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Autore: _Lady di inchiostro_    13/11/2017    4 recensioni
C’è chi dice che la nostra strada è già stata decisa, che è il destino che stabilisce quali difficoltà dobbiamo incontrare durante il cammino, o chi ci accompagnerà durante il percorso.
C’è chi dice che la nostra strada, invece, ce la costruiamo da soli, che siamo noi a decidere chi incontrare, siamo noi padroni delle nostre azioni.
Iwaizumi Hajime aveva sempre creduto nella seconda opzione. Finché non ha incontrato Oikawa Tooru. E allora si chiese se il destino non volesse farli incontrare per davvero, in qualsiasi modo possibile.
***
[Future Fic and What if?] [Tanto angst e cose belle ♥]
Genere: Angst, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Altri, Hajime Iwaizumi, Tooru Oikawa
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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XIII


~


 
[25 marzo 2017]




«Che ne pensi di questo?»
Osservò dall’alto in basso il vestito bianco che aveva difronte, storcendo il naso. «Ti farebbe i fianchi troppo larghi, non va bene…»
La ragazza sbuffò, facendo spostare una ciocca di capelli che era sfuggita alla lunga treccia che la madre le aveva fatto quella mattina. «Potresti essere almeno di aiuto, mamma!» disse, stizzita, e riposando il vestito assieme agli altri.
«Te l’ho detto, dovresti mettere il vestito nero, quello che tuo padre ha fatto su misura per te!»
In effetti, quel vestito sarebbe stato assolutamente perfetto per un’occasione del genere, ma quando l’aveva tirato fuori dall’armadio, quella mattina, l’aveva trovato troppo eccessivo. Come se una cena organizzata da quello che – presumibilmente – era il suo fidanzato, non fosse il pretesto perfetto per poterlo indossare.
Sua madre le aveva detto che, probabilmente, vedendola con quel vestito addosso Iwaizumi-kun avrebbe sicuramente riconsiderato la loro relazione, ma Tomoko non ne era poi tanto sicura.
Era come se Hajime la stesse evitando. Ogni volta che incrociava il suo sguardo a lavoro, cambiava direzione, non rispondeva alle sue chiamate, e quando aveva provato a chiedergli se fosse successo qualcosa, le aveva semplicemente detto che era stanco e le aveva dato un bacio tra i capelli. 
Eppure, Tomoko si accorse subito che stava mentendo. Il suo sguardo non era solo segnato dalla stanchezza, ma anche da dolore. Come se ci fosse qualcosa che, in quei giorni, non faceva altro che tormentarlo, impedendogli di dormire la notte. Come se avesse finalmente realizzato il suo desiderio e avesse deciso di far sparire il resto del mondo dalla sua vista, perché era questo quello che si meritava, di rimanere completamente solo.
Tomoko, certe volte, non lo capiva. Non capiva perché si ostinasse a farsi del male così, a soffrire così. Poi ci rifletteva un attimo, e si diceva che in fondo lei non era tanto diversa da lui.
Un’altra ragazza, al suo posto, forse non avrebbe accettato l’invito di Hajime, dopo che lui era sparito per giornate intere, o dopo che non si era fatto sentire. L’aveva chiamata, chiedendole scusa per il suo comportamento orribile e proponendole di passare assieme la serata, magari mangiando qualcosa in uno dei ristoranti che avrebbe deciso lei, pagando lui tutto. Tomoko aveva sorriso, e anche se dentro di sé non era tanto convinta del tono di voce con cui Hajime glielo stava proponendo, alla fine aveva accettato.
Da quanto tempo non passavano del tempo assieme? Troppo. 
Come quel vestito che era rimasto appeso davanti all’armadio. Era troppo.
Le bugie erano troppe. Perché lei non era stupida e sapeva che il ragazzo le mentiva ogni qualvolta dicesse che aveva altro da fare, o che era troppo stanco, e altre stronzate varie.
C’erano volte in cui Tomoko lo odiava per questo. Tuttavia, conosceva Hajime da troppo tempo, e no, non era affatto una persona meschina e doppiogiochista. Aveva sicuramente i suoi motivi. E da quando avevano iniziato quella sorta di relazione, lui non era più capace di confidarsi con lei.
Quella mattina – quando, d’impulso, aveva deciso di buttare giù dal letto sua madre, dicendole che doveva accompagnarla al centro commerciale – Tomoko si chiese se non avesse fatto male ad accettare quell’invito a cena.
Qualcosa la riscosse, una melodia allegra cantata a bocca chiusa da sua madre, mentre stava frugando tra un vestito e l’altro, un sorriso dolce che le incorniciava il viso. Sapeva che sua madre era di gusti particolarmente difficili in fatto di look, ma c’erano alcune giornate in cui era capace di svaligiare un negozio intero e comprare tutto quello che trovava sottomano.
Forse quella non era una di quelle giornate, tuttavia la donna sembrava fin troppo allegra per i suoi gusti.
