomento, gli occhi ancora lucidi e le ciglia umide.
“Ti ascolto.”
“Se vuoi venire a cena da noi, stasera. Mangeremo la pizza. Puoi dire di no, ovviamente.” Alec gli sorrise dolcemente, “Mi piace la pizza.”
“È un sì, quindi?”
Alec annuì. Per Magnus sarebbe sempre stato un sì.

*

Dire di sì gli era sembrata una bella idea, in primis perché davvero non riusciva a dire di no a Magnus, in secondo luogo perché si era comportato non come il migliore dei ragazzi e quindi voleva rimediare. Ma una volta messo piede di nuovo in casa propria, nel tardo pomeriggio, le budella di Alec avevano cominciato ad arrotolarsi su loro stesse, attorcigliandosi in una presa ferrea che significava una sola cosa: panico totale. Ragnor era come un padre per Magnus e se lui non avesse fatto buona impressione? Se l’avesse trovato odioso? O, cosa molto più probabile, lo trovasse strambo?
Ispirò a fondo ed espirò. Tirarsi indietro era fuori questione, quindi l’unica che gli rimaneva da fare era accantonare il panico e cercare di fare buona impressione. Per questo, necessitava il parere di un’esperta.
Alec uscì dallo studio, scendendo la scala che pendeva dal soffitto e, dopo averla rimessa al suo posto – altrimenti avrebbe penzolato in mezzo al corridoio del secondo piano – si diresse in camera di Izzy, bussando piano per non disturbarla troppo. Sapeva che stava studiando.
“Entra!!” gridò, così Alec fece capolino. Isabelle se ne stava seduta a gambe incrociate sul proprio letto, un libro – da quella distanza ad Alec sembrava di biologia – aperto sul materasso, le cui pagine venivano coperte frammentariamente dai capelli, ormai così lunghi che ci cadevano sopra. Era vestita con una semplice tuta, sebbene il viso fosse ancora truccato dalla mattina.
“Ti disturbo?”
Isabelle alzò gli occhi dal libro al fratello, rivolgendogli un sorriso ampio, “Non disturbi mai. Entra, gli organismi monocellulari possono aspettare!”
Allora ci aveva visto giusto.
Alec si incamminò con passo silenzioso verso Isabelle e si sedette sul fondo del materasso, il libro giaceva chiuso tra lui e la sorella.
“Allora, devi dirmi qualcosa, uomo del mistero?”
“Ora cominci anche tu con i soprannomi?”
“Scusami tanto, pasticcino.”
Alec arrossì fino all’attaccatura dei capelli, “Gli avevo detto di non farlo in pubblico, ma a quanto non ritiene che voi siate il pubblico.
“Aaww, è una cosa tanto tenera, questa!”
“Non se devi usarla contro di me!” si lamentò Alec e Isabelle rise, tirando indietro la testa.
“Bando alle ciance, fratello. Svuota il sacco!”
Alec si lasciò andare ad un sospiro e si accasciò alla parete a cui era attaccato il lato sinistro del letto come un palloncino svuotato. “Sono in ansia.” Sbuffò, le gambe che penzolavano giù dal letto e le mani incrociate sull’addome. Voltò la testa verso destra, in direzione di Iz e quando alzò le sue iridi su di lei la trovò con le sopracciglia sollevate, in attesa che spiegasse. “Sono a cena da Magnus, stasera.” Fece una pausa, “E conoscerò suo padre…”
Alec optò per quella definizione, senza stare a spiegare troppo la reale situazione di Magnus.
“Oh.”
Isabelle si paralizzò, il voltò sbiancò sotto il blush e Alec realizzò che sua sorella era sempre stata allergica a situazioni simili, non avendo mai provato il desiderio di legarsi veramente a nessuno. Questo, fino a quando non aveva incontrato Simon, ma anche con lui le cose stavano procedendo abbastanza con cautela – e con cautela Isabelle intendeva tenersi il più possibile alla larga dalla signora Lewis, cercando di rimandare la sua conoscenza a data da destinarsi – un gentile eufemismo per non dire mai.
“Alec…” si riprese, “…è una cosa bella, no?”
“Non se sei me. Io di solito non piaccio alle persone!”
“Non dire idiozie!”
“Dici sempre che sono strano!” si giustificò Alec, “E posso contare i miei amici sulle dita di una mano.”
Isabelle si avvicinò a lui, mettendosi al suo fianco, “Questo perché sei selettivo. Ciò non fa di te un sociopatico!”
“Ho paura lo stesso.” Mugugnò Alec, le braccia incrociate al petto. Isabelle sorrise, intenerita da quel comportamento che lo faceva sembrare un bambino. “Se facessi la figura dello stupido?”
“E se invece gli piacessi?” suggerì Isabelle, un sorriso ad alzare gli angoli delle sue labbra. C’era qualcosa di estremamente materno nella sua espressione, una dolcezza particolare che Isabelle non mostrava spesso, ma che celava nascosta dietro la sua dura armatura d’acciaio.
“Lo reputi possibile?”
“A Magnus piaci, no? Quindi è possibilissimo.”
Alec sorrise, mentre sentiva i suoi nervi sciogliersi letteralmente, come se fossero burro al sole, rilassandosi sempre di più.
“Non so cosa mettermi.” Confessò dopo vari minuti passati in silenzio. “Mi dai una mano?”
Isabelle alzò gli occhi e le braccia al cielo, la testa tirata all’indietro per dare enfasi a quel gesto: “Dio, ti ringrazio per aver ascoltato le mie preghiere e aver reso finalmente consapevole questo ragazzo della sua totale assenza di senso estetico!”
Signori e signori, ecco Isabelle Lightwood, la regina del dramma. Alec avrebbe roteato gli occhi con convinzione, se non fosse stato in qualche modo divertito dal modo che Iz aveva di acconsentire ad aiutarlo.
“A me piacciono i miei vestiti.” Replicò, comunque.
“Ti piacciono così tanto che non li ritieni adeguati per incontrare il padre di Magnus.”
Alec odiava quando Isabelle aveva ragione.
“Non ho detto questo!” ribatté perché comunque non gliel’avrebbe mai data vinta, “Dico solo che sarebbe carino se Magnus e suo padre mi vedessero con qualcosa di più… appropriato.”
“L’unica cosa appropriata, per Magnus, sarebbe vederti nudo, Alec.” gli lanciò un’occhiata maliziosa, accompagnata da un sorrisetto tutto fossette – le stesse che Alec sapeva comparivano anche nel suo viso quando sorrideva – e si godette la reazione del fratello, che si strozzò con la propria saliva.
“Smettila.”
“Almeno non neghi. Sai ti guarda come se volesse assaggiarti, pur avendo già la consapevolezza che ti riterrà delizioso.”
Alec sentì il viso bollente e incassò la testa tra le spalle, come se volesse nascondersi da quel demonio che si ritrovava per sorella. Dannata quella sua lingua lunga.
“Iz, smettila!” esclamò, imbarazzato.
“Perché, Alec?” chiese lei, improvvisamente seria, abbandonando qualsiasi tipo di scherno nella voce. “Perché non accetti semplicemente che qualcuno possa trovarti desiderabile sotto diversi punti di vista?”
Alec alzò gli occhi su di lei, trovandosi ad invidiare la sua sicurezza. Isabelle non aveva bisogno di qualcuno che le ricordasse quanto fosse bella, sapeva di esserlo e accettava questo fatto come accettava qualsiasi altro lato del suo carattere. Alec, invece, prima di Magnus non aveva mai pensato di poter essere considerato bello da qualcuno. Era seriamente convinto che nella sua struttura fisica non ci fosse niente di speciale, di particolare. Solo con Magnus qualcosa in lui era scattato, accendendogli un campanellino che gli suggeriva che forse poteva suscitare anche lui desiderio in qualcuno, così come avevano sempre fatto i suoi fratelli.
“Mi piace come mi guarda,” confessò, in un sussurro, come se si sentisse colpevole di un pensiero tanto vanitoso. “Nessuno mi aveva mai nemmeno notato, Iz. Lui mi nota, mi guarda, mi vede. E lo fa in moltissimi modi.”
E ognuno di questi gli faceva tremare le gambe con un’intensità diversa, ma ugualmente importante.
“Quando ti guarda è come se non vedesse altro che te, Alec. I suoi occhi si posano su di te e, improvvisamente, il resto del mondo per lui sparisce.”
Alec smise di respirare per qualche istante, mentre metabolizzava le parole di Isabelle, e lei allungò una mano per afferrare quella di Alec.
“L-lo pensi sul serio?”
“Non te lo direi, altrimenti.”
E Alec sapeva che Isabelle non gli avrebbe mai mentito su una cosa del genere.
“Io credo di amarlo,” disse, seguendo il sentiero che aveva preso quella conversazione, fattasi estremamente personale e profonda. Non si sentiva pronto per confessarlo a Magnus, aveva troppa paura di affrettare le cose, di mettergli pressione, ma aveva bisogno di dirlo a qualcuno, per sentire che effetto gli avrebbe fatto. E chi meglio di Isabelle, che era sempre stata colei a cui aveva sempre detto tutto?
Sua sorella balzò sulle ginocchia per riuscire a buttargli le braccia al collo e stringerlo forte a sé, facendogli quasi mancare il respiro.
“Oh, Alec,” disse, la voce che le tremò per l’emozione, “È meraviglioso.” 
“Mi manca l’aria, Iz.”
“Scusa!” lo lasciò immediatamente, ma continuò a guardarlo con gli occhi carichi di orgoglio, “Sono così felice per te, Alec! E sono sicura che anche lui prova le stesse cose.”
“Forse, ma non ho intenzione di scoprirlo, ancora. Voglio andarci piano.”
“Certo!” concordò Isabelle, “Possiamo cominciare andando a riesumare qualche vestito decente dal tuo armadio!” sorrise e Alec ricambiò, grato che sua sorella avesse nuovamente alleggerito l’atmosfera. Isabelle si alzò dal proprio letto e Alec la imitò, così insieme uscirono da quella camera per dirigersi verso quella di Alec.