Tomoko scostò lo sguardo dalla madre, tornando a guardare i vestiti. «Spara, cosa è successo con papà, ieri sera?» disse, come se stesse parlando all’abito nocciola che aveva davanti.
Non poteva vederla, ma era quasi certa che la donna non si fosse minimamente scomposta per quello che le aveva detto la figlia. «Sei abbastanza cresciuta, c’è proprio bisogno che io te lo dica? E poi, la vita sessuale mia e di tuo padre non ti riguarda, signorina
La ragazza fece una mezza risata, mettendo poi una mano sul fianco e girandosi verso la madre. «Lo hai ringraziato perché ti ha portato un gattino tutto nero, proprio come gli avevi chiesto tu mesi fa?»
Non rispose alla domanda della figlia, sollevò semplicemente lo sguardo. «Povero, l’ho lasciato solo con quella piccola creatura.» Sporse il labbro inferiore. «Ricordami che dobbiamo comprare l’occorrente per il micio… e che dobbiamo trovargli un nome!»
Tomoko alzò gli occhi al cielo. «Basta che non lo chiami con nomi strani.»
«Quello è compito di tua zia, non certo mio!»
Rise di gusto, e non avrebbe mai smesso di essere grata a sua madre per essere così: una donna che faceva sempre di tutto per fare stare bene le persone che la circondavano.
Fece un piccolo sorriso. «Ho visto un vestito carino, poco fa, vuoi che te lo faccia vedere?» disse poi, e vedendola annuire aggiunse: «Torno subito!»
Si diresse a passo di marcia verso un gruppo di abiti posti non troppo lontani dall’entrata, adocchiando subito il vestito rosso scuro che aveva visto sin da quando aveva messo piede in quel negozietto, ma che non aveva preso per paura che non fosse della sua taglia. Con uno scatto, la sua mano fu sulla gruccia del vestito, accorgendosi solo dopo che qualcun altro l’aveva afferrata proprio nello stesso momento.
Sollevò lo sguardo, dilatando subito le pupille nel vedere la persona che le stava di fianco, la pelle del volto che si era fatta più bianca del solito, sebbene quella mattina l’avesse cosparsa per bene di fondotinta.
Oikawa Tooru aveva la sua stessa medesima espressione di puro terrore stampata in faccia, e si affrettò a lasciare la presa, in modo che la ragazza potesse prendere l’abito in questione. Cosa che fece, e le sue dita tremanti non facevano altro che tastare il tessuto per via del nervosismo.
Che cosa doveva fare? Doveva parlargli? Doveva salutarlo? O poteva semplicemente ignorarlo?
Non dovette riflettere troppo sulla sua prossima mossa, poiché fu Oikawa a parlare, e Tomoko capì subito che quel sorriso era forzato. Era come se il suo viso fosse segnato da linee invisibili, come se qualcosa lo stesse consumando dall’interno.
«Tomoko-chan! Che sorpresa!» esclamò, fingendo un tono di voce allegro.
La giovane giornalista tenne comunque lo sguardo basso, in estremo imbarazzo. «Oikawa-san… Come mai da queste parti?»
Era una domanda un po’ stupida, in fondo ognuno era libero di andare dove voleva, nessuno gli vietava di entrare in un negozio di abiti esclusivamente femminili, eppure Tomoko non poteva fare a meno di sentirsi completamente a disagio. Insomma, lui era la persona che probabilmente Hajime…
«Ho accompagnato Eiko-chan, le servivano un paio di abiti» disse.
La ragazza alzò appena il capo, trovando la modella a pochi metri da loro e che li stava fissando con tanto d’occhi. Non appena i loro sguardi si incrociarono, questa abbassò subito la testa, fingendo di star cercando qualche cosa che le interessasse veramente.
Quindi questo significava che erano…
«Se te lo stessi chiedendo, no, non siamo tornati assieme» disse il setter, dando voce ai suoi pensieri. «Siamo solo rimasti in buoni rapporti.»
«Ah, mi fa piacere…» disse, tornado a scostare lo sguardo, stringendo il vestito tra le mani, non azzardandosi a toccare la gruccia.
«E tu, invece?» Tooru inclinò la testa, e finalmente la ragazza ebbe il coraggio di guardarlo negli occhi, oltre quelle lenti fasulle che indossava sempre quando usciva in mezzo alla gente. «Come mai sei qui?»
«Ecco…» La ragazza prese un bel respiro, decidendo di dirgli la verità senza scendere troppo nei dettagli. «Ho un appuntamento stasera e cercavano qualcosa di decente da mettere…» Fece una mezza risata, che non fu per niente ricambiata dal castano, il sorriso falso di prima che venne sostituito da una linea piatta.
Calò il silenzio per un attimo, sostituito successivamente dalla voce incrinata di Tooru. «Hai un appuntamento con Iwaizumi… giusto?»
Tomoko alzò lo sguardo, gli occhi sbarrati. Si rese conto che aveva già visto quell’espressione da qualche parte. Era la stessa espressione che aveva visto sul viso di Iwaizumi qualche giorno prima.
Un’espressione ferita, lacerata, che doleva la gente solo stando a guardarla. E Tomoko riuscì a vederle, quelle linee invisibili che scavavano piano piano la carne del giovane atleta, come se fosse un frutto che stava marcendo piano piano fino a morire.
Hajime aveva lo stesso sguardo. Hajime stava soffrendo allo stesso identico modo. Hajime stava ancora pensando a lui. E lei era una stupida, perché avrebbe dovuto capire che, in qualche modo, l’oggetto dei turbamenti del ragazzo non poteva essere che Oikawa. La persona che amava veramente.
O forse l’aveva capito, ma aveva fatto finta di non vederlo. L’aveva capito da quando gli aveva detto che Oikawa era innamorato di lui, da quando l’aveva baciata senza un motivo preciso.
Aveva finalmente capito che cosa pensava veramente Iwaizumi Hajime.
«Bene, mi ha fatto piacere rivederti!» disse il ragazzo, gli occhi appannati per via delle lacrime che stavano per scendere lungo le sue guance. Non c’era bisogno che lei rispondesse alla sua domanda, era quasi certo che fosse così. Doveva farsene una ragione. «Credo che Eiko-chan mi stia chiamando – indicò la direzione verso cui si trovava la ragazza – divertiti stasera, Tomoko-chan, e salutami Iwaizumi!»
Il ragazzo non andò da Eiko. Semplicemente, uscì fuori dal negozio, a una velocità sostenuta, la modella che lo richiamava. E prima che lo inseguisse, rivolse uno sguardo a Tomoko, che aveva osservato la scena, sconvolta e stravolta in egual misura.
Fece un piccolo inchino verso la sua direzione, e si rese conto che non la stava giudicando, che non ce l’aveva con lei per aver fatto fuggire Tooru.
Loro non avevano alcuna colpa. Erano diventate delle pedine di un gioco troppo grande per loro, ma non per questo odiavano i due ragazzi in questione. Si sa, l’odio non porta proprio a nulla. E in quel caso, c’erano in ballo non solo i loro sentimenti, ma anche quelli due giovani.
Due giovani che, nonostante tutto, amavano con tutto il cuore, seppur non in senso romantico. E loro non erano nessuno per impedirgli di potersi amare, nessuno poteva dirgli quello che dovevano fare.
Forse c’era chi era più confuso dall’intera faccenda, ma quella era un’altra storia.
Per la prima volta da quando stava con Hajime, anzi, da quando si era presa una cotta per lui, cominciò a dubitare sulla natura dei suoi sentimenti. Perché, di certo, sul suo viso non si era mai dipinta la stessa espressione di Oikawa.
Quando anche la modella se ne andò, tornò da sua madre, strascicando il vestito per terra e camminando come se fosse uno zombie.
«Oddio, Tomoko, che succede?» disse la donna, non appena vide la figlia davanti a sé, in lacrime.
«Ho sbagliato tutto, mamma… Tutto!» disse, abbracciando la donna e cominciando a singhiozzare contro la sua spalla.





Oikawa camminava senza vedere dove stesse andando, milioni di persone che gli sfrecciavano accanto, come se fossero delle ombre colorate, o forse era lui che camminava troppo velocemente e non riusciva a vedere quei volti sorridenti che gli stavano attorno. Gli mancava l’aria, e stava cercando disperatamente di non far fuoriuscire le lacrime, ma sapeva che oramai era troppo tardi.
«Sto con Tomoko, adesso.»
La voce gli rimbombava dentro la testa, le immagini della ragazza che gli passavano velocemente davanti agli occhi, come se stesse mandando indietro un vecchio filmino di famiglia. Quel volto pulito, quella treccia perfetta e che le scendeva lungo la schiena curvilinea, quel corpo che qualsiasi uomo con un po’ di sale in zucca avrebbe agognato disperatamente. E Hajime non si era lasciato sfuggire l’occasione.
Era vero. Era tutto dannatamente vero.
Stava con lei. 
Hajime stava con Tomoko. Hajime l’aveva invitata fuori a cena.
Hajime non voleva più avere a che fare con lui. Hajime voleva cercarsi una moglie, qualcuno che avrebbe compiaciuto le aspettative della sua ex-moglie e, forse, di sua figlia. Hajime voleva al suo fianco qualcuno che non potesse causargli ulteriori problemi.
Erano la coppia perfetta, del resto, sembravano usciti da una di quelle commedie dove i due migliori amici si mettono assieme, dopo che hanno soppresso i loro sentimenti verso l’altro per anni.
Tutti li avrebbero apprezzati, tutti li avrebbero amati. Un po’ come avevano amato lui e Eiko.