Alec seguì Isabelle che entrò in camera dei suoi fratelli come se stesse entrando in territorio proprio. Trovarono Jace sul letto, la schiena incurvata su un quaderno e l’espressione corrugata in un eterno sgomento. Era talmente concentrato che non si rese nemmeno conto dell’arrivo dei suoi fratelli, che si misero a fissarlo. Solo quando Iz si schiarì la gola, Jace alzò lo sguardo su di loro – una tesa disperazione corrompeva il suo viso.
“Sono ufficialmente diventato stupido.” Sentenziò in preda allo sconforto, allontanando da sé il quaderno e il libro in un moto di istintiva repulsione.
“Che problema c’è?” domandò Alec, apprensivo, avvicinandosi al letto, dimentico momentaneamente del motivo originario per cui si trovava lì.
“Non riesco a trovare l’errore. E so che è minimo perché nel mio risultato è sbagliato solo il segno.”
Alec corrugò la fronte, pensoso, e afferrò il quaderno che Jace aveva allontanato da sé come se scottasse. Matematica, lo scoglio dei Lightwood. Nessuno di loro la amava, ma non erano mai andati male. Anche perché nella loro famiglia non era permesso andare male a scuola, di conseguenza era inaccettabile anche solo un’insufficienza. Alec si armò di tutta la pazienza che possedeva, perché altrimenti si sarebbe fatto contagiare dalla disperazione di Jace, e lesse l’equazione scritta sul quaderno. Era davvero chilometrica, quindi non si stupì dello sgomento di Jace e nemmeno del fatto che non riuscisse a trovare l’errore: un testo così lungo comportava almeno sette passaggi e nel tragitto era facile confondersi. Alec cominciò a leggere ogni passaggio risolto da Jace, pensando che molto probabilmente il suo famigerato errore era dovuto, in realtà, solo al fatto che ci fosse un errore di stampa nel libro di testo, quando, controllando il penultimo passaggio, Alec notò il minuscolo sbaglio, sicuramente una svista.
“Jace,” lo chiamò e il biondo alzò i suoi occhi su di lui, “Quanto fa meno moltiplicato meno?”
La faccia di Jace si contorse in un’espressione offesa, oltraggiata: “Ok che ho detto che sono stupido, ma non ti sembra di esagerare?”
A quel punto, Isabelle sbirciò a sua volta e Alec le indicò direttamente dove guardare.
“Non sta esagerando. Rispondi alla domanda.”
Jace sbuffò sonoramente, “Fa più,” disse pungente, “Mi offende sapere che mi ritenete così stupido.”
Alec gli sorrise, carico d’affetto, “Non stupido, solo stanco.” disse, passandogli il quaderno e indicandogli l’errore.
Jace grugnì di incredulità: “L’ho controllato cinque volte e non me ne sono accorto!”
“Succede di continuo, più cerchi l’errore e meno lo trovi.”
“Ok, Yoda, adesso lascia stare Jace e pensa al motivo per siamo qui!”
“Perché siete qui?” domandò il biondo, correggendo l’errore e chiudendo quaderno e libro con un’espressione di trionfo sul volto.
Isabelle sorrise eloquente, mentre Alec le lanciò un’occhiata ammonitrice – come a dire non esagerare – che lei ovviamente ignorò.
“Magnus l’ha invitato a cena.” Cominciò, sganciando la bomba un poco alla volta.
“Oh, ti ha convinto ad un vero appuntamento?”
Alec cambiò l’oggetto della sua occhiataccia, posando i suoi occhi su Jace, “Non capisco che necessità ci sia di chiamarli veri appuntamenti.” Brontolò, pensando che però era vero: lui e Magnus non avevano ancora avuto un appuntamento degno di questo nome.
“Io non avevo ancora finito.” Li rimproverò Iz, glaciale, facendo gelare i due sul posto. “Magnus l’ha invitato a cena per fargli conoscere suo padre!”
Udendo quelle parole, ad Alec tornò un principio di panico, Jace, invece, guardò il fratello come se lo stesse salutando un’ultima volta prima di partire per una guerra da cui sapeva non avrebbe mai fatto ritorno. Si alzò dal suo letto per abbracciarlo forte e Alec sentì lo stomaco contorcersi, mandandogli un violento conato di vomito. Se questa era la reazione di Jace, nella sua mente non poteva esserci nulla di buono.
“Preparati alla serata più imbarazzante di tutta la tua vita.”
Alec deglutì, le mani sudate che cominciarono a torturarsi tra di loro. Isabelle notò il gesto e gliele afferrò, lanciando un’occhiata truce a suo fratello.
“Solo perché per te è andata male, non significa che andrà male anche ad Alec!”
Jace le fece una boccaccia, “Non è andata male, saputella. Diciamo che è partita male. Jocelyn mi odia.”
“Jocelyn non ti odia,” lo rassicurò Isabelle, sebbene il tono melodrammatico del fratello le avesse fatto alzare gli occhi al cielo, “Sei il primo ragazzo serio di sua figlia, è logico che stia in apprensione per lei. Quella donna è iperprotettiva!”
Jace gonfiò le guance e ne fece uscire l’aria, “Lo so, mi guardava come se fossi pronto a rapire Clary e portarla in una dimensione alternativa per tramare loschi piani per la conquista del mondo insieme al mio compare psicopatico.”
Alec e Isabelle alzarono simultaneamente le sopracciglia, che schizzarono in mezzo alle loro fronti: “Wow,” disse il maggiore, “Ne hai di fantasia.”
“Taci, ne riparleremo quando il padre di Magnus ti farà domande imbarazzanti tipo quante ragazze hai avuto prima di sua figlia e se le tue intenzioni sono davvero serie o se sei uno scapestrato che vuole usarla solo per aggiungere una tacca alla sua cintura di conquiste, come se fosse impossibile che io possa amarla davvero!” sputò tutto d’un fiato Jace, isterico.
Alec socchiuse un occhio e alzò un sopracciglio, “Ho l’impressione che non stiamo più parlando di me.”
“Ma va?” sottolineò Isabelle, “Jace, l’importante è che Clary sappia che la ami e che le tue intenzioni con lei sono serie. Jocelyn lo capirà con il tempo.” gli sfiorò un braccio, rassicurante, prima di avvicinarsi a lui e abbracciarlo. Isabelle sapeva come trattare i suoi fratelli: Alec poteva sembrare quello più burbero e meno propenso al contatto fisico, ma in realtà preferiva di gran lunga gli abbracci a delle infinite parole di conforto; Jace, invece, andava prima calmato a parole e poi rassicurato con un abbraccio, altrimenti, il suo primo istinto sarebbe stato quello di respingere qualsiasi tipo di contatto fisico e rifugiarsi all’interno di se stesso, proteggendo le sue emozioni.
Isabelle sentì le braccia del fratello stringerle la vita e sorrise soddisfatta.
“Grazie,” le sussurrò all’orecchio.
“Quando vuoi,” gli passò una mano sulla schiena e Jace le baciò la fronte prima di sciogliere l’abbraccio e guardare Alec, riacquistando tutta la sua sicurezza.
“Dimmi che non hai intenzione di conoscere il padre del tuo ragazzo con quell’orribile maglione grigio topo!”
“È nero!” esclamò Alec in un sibilo, socchiudendo gli occhi. Quasi quasi preferiva Jace in versione crisi isterica alla versione saccente.
Era nero, Alec. Adesso è grigio tarpone. E deformato. E ti prego toglitelo, equivale ad un pugno in un occhio per me!” commentò Isabelle, melodrammatica.
Alec alzò gli occhi al cielo, ma non si spogliò. Non aveva alcuna intenzione di patire il freddo perché i suoi fratelli avevano il dramma nel sangue. Un maglione era un maglione. Serviva a riscaldarlo in autunno inoltrato e gli piaceva.
“Risparmiami le tue crisi alla Vera Wang, Iz. Vuoi aiutarmi o no?”
Isabelle sventolò una mano e si avviò con passo sicuro verso l’armadio di Alec – era stranissimo non sentire il ticchettio dei suoi tacchi che scandiva ogni suo passo, rimbombando sul pavimento, ma almeno in casa Isabelle teneva le pantofole e di conseguenza non faceva rumore alcuno. Erano in quei momenti che Alec si rendeva conto della sostanziale differenza d’altezza che c’era effettivamente tra lui e sua sorella. I tacchi potevano slanciarla, ma Isabelle era davvero piccola, sebbene le sue dimensioni non la facessero sembrare più indifesa, o fragile. Anche in quelle condizioni, Isabelle rimaneva una macchina da guerra, spietata – con chi lo meritava – e fiera. E Alec la adorava così tanto per questo, per la sua audacia e il suo modo di non farsi mai calpestare da nessuno.
“Sai che Vera Wang fa principalmente abiti da sposa, vero?” disse Iz, le spalle rivolte verso i fratelli e il viso all’armadio, intenta a studiarne il contenuto.
Jace si lasciò andare ad una risata che non si premurò nemmeno un po’ di mascherare, e nemmeno lo sguardo truce che Alec gli lanciò, spietato, riuscì a farlo smettere.
“Vuoi dirmi che inconsciamente hai già pensato a come ti vestirai, se vi sposerete?” lo prese in giro Isabelle, voltandosi a guardarlo, “Onestamente parlando, io avrei pensato più ad un Tom Ford, su di te, ma de gustibus…”
“Isabelle!” esclamò Alec, esausto ed esasperato, mentre Jace si piegava in due dalle risate. Averla a che fare con i suoi fratelli quando si mettevano di impegno per torturarlo diventava sempre più difficile. “Perché devi sempre prendere alla lettera ogni cosa che dico?”
“Perché mi piace testare la tua pazienza!” disse lei, la lingua tra i denti e lo sguardo furbo. Se Alec non le avesse voluto un bene immenso, probabilmente avrebbe perso la sua pazienza anni prima. La vide immergersi nell’armadio, mentre Jace si asciugava le lacrime dagli occhi, e riemergere con dei vestiti che Alec si era persino dimenticato di avere.
“Prova questi. Fammi vedere come ti sta qualcosa che non sia grigio topo.”
“Nero,” bofonchiò Alec, ma afferrò i vestiti e obbedì.