Avvertì una presa sul suo polso che lo fece voltare indietro, e ci mise un po’ a focalizzare la figura della persona che aveva davanti, poiché le lacrime gli offuscavano la vista. Eiko aveva la coda completamente sfatta, un ciuffo biondo che le dondolava davanti l’occhio, il fiato corto. L’aveva lasciata da sola, senza dare alcuna spiegazione, anche se non ce ne fu veramente bisogno: la modella aveva capito da sé che quella ragazza, molto probabilmente, era la nuova fidanzata di Iwaizumi, quella di cui aveva parlato non appena era entrata nella sua vecchia casa, trovando Oikawa seduto per terra e in lacrime.
«Sta con una ragazza… Mi odia, Eiko. Mi odia!»
Aveva ripetuto quella frase una quindicina di volte, prima che lei l’abbracciasse e lo lasciasse piangere sulla sua spalla e lei non poté non commuoversi nel sentirlo soffrire in quel modo. Oikawa non aveva mai pianto in sua presenza, si era sempre comportato come il giocatore di pallavolo forte e impavido, il fidanzato che sapeva sempre come proteggere la sua donna. Ma lui non era così. Non era solo un sorriso a trentadue denti stampato sui giornali e sulle reti televisive. Lui era anche il ragazzo che aveva perso una madre, che amava i film di fantascienza e che si era innamorato di un uomo. Lui era il ragazzo che, in quel momento, stava piangendo un’altra volta, il cuore lacerato e martoriato per l’ennesima volta, come se fosse un pezzo di carne insignificante.
Lasciò la sua presa, asciugandosi il viso con la manica della felpa. «Scusami… Sto bene…» biascicò, spostando poi lo sguardo di lato.
Un’altra persona, probabilmente, gli avrebbe suggerito di lasciare perdere e di andare avanti. Che non era poi la fine del mondo, che la vita era piena di opportunità, che avrebbe sicuramente trovato la persona perfetta e che avrebbe ricambiato i suoi sentimenti. Eiko sapeva bene che, forse, erano queste le parole giuste da dire, eppure non ci riusciva. Non quando ripensava a Iwaizumi che le urlava contro dopo il funerale. Non dopo che aveva visto il modo in cui guardava Tooru.
Si dice che basti osservare il modo in cui una persona guardi un’altra per capire se quest’ultima sia innamorata. E Iwaizumi era innamorato di Oikawa, stava soltanto tergiversando, stava solo rinnegando i suoi sentimenti, ma era palese, forse persino allo stesso Oikawa.
Per questa ragione, lei non si sentiva di dire a Oikawa di dimenticarlo. Perché lui aveva già trovato la persona perfetta. Lui aveva già trovato la persona che ricambiava i suoi sentimenti. Lui aveva già trovato la persona che riempiva quel maledetto vuoto.
Si avvicinò, prendendo il viso del ragazzo tra le mani e sorridendo come se fosse una madre che consolava il suo figlioletto. «No, non stai bene…» sussurrò.
Oikawa tirò su col naso, nuove lacrime che gli solcarono le guance, segnando ulteriormente quel viso oramai spento.
Abbassò lo sguardo, singhiozzando. «Era la fidanzata di Iwa-chan…» disse, e per un attimo avvertì una fitta alla gola, come se qualcuno gli avesse tagliato la giugulare. Avrebbe fatto sicuramente meno male.
Era patetico, se ne rendeva conto. Tremava come una foglia, non si prendeva più cura di se stesso, mangiava a stento, e passava la maggior parte della giornata disteso a letto, continuando a immaginare Iwaizumi che rideva, che l’abbracciava, che gli stringeva la mano…
Era patetico, perché aveva perso importanza per qualsiasi cosa, persino per la pallavolo, lo sport che un tempo era stato il suo unico scopo di vita. Si sentiva morto dentro: un morto che era costretto a camminare tra i vivi, che era ancora costretto a nutrirsi, ad apparire in televisione, a giocare a pallavolo, sebbene desiderasse solo riposare in pace.
Oikawa Tooru era morto. Aveva subito la sconfitta peggiore che potesse mai capitargli nella vita.
Sentì le braccia di Eiko che lo circondavano, e ricambiò l’abbraccio, reprimendo i crescenti singhiozzi sulla sua spalla. Rimasero per diversi minuti in quel modo, ignorando la gente che li guardava, alcuni ragazzi che li indicarono, bisbigliando tra di loro. Probabilmente, anche con quel travestimento e con il viso stravolto, Oikawa era riconoscibile, così come Eiko.
«Senti – cominciò la ragazza, accarezzandogli la schiena come se stesse consolando un bambino –, che ne dici se vieni a pranzare da me?»
«Non vorrei essere un peso…» disse, scostandosi. «E poi lo so che Akio-san non vorrebbe avermi tra i piedi…»
Akio era il manager della modella, e stavano insieme da un mese circa. Eiko glielo confessò quando, una sera, aveva deciso di invitarlo a cenare nel suo nuovo appartamento, e Oikawa si stupì nel trovare Akio davanti ai fornelli, intento a cucinare. Aveva sempre avuto dei sospetti, quell’uomo era sempre stato fin troppo gentile e cordiale con Eiko, e non perché fosse un vero e proprio gentleman, ma perché sembrasse avere un sincero interesse verso di lei.
Interesse che, evidentemente, era ricambiato dalla stessa modella, ma cui forse non aveva badato per amore di continuare la sua relazione con Oikawa.
Eppure, adesso, il castano era sinceramente felice di vederli assieme. Stavano bene, formavano una bella coppia, anche se non avevano ancora ufficializzato la cosa: del resto, lui era più grande di dieci anni.
«Oh, tranquillo!» Eiko gli diede una pacca sulla spalla. «Akio è sempre felice di cucinare per gli altri, è la sua passione segreta, lo sai! E poi, anche lui è disposto ad aiutarti, non ce l’ha mai avuta con te, nonostante fosse innamorato di me.»
Strinse il tessuto della felpa rossa del ragazzo, un piccolo sorriso malinconico che le incurvò le labbra: Oikawa non era mai stato un tipo geloso, sapeva benissimo che lei aveva bisogno dei suoi spazi. Eppure, molto spesso passava più tempo con Akio che con Oikawa, aveva con lui una complicità che non aveva con il suo fidanzato, per quanto lui fosse un uomo molto più grande di lei. Era sempre stato al suo fianco, soffrendo ogni volta che baciava Oikawa, ma non aveva mai detto nulla, non si era mai ritirato, perché avrebbe fatto questo e altro pur di continuare a starle accanto.
E quando le aveva confessato quello che provava per lei da anni, Eiko si rese conto che forse anche lei nutriva nei suoi confronti qualcosa di assolutamente diverso dalla semplice stima e dall’affetto. Buffo: ha dovuto aspettare la sua rottura con Oikawa per rendersene finalmente conto.
«Siete entrambi troppo buoni con me…»
«Credimi… Lui sa come ci si sente…»
Tooru fece un sorriso forzato, gli occhiali che scivolavano sul suo nasino lucido. «Io non so come ringraziarti, Eiko… Dopo tutto quello che ti ho fatto, io non mi merit-» Non concluse la frase, poiché l’indice della ragazza gli bloccò le labbra.
«Pensavo fosse un capitolo chiuso, Capitano Kirk!» disse, intimandolo con quel suo sguardo severo, i capelli ancora scompigliati. «Non mi devi ringraziare di nulla, lo sai che lo faccio perché ti voglio bene!»
Oikawa avrebbe voluto replicare, ma la modella gli afferrò immediatamente il polso, trascinandolo dal lato opposto verso cui stava andando poco prima, sotto lo sguardo interrogativo di alcuni passanti. «Coraggio, ora chiamo Akio e gli dico di cucinarti gli yakitori. Ti assicuro che quelli che fa lui sono più buoni dei miei!»
Per un po’ non rispose, limitandosi a lasciarsi trascinare come se fosse un sacco vuoto. «Eiko?» disse poi.
«Sì?»
«Anche io ti voglio bene.»




Sembrava uno scherzo del destino e, in un certo senso, lo era. Il destino, quella bambina capricciosa che osservava tutto da lontano, un’entità astratta che faceva girare il mondo come meglio credeva, si divertiva come non mai a prendere in giro alcuni malcapitati, gli infedeli, coloro che con credevano.
Hajime, per la prima volta nella sua vita, stava seriamente cominciando a crederci, mentre osservava una coppietta seduta al tavolo, lo stesso tavolo dove avevano pranzato lui e Oikawa.
Quando Tomoko gli aveva detto che desiderava cenare da Seb’s, visto che sua madre parlava così bene della loro cucina, gli era quasi venuto un colpo. L’immagine di Oikawa che scoppiava a ridere gli era apparsa davanti come se fosse una luce intermittente, gli feriva gli occhi, il cuore che perdeva un paio di battiti. E dopo attimi di silenzio, la collega gli aveva chiesto se andasse bene per lui, dall’altra parte della cornetta, e lui aveva dato la sua approvazione.
Adesso, era seduto a un tavolo diverso, ma aveva la perfetta visuale di quel tavolo – il loro tavolo, gli veniva da pensare, scioccamente –, la vetrata che mostrava la città di Tokyo con i suoi giochi di luci e le macchine che sfrecciavano per le strade. Aveva cercato di scostare lo sguardo, cominciando ad analizzare il menù, ma ogni volta i suoi occhi si posavano su quella coppietta che mangiava allegramente, come se fosse una mosca attratta dal miele.
Hajime non vedeva quella coppietta. Lui vedeva se stesso e Oikawa che pranzavano, che si fissavano negli occhi, sentiva ancora dentro le orecchie la risata del castano.
«Mi stai prendendo in giro, Iwa-chan?»
«No, Shittykawa, è solo una tua impressione!»
«Smettila di chiamarmi così!»
«Solo se tu la smetti di chiamarmi col “chan”!»
«Scordatelo!»

Tornò con lo sguardo sul menù plastificato, sfogliandolo svogliatamente, la mente rivolta a tutt’altro. Non aveva mai smesso di pensare a quella sera, quando aveva ammesso di aver iniziato a frequentare Tomoko, quella che per lui era sempre stata la sua migliore amica, la persona con cui poteva confidarsi apertamente. La persona con cui, adesso, non riusciva nemmeno più a parlare, non riusciva nemmeno guardala in viso.