*

Alec stava davanti alla casa di Magnus con il respiro che non ne voleva sapere di regolarizzarsi. Improvvisamente, la camicia di denim che aveva scelto Iz per lui gli sembrava più aderente di quanto gli fosse sembrata quando se l’era infilata e gli impediva di respirare correttamente. Avrebbe tanto voluto fare dietrofront e tornarsene a casa, ma questa idea lo faceva più stare male di quanto lo stava facendo il panico provocato dal fatto che stava per conoscere il padre di Magnus. Così con un ultimo, profondo, respiro, si decise a suonare il campanello. Il cuore cominciò a martellargli nel petto, invadendo le orecchie, i polpastrelli e quando la porta si aprì, di certo le cose non migliorarono. Il suo battito cardiaco lo stava assordando così tanto che non udì il saluto dell’uomo che stava sulla soglia. Era alto, aveva i capelli brizzolati –  che fecero intuire ad Alec che doveva avere più o meno una quarantina d’anni – e lo stava osservando con profondi occhi scuri.
“Tu devi essere Alexander.” disse e la sua voce – che questa volta Alec riuscì a percepire – suonò cordiale.
Alec riprese piena facoltà di sé – o almeno ci provò – e abbozzò un sorriso, “Solo Alec va bene, signore.”
Ragnor si fece da parte per farlo entrare, “Niente signore, ti prego, mi fa sentire più vecchio di quanto non sia.” Disse, mentre Alec entrava in casa, “Solo Ragnor va bene.” L’uomo fece eco alle parole di Alec, il quale si trovò, momentaneamente, a respirare di nuovo come un normale essere umano. Ragnor non sembrava intento a torturalo, almeno per il momento.
Alec rimase al centro del salotto per ambientarsi un attimo, ricordando benissimo l’ultima volta che era stato lì, e poi si ricordò di avere le mani occupate.
“H-ho portato…” e si maledisse per essere entrato in modalità imbranato, “…qualcosa.” Wow, sicuramente non sembrava un cretino. Improvvisamente l’idea che una voragine infernale si aprisse sotto ai suoi piedi e lo trascinasse a fare una visitina a Lucifero in persona sembrava più allentate che fare la figura dell’idiota di fronte a Ragnor.
L’uomo stava per rispondergli, quando…
“Ho sentito suonare il campanello, Ragnor!”
…la voce di Magnus veniva dal piano di sopra, sebbene la sua figura non fosse ancora comparsa nonostante i passi frenetici che scendevano le scale.
“Alexander è arrivato!” continuò agitato.
Alec vide Ragnor stringere le labbra per non ridere e rimanere volutamente in silenzio fino a quando Magnus non entrò in salotto solo per godersi l’espressione momentaneamente sorpresa – e tradita, perché a quanto pare Magnus riteneva opportuno che Ragnor lo informasse di come stavano le cose –  che comparve sul suo volto.
“Oh…” disse, guardando Alec. “Sei qui,” la sua voce era carica di una dolcezza disarmante. Magnus si avvicinò a lui e lo liberò del vassoio che teneva in mano, passandolo senza troppe cerimonie a Ragnor, che lo afferrò trattenendo ancora una risata. Magnus sembrò ignorarlo di proposito, come se sapesse cosa stava passando per la testa dell’uomo e di conseguenza non volesse dare ascolto a qualsiasi cosa fosse ciò che, apparentemente, lo divertiva tanto. Non ignorò invece Alec e si mise alle sue spalle per aiutarlo a togliersi il giubbotto di pelle e appenderlo all’attaccapanni vicino alla porta. Non che Alec avesse davvero bisogno di farsi aiutare a togliersi il giubbotto, ma era piacevole vedere Magnus che si prendeva in qualche modo cura di lui. Così come era piacevole sentire il suo sguardo addosso, i suoi occhi che indugiavano sui punti del suo corpo messi in evidenza da una camicia che sì non lo faceva respirare, ma almeno sembrava essere gradita da Magnus.
E il modo in cui il ragazzo stava lentamente percorrendo Alec con gli occhi, valeva tutta l’apnea che stava sopportando.
“Sei bellissimo.”
Alec arrossì, sia per il complimento sia perché Ragnor era ancora in quella stanza e poteva sentirli. Era abituato ai suoi genitori, al modo che avevano di pensare, al fatto che lui di fronte a Robert non avrebbe mai potuto definire un ragazzo, o meglio, il suo  ragazzo, bellissimo. Ma Ragnor sapeva della bisessualità di Magnus ed evidentemente gli stava bene che uscisse con lui altrimenti non l’avrebbe invitato a cena, altrimenti Magnus non si sarebbe sentito così a suo agio a fargli i complimenti in sua presenza. Altrimenti Ragnor non avrebbe avuto quel sorriso premuroso stampato sul viso mentre guardava Magnus. Ragnor sembrava semplicemente felice della felicità di Magnus e Alec trovò immediatamente la cosa confortante. Si sentì quasi più a suo agio. Quasi.
“Grazie,” sussurrò pianissimo.
Ragnor si schiarì la gola, probabilmente perché la situazione stava diventando leggermente imbarazzante anche lui – l’unico che non era toccato da questo sentimento, Alec ci avrebbe scommesso il suo arco, era Magnus. 
“Non dovevi portare niente, Alec.” gli disse e suonò sincero.
Alec, sebbene non avesse fatto parola alla sua famiglia su dove fosse realmente – i suoi genitori pensavano fosse al cinema, cosa piuttosto credibile, visto che i film in solitaria erano una delle sue abitudini più radicate – immaginò la faccia che avrebbe fatto sua madre se avesse saputo che si era presentato a casa di qualcuno che l’aveva invitato a cena a mani vuote. L’avrebbe guardato con rimprovero e gli avrebbe chiesto se in anni di educazione non avesse imparato niente.
“Mi ha fatto piacere,” si limitò a dire e Magnus sbirciò il sacchetto che avvolgeva il vassoio, che aveva un logo familiare. Sorrise quando lo riconobbe, ma disse solo: “Cosa c’è li dentro?”
“Muffin. Spero vi piacciano.”
Magnus si allargò in un sorriso gongolante, “Il mio muffin mi ha portato dei muffin, quindi?”
“Magnus…” lo rimbeccò Ragnor, mentre Alec diventava viola. “Dagli tregua,” aggiunse l’uomo, notando il rossore di Alec. “Ci piacciono i muffin, Alec, grazie.” Gli sorrise Ragnor, gentile, prima di avviarsi verso il corridoio che conduceva alla cucina, ufficialmente con la scusa di mettere a posto il vassoio, sostanzialmente per lasciarli da soli. L’uomo aveva l’impressione che quei due non si fossero ancora salutati come in realtà avrebbero voluto.
Magnus aspettò di vedere la chioma brizzolata di Ragnor sparire dalla stanza prima di avvicinarsi ad Alec e infilare le dita nei passanti dei suoi pantaloni verde militare per tirarlo a sé e baciarlo.
Alec impiegò mezzo secondo a rispondere a quel bacio, visto che lo aveva desiderato dal momento stesso in cui aveva sentito la voce di Magnus.
“Devo dedurre,” soffiò Magnus sulle sue labbra, “Che poi non lo trovi tanto ridicolo come soprannome?”
Alec sbuffò una risata, “No, devi dedurre che forse mi condizioni troppo.”
“O che ti piace pensarmi. Ho riconosciuto il logo.”
Alec arricciò il naso, in una smorfia che Magnus ritenne adorabile, “L’ho fatto di proposito. Ricordi cosa mi hai detto quando siamo entrati in quella pasticceria?”
Come avrebbe potuto non ricordarlo? La prima volta che aveva passato del tempo insieme ad Alec, per Magnus, era stata una dei momenti migliori della sua vita.
“Che ero felice ci entrassi con me per la prima volta, almeno mi avresti pensato tutte le successive volte che l’avresti fatto.”
“E sai cosa avrei voluto risponderti?” gli disse Alec, il naso che si strofinava contro quello di Magnus nell’imitazione di un bacio all’eschimese.
“No, cosa?” domandò l’altro, curioso.
“Che non mi serve una pasticceria per pensarti.”
Magnus gli rivolse un sorriso soffice, “Sei disgustosamente dolce.”
“Lo dovrai sopportare come io sopporto i tuoi nomignoli strani.”
“Non ho detto che la cosa non mi piace, muffin.
Alec roteò gli occhi, ma venne tradito dal sorriso sulle sue labbra. “Ce n’è qualcuno alla cannella.”
Magnus lo guardò con gli occhi che luccicavano di stupore, “Ti sei ricordato,”
“Lo dici come se fosse una cosa anomala, Magnus. Io mi ricordo tutto quello che dici, soprattutto quando ti lanci in appassionate motivazioni sul perché ami la cannella ovunque.”
E Alec ricordava bene che la prima volta che si erano visti, Magnus aveva gentilmente chiesto alla barista di mettere una spolverata di cannella sul suo cappuccino. Quando poi si erano diretti al tavolo libero, aveva cominciato a parlare di come trovasse i dolci alla cannella superiori ad una miriade di dolci.
“C’è solo una cosa che mi piace più della cannella.”
“Cosa?” domandò Alec, anche se un’idea se l’era fatta. Magnus, in tutta risposta, gli leccò le labbra prima di baciarlo approfonditamente.
“Tu,” soffiò e Alec sorrise soddisfatto.
“Ragazzi!” li chiamò Ragnor dalla sala da pranzo, “A tavola!”
Magnus gli stampò un bacio sulle labbra prima di sciogliere l’abbraccio. “Sei ancora nervoso?”
Alec si astenne dal chiedergli come facesse a sapere che lo fosse, perché sapeva che la risposta era semplice: a Magnus veniva facile capire Alec come respirare.
“Un po’ meno, adesso.”
Magnus gli sorrise incoraggiante e gli porse una mano, che Alec afferrò – le loro dita si intrecciarono come se altro non avessero aspettato che ricongiungersi con la metà mancante dopo una lunga lontananza – e insieme si diressero da Ragnor.

Fu una serata piacevole, per Alec. Si rese conto che le sue paure e  i suoi timori se ne andarono con la stessa velocità con cui erano arrivati nel momento stesso in cui si sedette a tavola, nella sala da pranzo. Ragnor aveva apparecchiato, ma Alec aveva sentito l’impulso di dirgli, educatamente, che avrebbero potuto mangiare la pizza nei cartoni, facendo sorridere l’uomo, che gli disse senza troppi preamboli che gli piaceva il suo modo di ragionare e che sarebbero sicuramente andati d’accordo. E fu così. Ragnor si dimostrò un uomo buono, intelligente e spiritoso, sebbene Magnus ritenesse che le sue battute fossero imbarazzanti.
“Non apprezzi il mio umorismo, non è una novità.”
Magnus rispose con una smorfia, mentre Alec non riusciva a trattenere un sorriso.
Era bello vedere Magnus a proprio agio con qualcuno come lo era con quell’uomo. Aveva appurato, durante la serata, che Ragnor Fell era presente mentre Magnus Bane veniva al mondo, dal momento che la madre del ragazzo, Mallory, era stata la sua migliore amica. E in quanto tale, la sua assenza gravava sul cuore dell’uomo come se fosse venuta a mancare ieri e non certo sei anni prima. Non che esista un lasso di tempo ritenuto sufficiente a colmare una perdita simile, in ogni caso. Certi vuoti non si colmano. Mai. Per questo Alec non aveva fatto domande su di lei. Il dolore va rispettato e capito finché il portatore del suddetto dolore si sente forte abbastanza da gestirlo ed esternarlo. Solo allora possiamo accoglierne una parte che vada ad alleggerire il cuore di chi se l’è portato dietro per anni. O almeno, Alec la vedeva così.
“Dovresti cercare di migliorarti, anzi che offenderti.” Ribatté Magnus, ma nel suo tono non c’era nemmeno la metà del sarcasmo che avrebbe voluto usare. Era una frase carica di complicità, di qualcosa nato negli anni tra di loro, un gioco che conoscevano solo Magnus e Ragnor, una specie di tradizione di famiglia.
“Taci.” Concluse l’uomo, un indice puntato in direzione di Magnus, “Davvero non so come fai a sopportarlo!” aggiunse poi, rivolto ad Alec, che sorrise.
“Ha tanti pregi.”
“Il che presuppone automaticamente che io abbia dei difetti, come se fosse davvero possibile attribuirmene!”
Alec roterò gli occhi al cielo, “Gliel’ho sempre detto che lo apprezzo maggiormente per la sua modestia.”
E Magnus, siccome sapeva di essere abbastanza perfido, almeno quando si trattava di pungolare Alec e metterlo in imbarazzo – nei limiti consentiti dalla carta dei diritti fondamentali dell’uomo, ovviamente – disse: “E io che pensavo mi apprezzassi maggiormente per il mio sedere.”
Alec si strozzò con l’acqua che stava bevendo e gli lanciò un’occhiata assassina, mentre il suo viso si accaldava. Non aveva il coraggio nemmeno di respirare, a questo punto, figuriamoci guardare Ragnor per capire che espressione avesse in viso. Gliel’avrebbe fatta pagare. Poteva giurarci. Gli avrebbe versato tutti i suoi smalti nello scarico di un bagno pubblico, o gli avrebbe preso in ostaggio la macchina fotografica fino a data da destinarsi. Aveva tempo per decidere.
“Io sicuramente apprezzo il tuo. Tanto. Ancora di più dentro a quei pantaloni.” Continuò Magnus, giusto per dargli il colpo di grazia.
“Tutto ciò non fa altro che confermare la mia insinuazione: dovrebbero farlo santo per sopportarti!”
Il commento rilassato di Ragnor – che evidentemente teneva particolarmente a non imbarazzarlo (a differenza di Magnus) – fece si che l’apparato respiratorio di Alec tornasse a funzionare correttamente.
“Stavo per dire che ti apprezzo per moltissime cose, ma a questo punto non ti meriti di sapere quali!” concluse Alec e Ragnor ridacchiò. Ma Magnus, ovviamente, si dimostrò contrario alla decisione di Alec, quindi mise il broncio e lo guardò con gli occhi grandi, da cucciolo – gli occhi a cui Alec non sapeva negare niente, “Ma io vorrei saperle!”
Manipolatore.
Lo era. Lui e i suoi bellissimi occhi ambrati. Ma era talmente adorabile che Alec si trovò a perdonarlo con facilità.
Respirò a fondo, prima di parlare, come se volesse ponderare se aprirsi così tanto di fronte a Ragnor sarebbe stato opportuno, ma il suo cuore prese parola prima che il cervello lo guidasse verso la direzione che reputava più razionale.
“Sei gentile e buono,” cominciò Alec, gli occhi incatenati a quelli di Magnus in quel modo che non gli faceva percepire altro se non lui, “Sei appassionato e curioso, intelligente in una maniera raffinata,” continuò allungando una mano sul tavolo per riuscire a toccare quella di Magnus, “Hai un entusiasmo nei confronti di tutto ciò che c’è di bello nella vita che è contagioso e…”
Alec si fermò giusto in tempo.
E io ti amo.
Era il modo in cui avrebbe voluto finire quella frase, ma non era né il luogo, né il momento adatto perché non erano soli, perché quelle erano parole importanti e non voleva che venissero percepite come premature, anche se Alec le sentiva dal più profondo del suo cuore. Non c’era fretta. Nessuna fretta.
Magnus, a quel punto, si alzò dal suo posto e fece il giro del tavolo per raggiungerlo, girò la sedia su cui si trovava seduto Alec verso di sé per infilarsi tra le sue gambe e riuscire ad aderire meglio contro di lui, mentre le proprie mani si allacciavano al suo collo e faceva scontrare le loro bocche in un bacio bisognoso, impaziente. Magnus voleva mostrargli tutta la gratitudine che sentiva gonfiargli il cuore ad ogni parola pronunciata da Alec. Nessuno l’aveva mai dipinto in quel modo. Nella sua vita gli erano stati assegnati moltissimi nomi, molti spiacevoli, altri meno, ma mai nessuno, nessuno, gli aveva fatto credere di poter essere una persona migliore, di voler essere una persona migliore.
Alec sentì Ragnor alzarsi da tavola, probabilmente con l’intento di lasciarli soli nella loro intimità, ma fu un suono distante, perché nelle sue orecchie echeggiava il rimbombo del suo battito cardiaco accelerato. Le sue mani andarono automaticamente alla schiena di Magnus, stringendo l’abbraccio e ricambiando il bacio, nel modo più intenso che riuscì a trovare.
Lo amava, Dio se lo amava. E ogni parte di sé glielo stava urlando: il cuore impazzito, le orecchie che fischiavano, l’aria assente nei polmoni, il viso in fiamme.
“Grazie,” gli sussurrò Magnus sulle labbra, quando il bisogno di ossigeno li portò a separarsi.
“Di cosa?” chiese Alec a fatica, il respiro mozzato e il cuore che non aveva ancora intenzione di placarsi.
“Di essere entrato nella mia vita.”
Il moro gli baciò il naso e lo abbracciò più forte, “Potrei dire lo stesso di te.”
“Ma non lo farai perché vuoi vendicarti di ciò che ho detto davanti a Ragnor?” suggerì Magnus, una risata leggera che non riuscì a trattenere, mentre accarezzava gli zigomi di Alec, che teneva ancora le braccia intorno alla sua vita.
“Per quello mi vendicherò in altro modo, sappilo.” Lo baciò a stampo.
“Non sono più dolce e buono e tutte quelle meravigliose cose che hai appena finito di dire?”
Alec rise, “Lo sei, ma sei anche incredibilmente indiscreto e fuori luogo, a volte. E ti piace mettermi in imbarazzo-”
“Sei adorabile quando arrossisci,” spiegò Magnus, come se quell’affermazione bastasse a giustificare il suo comportamento, guadagnandosi un’occhiata spigolosa di Alec che si premurò di smussare con un bacio. Funzionò. Gli occhi di Alec, grandi, intensi da farlo uscire di testa e carichi di una genuina dolcezza, gli sorrisero prima ancora che riuscissero a farlo le sue labbra.
“Devi smetterla di comportarti così,” lo rimproverò, ma non suonò convincente quanto sperava. Nemmeno un po’, onestamente parlando.
“Non è vero, ti piace quando faccio queste cose.”
“Disgustosamente sdolcinate?” suggerì Alec, alzando la testa per sfiorare con il naso il mento di Magnus, in una delicata carezza.
“Disgustosamente sdolcinate.” Confermò l’altro, intervallando la sua risata a dei baci che Alec ricambiò volentieri.