Si sentiva un mostro, si sentiva sbagliato.
Si sentiva morto dentro, come una radice secca e che non avrebbe mai dato frutto.
«Hajime, io ti amo!»
Se non fosse che si trovava in un luogo pubblico, probabilmente avrebbe già posato la testa sul tavolo, affranto, sconfitto. Strinse il menù tra le dita, i fogli che penetravano la carne dei palmi, lasciando dei segni rossi evidenti. Gli pizzicavano gli occhi.
Sentiva quella voce sempre, costantemente, ogni volta che apriva gli occhi la mattina, conscio che un altro giorno sarebbe cominciato. Un altro giorno senza sentire né vedere Tooru. Un altro giorno in cui avrebbe evitato Tomoko, perché lei non doveva stare con lui, perché lui le stava solo facendo del male.
In teoria, quella cena serviva per chiarire, per spiegarle che quello che aveva fatto era tremendamente sbagliato, che lei meritava di meglio.
Lei non meritava di stare con lui. Nessuno meritava di stare con lui, nemmeno Tooru.
Era vero, in fondo: chiunque gli stava accanto, finiva per morire, sia fisicamente che metaforicamente parlando.
Il respiro gli si bloccò in gola, la testa che pulsava e milioni di frasi che continuavano a rimbombargli in testa.
«Hajime, io ti amo!»
«Non hai mai capito quello che io provo per te, vero…?»
«Hai già rovinato la vita di mia figlia, non ti permetterò di rovinare anche la vita di mia nipote!»

«Hajime?» Il ragazzo alzò lo sguardo, gli occhi lucidi, e ci mise un po’ prima di realizzare che la ragazza che aveva davanti era Tomoko, un vestito di raso nero e lungo che le calzava a pennello. Aveva l’espressione preoccupata, di chi sembrasse aver visto un fantasma. E infetti, lui non era tanto diverso da un fantasma.
Si alzò in piedi, rendendosi conto che la camicia e la giacca che aveva addosso non reggevano il confronto con l’eleganza della giovane. «Ciao…» disse, faticando persino a respirare, l’ultima frase che continuava a graffiargli i timpani, la guancia sinistra che pulsava. «Stai… stai benissimo…»
«Grazie…» rispose Tomoko, inclinando la testa di lato.
Rimasero in silenzio, e solo quando Hajime si offrì di spostarle la sedia per farla accomodare, riuscirono finalmente a sedersi, la giornalista che disse all’amico di lasciar perdere, che tali formalità non erano necessarie.
«Sei già stato qui?» chiese poi la ragazza, aprendo il menù.
Iwaizumi sentì la gola che gli pizzicava, milioni di spilli che gli pungevano le corde vocali. Dovette bere un sorso d’acqua prima di parlare. «Come?»
«Volevo sapere se sei già stato qui… Mia madre è venuta qui con mio padre, ed è tornata a casa entusiasta. Te l’ho detto che ha fatto persino amicizia con i proprietari?»
«Sì, me l’hai detto…» mormorò, tenendo anche lui lo sguardo inchiodato al menù, sforzandosi di non guardare oltre le spalle della ragazza.
«Non hai risposto…»
Alzò lo sguardo, incontrando gli occhi di Tomoko, carichi di una determinazione che non le aveva mai visto, nemmeno quando aveva lavorato ad articoli che le avevano fatto guadagnare gli elogi di Oohashi-sensei. Per quanto si stesse sforzando di mantenere gli occhi puntati su quelli di Tomoko, inevitabilmente, come una calamita, si spostarono verso quel maledetto tavolo, l’immagine di Oikawa seduto davanti a lui che gli apparve davanti, assieme al suo sorriso, assieme… assieme alle lacrime che versò quella sera e…
«No, questa è la prima volta che vengo» mentì, tornando a guardare il menù.
La ragazza non disse nulla e i due rimansero in silenzio, almeno fino all’arrivo di un giovane cameriere al loro tavolo, che chiese se avessero scelto che cosa prendere. Alla fine ordinarono gli stessi piatti e, a parte qualche piccola parola, non si dissero quasi nulla.
Fu Tomoko a ravvivare la conversazione, proprio mentre stavano mangiando, il destino che intanto stringeva la sua bambola riccioluta tra le mani. «Ho visto Oikawa-san, oggi.»
La mano di Hajime, impegnata a tagliare la carne, si fermò, alzando lo sguardo fino ad allora tenuto rigorosamente basso. Si rese conto di aver cominciato a respirare in maniera irregolare, e cercò di controllarsi. «Ti ha detto qualcosa in particolare?» chiese, non prima di essersi schiarito la voce.
«Era con Eiko, stavano facendo shopping.»
«Ah.»
La sua mano andò a stringere il coltello, le nocche che divennero bianche, e Tomoko si accorse immediatamente di quel gesto. Aveva fatto centro.