*

Quando Alec rientrò in casa propria, con un sorriso ebete sul viso che non aveva nessunissima intenzione di scomparire, i suoi occhi vennero attratti da una figura raggomitolata sul divano. Si avvicinò con cautela, cercando di fare meno rumore possibile e quando fu abbastanza vicino, si rese conto che in quel misto di coperte e cuscini c’era sepolto Max, che si era addormentato guardando un film d’azione. Glieli lasciavano guardare, se non erano troppo violenti. D’istinto, gli accarezzò la fronte e il bambino si mosse leggermente, ma non si svegliò.
“Voleva aspettarti sveglio,” sussurrò una voce al suo fianco. Alec si voltò per incrociare gli occhi carbone di sua madre. Maryse indossava ancora uno dei completi che usava per andare a lavoro, ma teneva un grembiule legato in vita e si stava asciugando le mani con un canevaccio. Alec dedusse che doveva appena aver finito di sistemare la cucina.
“Com’era il film?” gli chiese, una nota sinceramente curiosa nella voce. Sua madre, per quanto severa potesse essere, a differenza di suo padre quando faceva domande semplici si aspettava una risposta altrettanto semplice. Non domandava per cogliere significati nascosti. Domandava perché era davvero interessata alla vita dei suoi figli.
“Bello,” alzò le spalle, cercando di imporre un contegno ai suoi muscoli facciali, che altrimenti avrebbero ripreso a sorridere. Non gli piaceva mentire a sua madre, ma sapeva che, per adesso, piccole bugie erano l’unica cosa che poteva salvaguardarlo un po’.
Era ancora presto per la verità. “Un po’ lento, in alcuni punti, ma piacevole.” Aggiunse perché non farlo sarebbe stato sospetto. Alec parlava sempre dei film che andava a vedere descrivendoli abbastanza e mai limitandosi ad un aggettivo unico.
Maryse annuì e Alec vide la stanchezza attraversare i suoi tratti, “Va’ a dormire, mamma. A Max ci penso io.”
“No,” disse perentoria, negli occhi una scintilla lucida che Alec ormai aveva imparato a riconoscere. L’aveva vista piangere così tante volte, dopo l’incidente di Max, che capire quando stava per farlo era diventato facile. Ma sua madre era anche tremendamente orgogliosa, quindi ricacciò indietro le lacrime e si avvicinò al figlio più piccolo, con l’intento di svegliarlo. Alec, però, le afferrò delicatamente il polso, “Va’ a dormire,” ripeté.
Maryse si morse le labbra – e Alec sapeva che quel gesto era un modo per ricacciare indietro il ricordo, ancora troppo vivo nella sua mente, di quando gli aveva permesso di prendere il suo posto, in ospedale, ogni volta che tornava a casa per riposarsi, chiedendo ad un ragazzino di quattordici anni più responsabilità di quanta ne fosse prevista per la sua età –  ma annuì senza dire una parola. Accarezzò il bambino e successivamente posò una mano sulla guancia di Alec, lasciandola lì per qualche istante.
“Hai fatto così tanto per lui. Per me.”
Non gli lasciò il tempo di rispondere perché si stava già allontanando, e Alec, mentre teneva gli occhi fissi sulla schiena di sua madre, si chiese se si sarebbe mai perdonata per averlo coinvolto così tanto quando Max era in ospedale, per essersi appoggiata a lui in un momento in cui la sua forza e la sua tenacia sembrava non fossero abbastanza, e dire che di entrambe Maryse ne aveva da vendere. Se lo chiese perché era l’unica che incolpava se stessa di qualcosa, dal momento che Alec non l’aveva mai ritenuta responsabile di niente. Non la incolpava di niente. Si sarebbe preso cura di Max anche se non avesse percepito il bisogno disperato di una donna (di una madre che stava andando in pezzi) di avere qualcuno al suo fianco. E dal momento che suo padre non c’era stato, Alec si era fatto avanti. Ma l’avrebbe fatto comunque, perché si trattava di Max e gli era venuto istintivo stare al suo fianco.
“Ehi, soldato.” Sussurrò Alec, cacciando indietro quei pensieri, scuotendo leggermente Max per una spalla. Il bambino aprì un occhio solo di mala voglia.
“Ancora cinque minuti.”
Alec sorrise, rivedendo in suo fratello un po’ di se stesso, “Non sei nel tuo letto. Avanti, svegliati.”
Max si stiracchiò e cominciò a strofinarsi gli occhi, poi li aprì e quando riconobbe totalmente Alec sorrise, “Sei tornato! Com’era il film?”
“Interessante,” rispose Alec, sorridendo di rimando al fratellino, “Ora alzati, così puoi tornare a dormire nel tuo letto.”
Max annuì e, uscendo dal bozzolo di coperte che si era buttato addosso, si mise in piedi sul divano, facendo mostra del suo pigiama con gli alieni di cui andava particolarmente fiero.
“C’è solo un modo in cui andremo di sopra!” disse e Alec scosse la testa, divertito. Sapeva benissimo come sarebbe andata a finire nel momento esatto in cui l’aveva visto addormentato sul divano, così si voltò e si chinò, in attesa che Max gli saltasse sulla schiena.
“Arriverà un giorno che non potrai più farlo, lo sai, vero?”
“Perché sarò diventato più alto di te, mentre tu sarai vecchio?” ridacchiò Max e in quella punta di sarcastica insolenza, Alec riconobbe Jace.
“Non diventerai più alto di me!”
“Si invece, i maschi Lightwood sono tutti alti!” insisté e Alec rise di cuore, mentre si incamminava su per le scale con Max sulla schiena, le braccia del bimbo che si tenevano fermamente al suo collo.
“Alec,” lo chiamò dopo attimi di silenzio, una volta finite le scale, mentre imboccavano il corridoio delle camere.
“Dimmi,” disse il maggiore, sistemandosi meglio Max sulla schiena.
“Hai un odore strano addosso,” lo disse con una semplicità disarmante, come se stesse parlando del tempo, ma Alec, che aveva la coscienza sporca – perché mentire a Max gli veniva più difficile che mentire a sua madre – si bloccò in mezzo al corridoio, i pensieri che incespicavano su loro stessi incapaci di formare qualcosa di coerente che sarebbe dovuto uscire dalla sua bocca.
“È legno di sandalo, Max.” intervenne Isabelle, le braccia incrociate al petto, mentre stava appoggiata allo stipite della porta di camera sua. Nemmeno a farlo apposta, dopo mezzo secondo Alec vide la testa bionda di Jace uscire dalla loro. Entrambi avevano un sorriso ferino, qualcosa che li faceva assomigliare a dei predatori e Alec non si era mai sentito tanto agnellino in vita sua.
Hannibal Lecter, se paragonato a Jace ed Iz in questo momento, non sembrava poi tanto spietato.
“Mi piace. È strano, ma mi piace.” Concluse con semplicità il bambino, saltando giù dalla schiena di Alec per dirigersi in camera sua. Sulla soglia della stanza, però, tornò indietro e abbracciò Alec, che si chinò alla sua altezza per facilitargli le cose, poi si diresse da Jace, che imitò il fratello per fare in modo che Max riuscisse ad abbracciarlo senza difficoltà e poi andò da Isabelle, che invece lo sollevò per coprirlo di baci.
“Vi voglio bene. Tanto tantissimo!” disse il piccolo Lightwood, prima di salutare i suoi fratelli e andare in camera sua.
“Anche noi,” risposero all’unisono i tre più grandi, in un modo che fece ridacchiare Max, che tutto sommato poteva ritenersi soddisfatto e fortunato di avere dei fratelli così.
“Buonanotte!” disse, prima di chiudere la porta della sua camera e lasciando Alec solo con i due squali che aveva per fratello e sorella. Non aveva scampo, lo sapeva.
Che l’interrogatorio abbia inizio.


“Devi raccontarci tutto!” squittì Isabelle seduta a gambe incrociate sul letto di Jace, il suo pigiama rosa che la faceva sembrare una nuvola di zucchero filato.
“Anche i dettagli sconci.” Rincarò Jace, al fianco della sorella, con la schiena appoggiata alla testata del letto e le gambe distese sul materasso.
Era strano pensare che Isabelle mettesse una cura maniacale anche nella scelta del suoi pigiami, mentre per lui e Jace la scelta ricadeva su dei pantaloni di vecchie tute e magliette logore a maniche corte.
Sospirò, guardandoli dall’alto, visto che era ancora in piedi, e si trovò ad alzare un sopracciglio.
No. I dettagli sconci se li sarebbe tenuti per sé.
Non che ce ne fossero, comunque. Lui e Magnus si erano solo baciati.
“Non vi racconterò un bel niente!” brontolò Alec, dirigendosi al suo letto e frugando sotto al cuscino per trovare ciò che definiva pigiama. La camicia e i pantaloni saranno stati anche apprezzati da Magnus, e Alec davvero ne era compiaciuto, ma non riusciva più a respirare. Si tolse velocemente la camicia, sostituendola con una maglietta blu scuro e scivolò fuori dai pantaloni, infilando con la stessa velocità il sotto di una tuta grigia.
“Aleeeeeec!” cantilenò Isabelle alle sue spalle, tenace come uno squalo che ha fiutato sangue. Il maggiore si passò una mano tra i capelli, scompigliandoli più di quanto Magnus non avesse già fatto, e si voltò.
“Ti preeeeego.”
Alec avrebbe voluto lanciarle uno sguardo severo, ma non ci riuscì, perché Isabelle sapeva come prenderlo, come addolcirlo, come smussare quella parte spigolosa del suo carattere restia a condividere le sue emozioni e quindi, quando lo guardava con gli occhi scuri carichi di curiosità e comprensione, Alec cedeva ogni volta.
“D’accordo,” esalò, paziente e Isabelle dondolò sul letto di Jace, mentre il biondo, con un sorriso soddisfatto sul viso – sapeva benissimo che poteri aveva Isabelle su Alec perché erano gli stessi che aveva su di lui, anche se non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce – cominciò a tamburellare con la mano sul materasso, un chiaro invito a far si che Alec si mettesse sul letto tra di loro.
Cosa che risultò alquanto difficile, dal momento che non erano più bambini e Alec sfiorava il metro e novanta.
“Prima di tutto: vi odio,” cominciò, facendo ridere i due ai suoi  lati, “Secondo: non ci sono dettagli sconci e anche se ci fossero non ve li racconterei!”
Entrambi sbuffarono, “Io ti racconto tutto!” aggiunse Jace.
“E sei anche troppo dettagliato nel farlo, se permetti.”
“Voglio condividere a pieno esperienze piacevoli con mio fratello, nonché migliore amico, vuoi farmene una colpa?”
“Sta’ zitto, Jace!” lo rimbeccò Isabelle, che si allungò verso il fratello per pizzicargli un braccio, “Voglio sapere com’è andata!”
Alec intrecciò le mani sull’addome, “Bene, tutto sommato. All’inizio ero nervosissimo, ma Ragnor è simpatico. È un paleontologo, ha scritto molti libri e ha viaggiato in tantissimi posti del mondo per i suoi studi. Lui e Magnus hanno vissuto a Parigi qualche anno fa e a Barcellona fino a che non sono ritornati a New York, quest’estate, perché Ragnor ha ottenuto un posto come insegnate all’università.”
“Quindi ti sussurra cose sconce in spagnolo?” incalzò Jace, beccandosi un’occhiata assassina di Alec.
“Che vuoi? Lo spagnolo è sexy. Se Clary cominciasse a dirmi cose in spagnolo andrei fuori di testa!”
“È necessario che lei si limiti a guardarti per farti uscire di testa, Jace.”
“Hai ragione. Ma cosa posso farci? È stupenda!”
Alec rise, ma senza nessuna intenzione di deriderlo, era solo felice di vedere Jace così preso dalla ragazza che amava, lui che non si era mai spinto troppo in là con nessuna, troppo concentrato a proteggere le sue emozioni per mostrare al mondo che persona meravigliosa si celasse dietro la sua corazza di arroganza e sarcasmo.
Clary era riuscita ad abbattere lo scudo di spine che circondava il cuore di Jace e l’aveva coltivato con cura reverenziale, con devozione. Si era fatta amare e amava a sua volta, in una maniera del tutto speciale, unica. E Alec trovava fosse una cosa stupenda.
“Non mi ha mai parlato in spagnolo, comunque.”
“Dovrebbe farlo! Sarebbe la volta buona che smetti di mangiartelo con gli occhi e gli salti addosso sul serio!”
Isabelle, a quelle parole di Jace, scoppiò in una risata incontrollabile, appoggiando la testa sulla spalla di Alec, incapace di rimanere ferma. “Io approvo!”
“Questo perché sei perversa!”
“Oh, Alec, lo sei anche tu nel profondo. Io lo so!”
“Tu non sai un bel niente!”
“Ti conosco meglio delle mie tasche!” insisté la ragazza, e Jace le diede corda facendo scontrare un pugno sostenitore a mezz’aria con lei.
Alec mise il broncio, incrociando le braccia al petto, “Vi odio,” rimarcò, ma non c’era un briciolo di credibilità in lui e i suoi fratelli lo sapevano perché entrambi lo soffocarono in un abbraccio stritola costole, prima di tornare a chiacchierare del più e del meno, di qualsiasi cosa passasse loro per la testa, fosse essa una stupidaggine o una cosa estremamente profonda.
Alec amava quei momenti con tutto se stesso e non li avrebbe scambiati per nulla al mondo.

*

Convincere sua madre a lasciarli andare alla festa organizzata da Magnus, non fu semplice per Alec, ma gli anni passati a destreggiarsi tra i guai dei suoi fratelli, gli avevano insegnato a come fare per uscire indenne da una conversazione con Maryse e riuscire, in un certo senso, ad ottenere accordi vantaggiosi per entrambe le parti. Per questo, Alec era arrivato alla conclusione che dire la verità era la cosa migliore (se avessero mentito, Imogen avrebbe potuto dire a Maryse la verità riguardante la festa e allora avrebbero dovuto affrontare l’ira della madre, che non sopportava essere presa in giro) e aveva impacchettato la cosa dicendole che, se partivano presto e tornavano un po’ più tardi del previsto, era solo per aiutare il gentile padrone di casa a sistemare la sua abitazione in modo da renderla decente per gli ospiti e successivamente aiutarlo a pulire per non lasciarlo tutto solo a sistemare la sporcizia provocata da un’orda di adolescenti euforici. Alec aveva fatto leva sulla parte responsabile di sua madre, sul suo senso dell’ordine e sul fatto che aveva sempre avuto l’idea che se qualcuno organizza un evento, o una cena, era giusto dover aiutare a sistemare la casa alla fine di esso.  
Maryse aveva contratto le labbra in una linea sottilissima, i suoi occhi si erano posati sui suoi figli guardandoli uno alla volta, scrutatori, tanto che Alec pensava avrebbe detto di no, e invece accettò.
Così Alec, insieme al resto del gruppo, si trovava davanti alla casa di Magnus, che vantava decorazioni che Simon, vestito da Spiderman senza maschera, aveva ribattezzato alla Magnus – probabilmente per il modo in cui le ragnatele, che sembravano estremamente vere e facevano rabbrividire Alec di orrore, cadevano dal portico formando una specie di cortina, in cui erano intrappolati ragni e pipistrelli, che andava attraversata per arrivare alla porta, o per via delle decine di zucche che addobbavano il vialetto per raggiungere la casa, o forse (e Alec puntava su questa, perché lo trovò un tocco profondamente alla Magnus) fu la strega con il sensore di movimento che berciava una risata stridula ogni volta che qualcuno si avvicinava al campanello – che ovviamente, Alec non sapeva come era stato possibile, per l’occasione emetteva un rimbombo spettrale seguito da uno stridio acuto.
Magnus aprì la porta, raggiante nonostante fosse vestito di nero. O meglio svestito perché appena Alec si rese conto cosa aveva addosso gli andò il sangue al cervello. Magnus, infatti, indossava un paio di pantaloni neri, aderentissimi, accompagnati da nient’altro se non un gilet di pelle, arricchito da delle piccole borchie sulle spalle. I suoi occhi erano truccati con del kajal che faceva sembrare liquida l’ambra delle sue iridi, mentre i suoi capelli… a quanto pare, Magnus aveva intenzione di farlo morire perché li aveva rasati ai lati per avere una cresta, lunga e sparata in alto, con le punte colorate di rosso.
Dovette deglutire per cercare di riprendere possesso delle sue facoltà mentali, ma risultò tutto inutile. Come avrebbe potuto prendere possesso di sé quando tre paia di addominali lo stavano fissando, reclamando tutta la sua attenzione?
“Alexander, tesoro, i miei occhi sono quassù.”
Solo allora Alec tornò a guardarlo in viso, “Come se ti dispiacesse.”
Magnus gli rivolse un sorrisetto astuto e compiaciuto, “Non posso darti torto.”
“Smettetela di amoreggiare!” esclamò Jace, entrando in casa, seguito dal resto del gruppo. Alec li guardò togliersi i giubbotti, mentre Catarina andava loro incontro per dare direttive su dove posare gli indumenti, poi portò tutta la sua attenzione su Magnus.
“Non so chi o cosa dovresti essere, ma approvo in pieno.” E per rincarare si concesse un’altra occhiata agli addominali in bella mostra perché davvero sono un pazzo non l’avrebbe fatto.
Magnus rise, gongolante, “Sono una rockstar, Alexander. Non ti ricordo Axl Rose? Certo, ho sostituito la bandana rossa con la tinta per capelli, perché non avrei potuto rischiare di appiattirli, e il giubbotto con un gilet perché sarebbe stato strano in casa portare un giubbotto-” spiegò Magnus dettagliatamente e Alec lo zittì con un bacio.
“Axl Rose non è mai stato così bello nemmeno ai tempi d’oro, Magnus.”
Magnus gli sorrise e lo baciò di nuovo, le mani allacciate dietro la sua schiena. “Anche tu stai bene, sai?”
“Mi sento ridicolo,” borbottò Alec, le guance che si coloravano di rosso, “Ma Izzy mi ha obbligato a vestirmi, quindi ho scelto la cosa meno imbarazzante.” Spiegò, indicando con gli occhi bassi il suo costume, che altro non era che una divisa mimetica da marines.
Magnus emise un suono simile alle fusa di un gatto, “Ho sempre adorato gli uomini in divisa. In realtà, adoro te in divisa.”
Alec si rilassò e rise, sentendosi automaticamente meno in imbarazzo e gli baciò il naso. “Questa cosa l’hai detta anche dei pantaloncini da basket.”
“Perché su di te tutto diventa migliore, Alexander.”
Alec stava per baciarlo di nuovo, quando Catarina chiamò Magnus per completare gli ultimi dettagli della festa.
“Scusate, ragazzi,” disse, gli occhi nocciola truccati con l’eyeliner, le labbra tinte di rosso, che spiccavano sulla sua pelle scura, mentre i lunghi capelli, legati in una miriade di treccine, erano tenuti indietro da un cerchietto con le orecchie da gatta. Catarina, infatti, si era messa d’accordo con Izzy e Clary per fare un costume di gruppo e avevano optato per le sirene di Gotham: lei sarebbe stata Catwoman, Isabelle Harley Quinn, nella versione della Suicide Squad, e Clary Poison Ivy. “Ma davvero, Magnus, di là dobbiamo finire.”
“Certo,” disse Alec, “Vai, anzi se possiamo dare una mano…”
“Non preoccuparti, tesoro. Io e Cat possiamo farcela. In più abbiamo Raphael, che non fa altro che lamentarsi, ma almeno mentre blatera lavora.”
“Ti ho sentito, cabron.” Si intromise il diretto interessato, sbucando dalle spalle di Catarina.
“Io ti ho forse offeso, hombre? Non mi pare. Ho solo esposto la verità dei fatti!”
“Ragazzi…” si intromise Catarina, cercando di mantenere il tono più neutrale possibile, mentre Raphael lanciava una delle sue solite occhiate cariche di disapprovazione verso Magnus. Non che avesse altre espressioni, ragionò Alec. Raphael faceva parte del comitato e questo solo perché Catarina l’aveva trascinato con sé non volendo cominciare da sola. Quando si era iscritta, infatti, aveva chiesto a Raphael di accompagnarla perché voleva che ci fosse almeno una faccia conosciuta e il ragazzo aveva accettato. Se non altro, era un amico su cui poter contare, sebbene la sua faccia facesse pensare che avrebbe potuto saltarti al collo e succhiarti tutto il sangue dal corpo. La verità rimaneva, comunque, che per quanto scontroso potesse essere Raphael non era così male. E si era affezionato a Magnus e agli altri più di quanto avrebbe ammesso. E, cosa da non sottovalutare, stava insegnando ad Izzy a cucinare, il che non poteva altro che essere accolto positivamente da Alec, che almeno non avrebbe più rischiato di morire avvelenato mangiando i piatti preparati da sua sorella.
Vamos,” concluse Magnus, salutando Alec con un bacio, “tenemos una fiesta para planificar.
E mentre Magnus spariva con Catarina e Raphael fuori dalla sala, Alec si trovò a pensare che Jace aveva ragione. Lo spagnolo era sexy.
Soprattutto se era Magnus a parlarlo.