Non le piaceva l’idea di dover importunare Hajime per arrivare al fondo della questione, ma era davvero l’unico modo per cacciare fuori la verità. Purtroppo, il ragazzo aveva la bruttissima abitudine di nascondere tutto quello che provava dentro una scatola, la stessa scatola dove adesso si trovavano i suoi ricordi d’infanzia. Solo che questa era immaginaria ed era anche ben sigillata, spesso impossibile da aprire.
Tomoko sapeva che Hajime si era sempre sentito un inetto, qualcuno che doveva essere eliminato fin dal principio. Tomoko sapeva che lui si sentiva in colpa per la morte dei suoi genitori, anche se non c’entrava nulla. Tomoko sapeva che ogni sua azione, per lui, era uno sbaglio.
Lei non era tanto diversa da lui, anche lei si sentiva sbagliata, un’inetta, anche se i suoi genitori erano ancora vivi e non la smettevano mai di infonderle fiducia.
Si sentiva sempre di troppo, sempre quella premiata non perché lo meritasse veramente, ma perché sua madre era una donna di fama.
Hajime era stato il primo a trattarla per quello che era, non come la figlia di una famosa mangaka, e forse era questo che le era piaciuto di lui. Ma non l’amava.
Quello non era amore. Dopo una lunga chiacchierata con sua madre, se n’era finalmente resa conto.
«Sa di noi due…» disse, osservando attentamente i movimenti di Iwaizumi.
Le nocche erano ancora bianche, l’argento poteva quasi fondersi con la carne. «Gliel’ho detto io» ammise.
Per un po’ nessuno disse niente, poi Tomoko tornò nuovamente alla carica, una domanda che gli pizzicava la lingua da quando si era seduta a quel tavolo. «È successo qualcosa tra voi due?»
Iwaizumi, sulle prime, non sapeva come rispondere, avvertendo nuovamente le labbra di Tooru contro le sue. Che… che sapore avevano quelle labbra? Perché l’aveva dimenticato, perché adesso lo ricercava così disperatamente?
«Ehi, Hajime, non preoccuparti! Vedrai che sarai un ottimo padre!»
La voce di Minori gli tornò improvvisamente in mente, e il panico cominciò a montargli dentro. Era come se l’universo, il mondo intero, il destino stessero cercando di dirgli che quello che sentiva dentro di sé non avrebbe arrecato alcun danno al suo ruolo di padre; che quello che sentiva non era sbagliato, era soltanto umano, poco importava di che sesso fosse la persona che amava.
Eppure, lui continuava a dirsi che no, non meritava di provare quel sentimento. Doveva ripeterselo continuamente, come una mantra.
Io non amo Oikawa Tooru.
Io non amo Oikawa.
Io non…
Io…

«No, perché?» disse, ostentando un mezzo sorriso fasullo.
Tomoko lo squadrò con aria grave, le sopracciglia contratte, sbattendo poi le posate sul piatto di porcellana e incrociando le braccia. «Stai mentendo» affermò.
«Cosa?»
«Non fare il finto tonto, si vede benissimo che stai mentendo!»
«Tomoko, ti sto dicendo la verità, tra me e lui non è successo niente. Non ci vediamo dal… giorno del funerale, ecco!» Forse, se l’avesse detto con più convinzione, ci avrebbe creduto persino lui stesso.
La ragazza rimase zitta, le braccia ancora incrociate, un sorriso triste che fece capolino sulle sue labbra. «Hai il suo stesso sguardo…» mormorò, e questo bastò per far congelare Hajime sul posto, come se qualcuno gli avesse infilato una stalattite di ghiaccio in gola, impedendogli di respirare.
Aveva gli occhi sbarrati e temeva di poter rigettare quello che aveva appena mangiato da un momento all’altro. Stava male, questo era evidente anche a lui, il colore della sua pelle non era più lo stesso, soffriva ogni qualvolta dovesse immettere del cibo nel suo corpo, e da quando il suo letto era diventato così freddo e vuoto?
Tuttavia, era così che le cose dovevano andare, rimaneva in vita e sorrideva solo perché c’era Akane, ma lui non meritava nemmeno l’amore di sua figlia.
Lui non meritava niente, nessun desiderio gli era concesso.
«Hai già rovinato la vita di mia figlia, non ti permetterò di rovinare anche la vita di mia nipote!»
«Io non ho mai avuto quello sguardo» disse Tomoko, facendolo tornare con i piedi per terra. «Neanche quando sono stata male dopo che ti ho confessato che tu mi piacevi.»
Passò il dito sul bordo in cristallo del bicchiere, ora colmo di vino, pensierosa. «Ho usato di proposito il passato» continuò. «Io non sono mai stata veramente innamorata di te, Hajime. Nessuno mi ha mai trattata come hai fatto tu, sei sempre stato gentile, non ti importa niente di quale professione faccia mia madre, tu mi parli perché… ti piace passare del tempo con me, perché ti piace la mia persona.»