*

Gli invitati alla festa arrivarono qualche ora dopo l’arrivo del gruppo, che alla fine si era messo al lavoro e aveva aiutato gli altri a finire i preparativi. La casa di Magnus sembrava così diversa, gli addobbi che coloravano ogni angolo, catene di caramelle tenute insieme dallo spago che pendevano dal soffitto, le luci stroboscopiche che cambiavano colore a intervalli regolari, illuminando i volti degli studenti di ogni sfumatura esistente, fosse essa viola, verde, azzurra, gialla o rossa. La musica, di cui Simon si era gentilmente offerto di occuparsi, variava da un genere all’altro, creando sempre atmosfere diverse e mai banali, variando dai pezzi rock anni 90, alla discodance, ai lenti stile Il tempo delle mele, film che Simon aveva visto una cosa come dieci volte, sebbene Alec non ne capisse il motivo.
Era una festa grandiosa di cui, con ogni probabilità, gli studendi avrebbero parlato fino al ballo di fine anno e di cui Magnus sarebbe andato fiero. Alec, invece, sebbene fosse orgoglioso di Magnus, se ne stava in un angolo della sala, nascosto dalla movida. Non che avesse sperato la sua serata sarebbe andata diversamente, lui era patologicamente allergico a cose simili e mai prima di quella sera questo suo lato di sé l’aveva fatto sentire a disagio. Ma le cose erano cambiate circa quindici minuti prima, quando nella miriade di studenti che ballavano sopra le note della musica assordante che Simon lanciava dalla sua consolle, aveva visto Magnus, illuminato da una luce verde, che era stato braccato da Imasu.
Alec odiava Imasu. Dal più profondo del suo cuore. E detestava se stesso per non essere esattamente quello che si definiva un animale da festa perché, altrimenti, se lo fosse stato, si sarebbe avvicinato a Magnus (il suo Magnus) e si sarebbe sbarazzato di quel peruviano tutto muscoli e spalle larghe in tre secondi. Ma invece, siccome lui era tutto meno che un animale da festa, si stava limitando a guardare Imasu in cagnesco nella speranza che prendesse fuoco per autocombustione spontanea.
“Ehi, Alec!” lo affiancò Jace vestito da pirata – con annessa bandana sulla fronte, sebbene avesse rinunciato alla benda sull’occhio – distraendolo dai suoi pensieri. Il biondo teneva tra le mani due gelatine alcoliche alla menta, una delle quali destinata ad Alec, ma questi le afferrò entrambe e le trangugiò senza indugio una dietro l’altra. Le sentì scivolare facilmente giù per la gola, mentre il retrogusto di vodka gli bruciava la trachea e calmava un tantino i suoi nervi.
“Wow, si può sapere che hai?”
Alec non parlò, si limitò ad un irritato cenno del capo in direzione di Imasu e Magnus. Jace seguì il suggerimento con gli occhi e capì.
“Oh, afferrato.”
“Dovresti imparare a suonare il charango, Magnus!” cominciò allora Alec, imitando in maniera lagnosa la voce di Imasu, gesticolando frenetico con le mani, “Potrei insegnarti io, almeno avrei una scusa per abbracciarti da dietro, farti avere un incontro ravvicinato con le mie enormi braccia e avere una scusa per appoggiarti il mio pe-”
“Ho capito!” scattò Jace, interrompendolo, consapevole sia di come sarebbe andata a finire la frase, sia del fatto che in realtà non voleva sentire davvero come andava a finire quella frase.
“Chi cacchio lo suona più il charango??” sbottò Alec, frustrato.
“La vera domanda è cos’è un charango, Alec.”
“Una specie di chitarra ricavata dall’armadillo o una cosa del genere, ma non è questo il punto.”
“Il punto è che c’è un tizio che vorrebbe spalmarsi sul tuo ragazzo. Chi è, a porposito?”
“Imasu, frequenta letteratura francese con Magnus.” Alec fulminò il peruviano, gli occhi ridotti a due fessure, “Lo odio.”
Jace fece correre gli occhi bicolore da Alec a Imasu e da Imasu ad Alec.
“Vieni con me,” disse poi, afferrandolo per un polso senza lasciargli il tempo di replicare e dirigendosi verso il tavolo degli alcolici. Afferrò altre due gelatine e ne porse una ad Alec, “Al tre le buttiamo giù.”
“No.” Si rifiutò perentorio.
“Sì.” Ribatté con altrettanta risolutezza, “Ho un’idea, ma ci vuole un po’ di incoraggiamento.”
“Non mi fido delle tue idee quando comprendono l’alcol.”
“Sta’ zitto e buttala giù!” esclamò Jace, alzando il gomito del fratello in modo che Alec ingoiasse la sua gelatina. Il biondo lo imitò immediatamente. “Ok,” disse poi, “Vedi i barili di birra?” indicò al centro della sala e Alec annuì, “I ragazzi della squadra vogliono fare una specie di gara, ovvero chi riesce a stare a testa in giù il più possibile, attaccati al barile in equilibrio sulle braccia, mentre si beve la birra senza nessuno che ci tenga le gambe.”
“È la cosa più stupida del mondo,”
“Più stupida di te che rimani imbronciato in un angolo a guardare malissimo un tizio che vorrebbe infilare mezzo metro di lingua nella gola del tuo ragazzo?”
Colpo basso. Bassissimo.
“Cosa hai in mente?” si arrese Alec, ormai in balia della follia di suo fratello. Sapeva che aveva un piano: per quanto Jace poi mandasse tutto all’aria con la sua impulsività, le sue azioni erano ragionate. Almeno in parte.
“Vogliono farmi cominciare per primo, ma nessuno vuole fare la gara con me, perché sanno che perderanno in partenza,” si fermò a guardare male Alec quando questi roteò gli occhi, ma poi decise di proseguire, “tu invece hai abbastanza resistenza da poter competere con me.”
“Continuo a non capire cosa c’entra tutto questo con me.”
Jace gli rivolse uno dei suoi sorrisetti scaltri, “Beh lo dobbiamo fare nudi.”
“Non esiste.” Alec scosse frenetico la testa, “Non lo farò.”
“Vuoi attirare l’attenzione di Magnus sì o no?”
Voleva?
Sì, a dirla tutta. Non erano ancora riusciti a stare insieme per più di dieci minuti perché ogni volta Magnus veniva chiamato a risolvere quella o questa cosa, o perché gli studenti volevano parlare con lui della festa, facendogli i complimenti, e siccome era un ottimo padrone di casa dava udienza a tutti. Ma una parte di lui si sentiva infantile a reclamarlo per sé, come se stesse facendo i capricci o non accettasse che ad una festa era normale che certe cose succedessero.
“Alec, per l’amor del cielo, fallo e basta!” alzò le braccia al cielo Jace, “Avrei dovuto farti bere di più, almeno saresti meno razionale!”
Alec parve pensarci su. Non sarebbe andato direttamente da Magnus a interrompere le sue attività, giusto? Avrebbero solo fatto qualcosa che avrebbe potuto attirare la sua attenzione e, a quel punto, eventualmente, lui avrebbe potuto scegliere se stare un po’ con lui o meno. Non lo costringeva a fare niente. Non si autoimponeva come sua unica opzione. Era una cosa che poteva o non poteva portare ad un possibile momento in cui potevano stare un po’ insieme.
“Facciamolo.”
“Sì!” esclamò euforico Jace, prima di farsi largo tra la folla e cominciare a parlare con una ragazza dai capelli castani che Alec non conosceva. Sembrava sapesse perfettamente quello che doveva fare, comunque, perché annuì e si diresse verso la consolle di Simon dove si avvicinò al suo orecchio per chiedergli qualcosa. Quando Simon annuì e la musica si fermò, la ragazza afferrò il microfono e cominciò: “Magnuuus!” e la folla esplose in un boato, “Sa fare delle belle feste non è vero?” altro boato, “Ma... una festa, per quanto grandiosa possa essere, non è completa senza una sfida, giusto?” la folla urlò così forte che Alec ebbe l’impressione di sentire i vetri delle finestre tremare, “I Nephilim ne hanno organizzata una e ovviamente il loro capitano sarà il primo a cominciare!” altre urla, una quantità spropositata di fischi di approvazione, mentre il nome di Jace cominciava ad essere scandito dagli studenti in un boato che aumentava sempre di più. “Ma... abbiamo bisogno di uno sfidante!”
Gli occhi della ragazza percorsero la folla, alla ricerca di qualche volontario, ma con la stessa velocità con cui avevano cominciato a gridare, si erano zittiti. “Jace!” lo chiamò e il biondo si fece largo tra la folla per raggiungerla. “Dal momento che nessuno si è fatto avanti, devi scegliere il tuo sfidante.”
Jace si avvicinò al microfono e senza esitazione alcuna scandì: “Alec!”
Alec ebbe l’impressione di vedere il suo nome fluttuare nel silenzio per qualche attimo prima che si levassero nuovamente altre urla e altri fischi.
La ragazza sorrise, “Perfetto! Avviatevi ai barili...”
Jace scese dalla consolle seguito dalla ragazza e raggiunse Alec, che non era più tanto sicuro della sua scelta: odiava essere al centro dell’attenzione e tutta quella bravata gliene stava portando anche troppa.
“Andrà tutto bene,” sussurrò Jace mentre insieme si incamminavano tra la folla che faceva loro spazio.
“Comincio a pentirmi.”
“Lo so, ma sarà divertente, vedrai. Indipendentemente da come andrà a finire.”
Non stava facendo danni a nessuno, con il suo comportamento, giusto? Quindi Jace aveva ragione, sarebbe stato divertente, indipendentemente dal fatto che Magnus avrebbe potuto o meno decidere di avvicinarsi a lui successivamente.
Sicuramente era meglio che starsene in un angolo buio.
“Se dovrò aggiungere un’altra cicatrice alla mia schiena non sarà divertente!” sussurrò Alec, facendo ridere Jace.
“Nel caso, ti ricucirò io stesso questa volta!”
“Ragazzi!” urlò la ragazza dai capelli castani per farsi sentire da tutti, vista la mancanza di microfono. “È giunto il momento, siete pronti?”
Jace e Alec si scambiarono un’occhiata complice, un sorriso affilato che tagliava il viso del biondo. Alec lo conosceva bene, quel sorriso. Era quello delle sfide, delle scommesse prive di senso che facevano sempre, era il modo silenzioso che suo fratello aveva di dirgli vediamo chi resiste di più.
“Siamo pronti!” rispose Alec, accettando implicitamente la sfida. Improvvisamente, tutta la folla intorno a lui sparì, insieme alla timidezza e all’insicurezza. Era diventato un gioco, qualcosa che avrebbero ricordato con l’andare del tempo con un sorriso sulle labbra, e il senso di disagio di Alec evaporò del tutto. C’erano solo lui, Jace e l’euforia di lasciarsi andare a fare qualcosa di frivolo.
“Bene!” batté le mani la ragazza, prima di far scorrere i suoi occhi sui corpi di entrambi. “C’è una regola fondamentale: liberarvi di qualche strato.”
Le urla che quell’affermazione provocò fece prendere nuovamente coscienza ad Alec della presenza di altre persone. Persone che non aspettavano altro che uno spoglierello di Jace, come era sempre successo durante tutte le feste a cui avevano partecipato – e in cui Alec aveva sempre fatto da spettatore. Il biondo di certo non li deluse, liberandosi della camicia con facilità, lasciando solo i pantaloni di cuoio marrone del suo costume. Alec rischiò di diventare sordo per il volume esagerato delle grida che la vista della mezza nudità di suo fratello provocò e una punta di disagio tornò a farsi strada in lui, che mai aveva amato esibirsi e, soprattutto, mai si era spogliato davanti a così tante persone. Ma quella sensazione se ne andò con la stessa velocità con cui era arrivata: non poteva più tirarsi indietro, tanto vale andare fino in fondo.
Così cercando di non prestare attenzione al leggero tremito delle sue mani, si tolse la parte superiore della divisa.
“Anche la canottiera, Lightwood.” Lo rimbeccò la ragazza, facendogli un’occhiolino. Alec la vide fare un passo verso di lui, avvicinandosi quel tanto che le permise di parlare a bassa voce affinché solo lui potesse sentirla, dal momento che le persone intorno a loro stavano cominciando a scandire di nuovo il nome di Jace, che li incitava con le mani. “Posso farlo io, se vuoi.” Ed era un se vuoi privo di significato dal momento che aveva afferrato il bordo della canottiera e aveva cominciato a sollevarla ancora prima di finire la frase. Alec le afferrò con delicatezza il polso, non volendo sembrare scortese, e la allontanò.
“Faccio da solo, grazie.”
La ragazza arretrò di un passo, per nulla turbata da quel rifiuto, gli occhi grigi incollati su Alec, e alzò un sopracciglio come ad invitarlo a proseguire. Era una sensazione strana, per lui. Sentire quello sguardo addosso non lo gratificava, non gli faceva provare nessuna vibrazione intensa perché, sebbene Alec riuscisse a vedere la bellezza felina di quella ragazza, lei non gli interessava. La sua oggettiva bellezza, non era la fiera bellezza che caratterizzava il viso di Magnus e che faceva tremare il cuore di Alec.
Lei non era Magnus.
Nemmeno se a guardarlo in quel modo, adesso, fosse stato un ragazzo la sua opinione sarebbe cambiata.
Nessuno sarebbe mai stato in grado di egualiare Magnus nemmeno in un milione di anni. Non importava se altri paia di occhi potevano posarsi su Alec, se quegli occhi non appartenevano a Magnus, quegli sguardi di apprezzamento non avrebbero significato niente.
C’era e ci sarebbe stato sempre e solo Magnus, per Alec.
“Stanno aspettando, Lighwood.” La voce della ragazza lo riportò alla realtà, così Alec si privò anche della canottiera scura, lanciandola nella stessa direzione in cui aveva buttato la parte superiore della divisa. Altre grida risuonarono nelle sue orecchie, mentre con gli occhi cercava un contatto visivo con Jace, che lo accontentò immediatamente.
I due fratelli, posizionati davanti a due barili, uno di fronte all’altro, si scambiarono solo un cenno del capo prima di posizionare le mani in modo da riuscire a sollevare il corpo.
Era più faticoso di quanto Alec si sarebbe aspettato – e di certo non si era aspettato una passeggiata, ma la parte che gli risultò più difficile fu riuscire a bere a testa in giù. Mentre i suoi muscoli faticavano per trovare il giusto equilibrio, infatti, rischiò di strozzarsi almeno tre volte, ma alla fine riuscì a trovare anche il modo per bere senza morire.
Non seppe esattamente quanto tempo lui e Jace passarono in quella posizione, seppe solo che quando tornò in posizione eretta, Jace lo seguì pochissimo dopo, risultato che venne contato come parità e che venne accolto con uno scroscio di applausi che Alec pensava non sarebbero mai finiti, se non fosse stato per Simon che dalla sua consolle fece ripartire la musica e, di conseguenza, fece ricominciare tutti a ballare.
“Allora è stato tanto male?” gli domandò Jace.
“No,” sorrise Alec, la birra e l’adrenalina che lo rendevano euforico, “È stato divertente!”
“Te l’avevo detto!” il biondo enfatizzò l’affermazione facendo battere le mani in uno schiocco secco.
Alec stava per rispondere, ma venne interrotto dall’urgano Isabelle che piombò alle sue spalle cercando di saltargli sulla schiena, chiaramente su di giri. Le feste la rendevano sempre particolarmente euforica.
“Oh ragazzi! Siete stati fantastici!”
Alec si sistemò la sorella meglio sulla schiena per non farla cadere, le mani che la tenevano salda dietro alle ginocchia, mentre lei gli circondava il collo con le braccia.
“Pensavo che non l’avresti mai fatto, Alec!” Disse stampandogli un bacio su una guancia e scendendo dalla schiena del fratello.
“E invece, ha stupito tutti!” disse Jace, “Iz, hai visto Clary?” domandò poi, rendendosi conto che la sorella si era avvicinata da sola.
“È in consolle con Simon,” Iz si voltò verso il suo ragazzo, “Che con quella tutina mi scombussola gli ormoni più del solito.”
“Come fa uno come Lewis, che ha il fascino di un pinguino, a provocarti reazioni del genere?” chiese Jace, come se trovasse fuori dal mondo una cosa simile.
“Lo dici perché non l’hai mai visto senza maglietta. Quel ragazzo è equipaggiato alla grande!”
Entrambi i suoi fratelli contorsero la faccia in una smorfia, ma Isabelle li liquidò con un gesto della mano.
“Piantatela. Andiamo a ballare!” Li afferrò entrambi per una mano, ma Jace si scusò con gli occhi prima ancora di parlare.
“Volevo andare da Clary...” si giustificò.
“Allora vai, mio prode cavaliere, raggiungi la tua damigella!” scherzò Isabelle, facendo ondeggiare la chioma corvina. Jace rise, scuotendo la testa e si congedò dai fratelli, facendosi largo tra la calca.
“E tu, vuoi ballare?” Izzy gli lanciò un’occhiata carica di aspettativa e Alec quasi si sentì male a ribadire un concetto che per lui era ovvio da anni, ormai.
“Io non so ballare, Iz.”
Isabelle incurvò il labbro inferiore in un broncio, mentre i suoi occhi neri si facevano più grandi del solito.
Quell’espressione era il punto debole di Alec da quando Iz aveva più o meno quattro anni e aveva capito che, con quella combo, avrebbe potuto facilmente ottenere ciò che voleva dal maggiore dei suoi fratelli. E siccome Alec non era mai riuscito a dire di no a quell’espressione, roterò gli occhi, ma le rivolse un sorriso, lasciandosi trascinare in mezzo alla pista, mentre Isabelle si faceva largo tra la folla come un caterpillar.
Isabelle si muoveva con la grazia regale delle pantere. Sembrava che i suoi movimenti avessero sempre uno scopo, anche quando doveva semplicemente ballare. Alec aveva ritenuto che fosse questa la ragione per cui attirasse tanti sguardi – non solo perché era bellissima, ma perché si fidava del suo corpo, lo rendeva un’arma di seduzione, qualcosa che gli altri ragazzi avrebbero trovato impossibile da non guardare.
E Alec, così come Isabelle era diventata un’esperta di questa tecnica, era diventato un esperto nelle occhiatacce quando scorgeva qualcuno che voleva allungare le mani. Non che Iz non fosse in grado di liberarsi di uno scocciatore, ma lui era il suo fratellone, no?
Era uno dei suoi compiti assicurarsi che nessuno infastidisse sua sorella.
“Alec, sto ballando da sola!” lo rimbeccò Iz, distraendolo dai suoi pensieri.
“Te l’ho detto che non sono capace!” si giustificò lui. Ma Isabelle parve non sentirlo perché gli afferrò le mani e cominciò a fare giravolte sotto le sue braccia, mentre Alec si trovava costretto ad assecondare quella strana danza. Isabelle sorrideva e lo spronava a seguire i suoi movimenti e Alec, contro ogni logica, si trovò a ballare.
Stava ballando.
Era una cosa più unica che rara, probabilmente dal giorno successivo il sole avrebbe cominciato a sorgere ad ovest e a tramontare ad est.
“Tu balli!” esclamò Isabelle, entusiasta mentre osservava orgogliosa suo fratello. “E sei anche un bugiardo perché non è vero che non sei capace, guardati!”
No, guardarsi non l’avrebbe mai fatto, altrimenti si sarebbe sentito nuovamente ridicolo – per non parlare del fatto che era ancora senza maglietta e questo dettaglio cominciava a farlo sentire a disagio. Era vero che lui e Jace avevano bevuto un po’ e che normalmente l’alcol infonde coraggio e distrugge i freni inibitori, ma non aveva certo bevuto così tanto da perdere consapevolezza di se stesso. Non era di certo ubriaco e nemmeno brillo, diciamo che era solamente un pochino più sciolto. Cosa che, comunque, non gli impediva di provare imbarazzo per la sua seminudità, adesso ingiustificata.
“Izzy, Alec!!” squittì una voce nelle vicinanze ed entrambi i fratelli si voltarono per incrociare lo sguardo di Catarina, che si stava avvicinando per ballare con loro. Era strano e bello allo stesso tempo, era qualcosa che Alec non aveva mai fatto, ma non gli sembrava sbagliato o motivo di vergogna. Era... divertente. E ad Alec piaceva lasciarsi andare, seguire il ritmo di una musica incalzante che faceva si che una moltitudine di ragazzi si muovesse in sincronia come una marea irruenta. Alec ballava e capiva perché ad Izzy piaceva tanto farlo: c’era qualcosa di magico e misterioso allo stesso tempo nel lasciarsi guidare da qualcosa di così istintivo come il ritmo. Niente logica, solo il corpo che risponde ad una chiamata primordiale.
E Alec, doveva essere onesto, lo trovava fantastico.
Almeno fino a quando una mano si posò tra le sue scapole nude, cominciando a scendere con una calcolata lentezza. Era una carezza estranea, lo sapeva. Magnus non aveva quel modo di toccarlo, le sue mani erano ferme e prive di imperfezioni. Questa carezza, invece, era ruvida e tremante, insicura. La conferma ai suoi pensieri arrivò quando lamano si spostò su uno dei suoi fianchi e Alec abbassò lo sguardo notando la pelle scura, diversa da quella ambrata di Magnus.
Alzò lo sguardo sul proprietario, decisamente troppo scioccato per riuscire a fare qualsiasi cosa – compreso scacciare la mano, che lo faceva solo sentire a disagio.
“Raj?”
L’altro non rispose, non cercò nemmeno di aprire bocca per spiegare il proprio comportamento, si limitò a guardare Alec come se altro non gli importasse che perdersi dentro delle sue iridi, e provò a baciarlo.
La reazione di Alec arrivò velocemente, questa volta, e interpose una mano tra lui e Raj, allontanando quest’ultimo. “No,” gli disse, deciso.
Ma Raj non lo sentì, o fece finta di non sentirlo, perché ci riprovò e proprio quando Alec stava per allontanarsi a lui di nuovo, qualcuno si interpose tra di loro, come se volesse fargli da scudo.
“Sei sordo?” ringhiò Magnus, la mascella contratta e gli occhi severi. “Ha detto di no.” Spurò, astioso, i pugni serrati lungo i fianchi, le nocche bianche per lo sforzo.
“L’avevo sentito.”
Magnus tremò, i suoi occhi saettarono di qualcosa che assomigliava alla rabbia, “E hai pensato bene di provarci di nuovo?”
Raj non indietreggiò di un passo, “Perché non avrei dovuto farlo?”
Magnus ringhiò, un suono basso, gutturale, la sua voce simile ad un tuono e il corpo teso, “Perché non dovrei spaccarti la faccia?”scattò in avanti e Alec gli fu di fronte prima che le sue mani raggiunsero Raj. Gli appoggiò le mani sul petto: “Lascialo perdere, ok?”
Ma Magnus guardava ancora alle sue spalle, intento a ringhiare contro Raj, che lo guardava con arroganza.
“Magnus,” lo chiamò Alec, deciso e allo stesso tempo rassicurante, “Magnus.” Ripeté e solo allora l’altro portò i suoi occhi su di lui. “Vieni con me,”
Magnus regolarizzò il respiro e annuì, solo allora Alec si voltò verso Raj, avvicinandosi quel tanto affinché solo lui potesse sentirlo. Alec lo vide deglutire.
“Riducilo di nuovo in quello stato e mi assicurerò di spaccartela io, la faccia.” Sibilò, perché tutto poteva sopportare meno qualcuno che turbasse Magnus, e poi si voltò per tornare dal suo ragazzo, intrecciando le dita con le sue e conducendolo lontano dalla ressa.
Si incamminarono insieme fuori dalla sala, allontanandosi dai corpi che si ammassavano insieme, dalla luci frenetiche e dalla musica alta e imboccarono il corridoio, raggiungendo poi la cucina.
Magnus si chiuse la porta alle spalle e guardò Alec che si era seduto sull’isola d’acciaio, le gambe che penzolavano nel vuoto.
“Mi dispiace,” cominciò e Alec alzò un sopracciglio, confuso. “Il mio comportamento,” continuò allora, in spiegazione, “è stato...”
“Eccitante.” Concluse Alec per lui, le guance che si coloravano di rosso per l’affermazione. “Voglio dire, Raj è un coglione e se prova a provocarti di nuovo sarò io a prenderlo a pugni-”
“È questo che gli hai detto?” domandò Magnus, non riuscendo a trattenere un sorriso.
Alec annuì, “Ma ammetto che è stato interessante vederti difendere la mia virtù.”
Magnus si incamminò verso di lui e appoggiò le mani sulle cosce di Alec, che quest’ultimo divaricò per farlo accomodare tra di esse. “Mi stai prendendo in giro, Alexander?” domandò sulle labbra dell’altro, che le aprì leggermente.
“No. Non sono mai stato più serio in vita mia.” Lo baciò perché era insensato non farlo, perché aveva desiderato farlo tutta la sera e ora che poteva farlo voleva approfittarne. Magnus gemette e si spalmò di più contro di lui, rafforzando la presa sulle sue cosce e facendo scontrare meglio le loro bocche, che cominciarono a muoversi in sincronia, unendosi in un bacio umido e impellente, bisognoso. Alec scivolò giù dalla penisola, il suo bacino che cozzò con quello di Magnus, mentre portava le mani sul viso di quest’ultimo, facendolo indietreggiare finché la schiena di Magnus non finì contro la porta. L’impatto fece ridere entrambi, che si guardarono negli occhi un attimo, leggendo l’uno nelle iridi dell’altro i sentimenti che condividevano e che non avevano ancora esternato.
Ma c’era davvero bisogno di farlo, quando i loro occhi davano voce ai loro cuori più di quanto le parole avrebbero mai fatto?
“Mi piace il tuo lato possessivo,” sussurrò Alec, sulle labbra di Magnus, prima di divorargli di nuovo la bocca. E sentì nascere un desiderio dentro di sé, mentre Magnus rispondeva ai suoi baci, mordendogli le labbra e accarezzando la pelle nuda della sua schina. Era così giusto che fosse lui a toccarlo, così perfetto che fossero le sue mani ad attraversare la lunghezza della sua schiena, sfiorando la cicatrice e provocandogli brividi lungo tutto il suo corpo, che Alec sentì l’impulso di fare altro, di portare la loro appartenenza anche ad un livello fisico. Non l’aveva mai fatto, non sapeva come si facevano certe cose e in altre circostante avrebbe brancolato nel buio e si sarebbe fatto prendere dal panico. Ma non erano circostanze qualsiasi, c’era Magnus con lui e se erano insieme Alec non temeva nulla. Erano così giusti insieme, così complementari, che trovava naturale che arrivassero ad appartenersi anche in un modo fisico.
Così, seguendo la linea dei suoi pensieri, Alec abbandonò le labbra di Magnus e con una lenta urgenza – che ossimoro, gli urlò il suo cervello, che lui zittì. L’unica cosa a cui avrebbe dato ascolto, quella sera, sarebbe stato il suo istinto che lo guidava a compiere azioni sconosciute, ma conosciute allo stesso tempo – cominciò a baciargli il collo, seguendo la linea sinuosa della sua gola, soffermandosi sul pomo d’Adamo, che succhiò con particolare attenzione, facendo uscire dalla gola di Magnus un verso osceno che non suonò altro che come un incoraggiamento alle orecchie di Alec. Scese, dunque, verso le clavicole, dove cominciò a succhiare la pelle – ci sarebbero stati dei segni, il giorno dopo, ma ad Alec non importava e a quanto pareva, nemmeno a Magnus, che altro non faceva che attirare Alec a sé sempre di più, lasciandosi schiacciare tra suo corpo e la porta. Respirare era diventato superfluo, nessuno dei due necessitava di ossigeno, in quel momento, avevano solo bisogno l’uno dell’altro, dei loro respiri che collidevano, nutrendosi uno dell’altro. Alec si intrufolò ancora meglio tra le gambe di Magnus, afferrandolo per le cosce e portandolo ad allacciarle al suo bacino. Fu quello l’esatto momento in cui i loro occhi si incrociarono di nuovo, colmi di consapevolezza. Entrambi sentivano l’effetto che tutta quella situazione stava avendo sulle loro zone erogene. Così Alec, carico di quel coraggio che i suoi pensieri gli avevano dato poco prima, portò Magnus nuovamente a terra – e fu sorpreso di come si lasciò guidare senza dire una parola – e lo spogliò del suo gilet perché voleva guardarlo completamente, senza che ci fosse niente ad ostruire la sua vista. E Magnus lo lasciò fare, si lasciò guardare e rabbrividì quando Alec cominiciò a tracciargli con le lunghe dita la riga che divideva il petto liscio e gli addominali. Si era dimenticato come si faceva a respirare, lui Magnus Bane, che di certo non era un ragazzino alle prime armi. Ma Alexander con la sua intraprendenza, con quel fuoco che gli bruciava nelle vene, aveva fatto ribollire anche quello di Magnus, mandandolo in un’altra dimensione, facendogli vivere sensazioni che sembravano nuove e familiari allo stesso tempo. Alexander era il fulmine che squarciava il cielo e precedeva la tempesta. Era fiero, indomabile, incontenibile, proprio come una forza della natura. E lui era innamorato di quel ragazzo, che riusciva ad essere estremamente premuroso e buono, ma anche tremendamente passionale, un connubio che aveva fatto sì che Magnus perdesse la testa. Non c’era via di ritorno, per lui, ormai. Alexander possedeva non solo il suo cuore, ma anche la sua anima.
Per questo lo lasciò fare, curioso di vedere fino a dove voleva arrivare e lo assecondò quando, ancora una volta, le sue labbra cercarono le proprie, dando via ad un altro bacio, e ad un altro e ad un altro ancora, fino a che la bocca di Alec non abbandonò la sua e cominiciò a scendere lungo tutto il suo corpo, lasciando una scia umida di baci e piccoli morsi ad intervalli regolari. E Magnus altro non poteva fare che lasciarsi andare a dei gemiti che non si premurò nemmeno di soffocare, dal momento che il rumore assordante della musica li tutelava. Era come se fossero finiti in una bolla sicura, dove esistevano solo loro due.
Fu quando sentì la lingua di Alec circondargli il perimetro dell’ombelico che si rese conto di quanto fosse andato in basso e si costrinse a recuperare un po’ di razionalità per verificare se tutto questo era davvero ciò che voleva Alec, se nonostante si fosse spinto fino a questo punto voleva davvero continuare.
“Alexander,” lo chiamò, la voce che suonò estranea persino alle sue orecchie, tanto bassa e roca uscì. Commise il terribile errore di abbassare lo sguardo su Alec, inginocchiato tra le sue gambe aperte, e incrociare i suoi occhi verdi, che bruciavano di genuina curiosità, di un febbriciante desiderio, alimentato da quella fame che solo l’astinenza provoca. Alec si era privato dei piaceri della carne e adesso voleva sperimentarli con lui. Magnus si sentì onorato di tutto ciò.
“Vieni qui,” gli disse, e Alec lo assecondò. Non lasciando mai i suoi occhi, cominciò a risalire lentamente, la punta della lingua che passò sopra al suo ombelico, dedicandosi poi alla riga che divideva gli addominali, arrivando fino al petto, dove salì ancora, leccandogli la gola fino a raggiungere il mento che prese tra le labbra, lasciandoci un morso. Fece tutto ciò con una lentezza tale che, fanculo, se Magnus non avesse vantato una certa resistenza in determinate situazioni, sarebbe venuto nei pantaloni come un quattordicenne alla sua prima volta.
“Non vuoi?” soffiò Alec, letalmente vicino, leccandosi le labbra. Oh, c’era da dire che per essere privo di esperienza, Alexander sapeva giocare e lo sapeva fare dannatamente bene.
“La vera domanda, tesoro, è se lo vuoi tu.”
“Ti sembra che io non lo voglia?”
Magnus deglutì quando Alec spinse il suo bacino contro il proprio per dare enfasi a quelle parole.
“Voglio solo essere sicuro che tu lo voglia davvero, Alexander.”
Alec incantenò i suoi meravigliosi occhi verde-nocciola in quelli di Magnus, del dubbio, in essi, nemmeno l’ombra.
“Lo voglio, Magnus.”
E Alec aspettò di vederlo annuire, prima di procedere a sbottonargli i pantaloni e inginocchiarsi di nuovo.
“Fa attenzione ai denti, tesoro.”
E quella, fu l’unica frase di senso compiuto che Magnus pronunciò per parecchio tempo.

*

Magnus osservava Alec abbottonarsi i pantaloni mimetici con un movimento fluido del bacino, mentre con lo sguardo percorreva il suo corpo che gli suscitava pensieri peccaminosi, nonostante avessero appena finito di prendersi cura l’uno dell’altro. Era stato particolarmente fiero di se stesso quando, inginocchiato tra le gambe di Alec, aveva sentito uscire dalla sua bocca imprecazioni che mai si sarebbe aspettato di sentire da qualcuno che arrossisce al primo complimento e mai l’aveva amato come prima di quel momento. Andava particolarmente fiero anche del succhiotto grosso come il Texas che Alec aveva sul collo e dei marchi che avevano lasciato i propri morsi sulle sue clavicole, chiaro segno del proprio passaggio. La pelle candida di Alec, costellata dai marchi lasciati da Magnus, era ancora più bella.
“Mi stai fissando.”
“È diventato illegale farlo?”
“No,” rise Alec e Magnus si concesse un’altra occhiata al suo corpo perché era quella l’unica cosa che doveva essere reputata illegale. Nemmeno la sua fervida immaginazione – e Magnus ne aveva tanta – era riuscita ad eguagliare la realtà. Niente di tutto quello che si era immaginato, poteva competere con la fisicità atletica e scolpita del petto e delle braccia di Alec.
“Sai cosa è illegale? Vederti ballare.”
“Lo so di essere negato, non serve ribadirlo.”
Au contraire, ma chérie,” disse Magnus, “Eri qualcosa di straordinario, ipnotico, direi. Aggiungici i tuoi meravigliosi addominali e la combo diventa letale.”
Alec rise, scuotendo la testa.
“Non mi stupisce che Raj si sia avvicinato. Mi ha preceduto, quel bastardo.”
“Volevi ballare con me?” gli domandò Alec, avvinandosi, un sorriso ad illuminare i suoi bellissimi lineamenti.
“Certo,”
“E vuoi ancora farlo?”
“Tu vuoi farlo?”
Alec aapeva cosa gli stava chiedendo: vuoi farti vedere in pubblico in intimità con me? E sentì scaldarsi il cuore, perché Magnus, come sempre, lo stava assecondando, rispettando i suoi tempi.
“Sì, Magnus.” Si chinò per baciargli la fronte e Magnus chiuse gli occhi, godendosi la sensazione di benessere che solo la vicinanza di Alec gli dava.
“Allora andiamo di là!” disse il maggiore, afferrandolo per mano e aprendo la porta della cucina.
Raggiunsero la sala in un attimo e proprio mentre stavano per immettersi nella calca, Isabelle attirò la loro attenzione. Con lei c’erano anche Jace e Clary.
“Si può sapere che fine avete fatto voi due? È più di un’ora che vi cerco!”
“Alec che hai sul collo?” domandò, invece, Jace, un sorrisetto scaltro sul viso.
“Sono caduto!” rispose in fretta Alec, cercando una banale scusa per cercare di rimandare il più possibile l’interrogatorio dei suoi fratelli.
Sul collo?”
Alec gli lanciò un’occhiataccia, mentre il fratello cominciava a ridere. Jace scosse la testa, dando affettuose pacche sulle spalle al fratello, e poi prese Clary per mano e insieme si diressero verso la pista da ballo. Alec stava per fare lo stesso insieme a Magnus, quando Isabelle, dopo aver atteso che il ragazzo orientale si avviasse, prese suo fratello per un polso e si alzò sulle punte per riuscire a parlargli nell’orecchio.
“Odori di legno di sandalo e peccato, fratello. E io non sono mai stata più orgogliosa di te!”
Alec ebbe appena il tempo di scorgere l’occhiolino malizioso che gli rivolse sua sorella, prima di vederla sparire in direzione della consolle per raggiungere Simon. Scosse la testa, un sorriso che tendeva le sue labbra. Era grato per i suoi fratelli, nonostante sembrasse avessero fatto un patto tra di loro per metterlo costantemente in imbarazzo.
Ed era grato anche per il ragazzo che adesso lo stava guardando con occhi carichi di affetto e lo stava invitando a ballare.
Non se lo fece ripete due volte, perché se quella sera aveva capito che ballare poteva essere piacevole, farlo con Magnus doveva esserlo ancora di più.


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Ciao a tutti e scusatemi immensamente per il ritardo, ma sono stati giorni impegnativi e non riuscivo a scrivere niente! 
Venendo al capitolo... partiamo dal fondo? Sono un po' in ansia, onestamente, perché questa storia di Halloween viene nominata da tre capitoli e magari aspettavate chissà cosa e invece è venuta una ciofeca... fatemi sapere cosa ne pensate, quindi! A tal proposito, ho cambiato il rating perché anche se non si entra troppo nei particolari avevo l'impressione si uscisse un po' dal verde e quindi, per sentirmi un po' più tranquilla, ho preferito cambiarlo! 
Dunque, risalendo questo capitolo abbiamo sia l'incontro con Ragnor, che in questa storia è il patrigno di Magnus, sia una scoperta in più su ciò che è successo a Max e le conseguenze che il suo incidente ha avuto sulla sua famiglia. Sono solo degli accenni che verranno approfonditi più in là, ma diciamo che questo capitolo ha funzionato un po' come trampolino di lancio per il passato di entrambi i nostri cuoricini, che nel mentre sono sempre più innamorati e attratti l'uno dall'altro! Seriamente, devo smetterla di ambientare tutte le loro scene intime in cucina, ma la fantasia alle volte mi manca e quindi chiedo venia! Come chiedo scusa a Magnus per averlo vestito in modo così semplice - perché, diciamolo, lui avrebbe optato per qualcosa di più appariscente - ma mi serviva qualcosa che potesse essere tolto facilmente e un gilet mi è sembrata la scelta giusta. Lo stesso discorso vale per Alec, anche se non credo lui si lamenterebbe! 
Menzione speciale al dialogo finale che è stato ripreso dai libri, perché quando l'ho letto ho riso tantissimo e quindi volevo trovare un modo per inserirlo. 
Come sempre vi ringrazio tantissimo per leggere la storia, metterla tra i preferiti/seguiti e recensirla, non smetterò mai di dire quanto sia importante per me, quindi vi abbraccio tutti perché ve lo meritate <3 
Alla prossima! 

PS: potrei cominciare ad aggiornare ogni due settimane, anzi che una volta a settimana perché devo studiare e non vorrei tirare via la scrittura, quindi procederò solo un po' più a rilento, scusate! 

 
   
 
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