Si rese conto di star cominciando a singhiozzare, le lacrime che le inumidivano gli angoli degli occhi, mentre Iwaizumi era boccheggiante, incapace di fare alcunché.
«Nessuno, ripeto, mi ha mai fatto sentire… accettata. Tu sei stato il primo, e forse è per questo che pensavo che tu fossi l’uomo giusto, che mi ero sbagliata quando pensavo che sarei rimasta sola tutta la vita. » S’interruppe, le mani e la voce che le tremavano. «Ma non sei tu, Hajime. Non voglio stare affianco di uomo che… non mi ama…»
«Tomoko…» azzardò l’altro.
Fu nuovamente interrotto. «Non ce l’ho con te, lo so che tu mi vuoi bene, e anche io te ne voglio. Ma questo – e indicò entrambi – non è amore.»
Le labbra di Iwaizumi tremavano, gli occhi lucidi, il respiro corto e la mente che cercava di registrare quello che aveva appena detto la ragazza, la sua migliore amica; quella che sarebbe stata una moglie perfetta, ma che non voleva sul serio accanto. Non in quel modo, non con un rapporto forzato.
«Quindi la chiudiamo qui?» disse, dopo aver inghiottito fiotti di saliva.
«Hajime.» La ragazza si alzò in piedi, posandogli una mano sulla spalla. «Tu ami Oikawa. Non so per quale ragione tu non voglia ammetterlo, ma è così.»
Iwaizumi doveva prima imparare ad accettare se stesso, le sue azioni, le sue scelte, e forse avrebbe finalmente accettato quello che provava per Oikawa. Sperava dal più profondo del suo cuore che ci riuscisse presto, perché il tempo non si può fermare, e Oikawa non poteva aspettarlo in eterno, non era una principessa da salvare in una favola per bambini.
Iwaizumi doveva imparare a cancellare per sempre quella voce viscida e malevola che gli faceva il lavaggio del cervello e che lo convinceva che, sì, lui non doveva venire al mondo.
«Va da lui…» gli disse, prima di avviarsi verso l’uscita del ristorante.
Il giornalista rimase un attimo interdetto, seguendo il suo profilo con le iridi smeraldine spalancate, passandosi poi una mano sulla bocca, come a cacciare dentro l’ossigeno necessario.
«Tomoko!» urlò poi, alzandosi dal tavolo in tutta fretta e uscendo fuori, il vento che quasi gli graffiò il viso.
Si guardò intorno, alla ricerca della sua figura, ma sembrava essersi volatilizzata nel nulla. Rimase fuori per una decina di minuti, due lacrime che sfuggirono al suo controllo; poi, rientrò e pagò il conto.




Le strade erano stranamente semi deserte, forse perché quella zona non era di certo una delle più frequentare di Tokyo. Produsse uno sbuffo dal naso, le spalle curve e le mani infilate in tasca. «Bokuto, sei proprio sicuro che non ci siamo persi?» disse l’ex capitano della Nekoma.
Il ragazzo chiamato in causa protestò, puntando i piedi come se fosse un bambino che chiedeva le caramelle alla madre. «Ti ho detto che si trova da queste parti, abbi un po’ di fiducia!»
Kuroo sbuffò nuovamente. Stavano vagando da un mezz’ora circa, alla ricerca di un locale che aveva aperto da poco e che, a detta di Bokuto, era uno dei migliori in città. C’era stato con i suoi vecchi compagni di liceo la scorsa settimana, solo che adesso aveva completamente dimenticato dove si trovasse di preciso; e pur di non ammettere che aveva un pessimo senso dell’orientamento, aveva continuato a camminare, tranquillizzando Kuroo sul fatto che sarebbero arrivati a breve.
«E va bene, tu continua pure a cercare, io intanto chiamo Akaashi per farmi dire dove si trova!»
Bokuto si bloccò di colpo, girandosi verso l’amico – che intanto aveva composto il numero – con lo stessa espressione di un ladro che era stato colto in flagrante. Gli sì gettò addosso nel vano tentativo di sfilargli il telefono dalle mani.
«Non c’è affatto bisogno di disturbare Akaashi!» protestò. «So benissimo dove si trova!»
«No, non lo sai, razza di idiota! E togliti di dosso!»
Continuarono a lottare allo stesso modo di due animali che si contendevano lo stesso cibo per diversi minuti, alcune persone che gli passarono accanto e che li guardarono scioccanti – visto che, tra le altre cose, avevano ancora la divisa addosso, il logo della Nazionale stampato sopra. L’idea era quella di andare a mangiare e a bere qualcosa, giusto per svagarsi un po’, per poi tornare a casa, ma erano usciti dall’allenamento da circa un’ora e non avevano ancora combinato nulla.
Alla fine, Bokuto riuscì a togliergli l’aggeggio dalle mani, anche se quest’ultimo rovinò per terra, a una dovuta distanza da loro. Kuroo gli lanciò uno sguardo di fuoco, chiaro segno che l’avrebbe strozzato di lì a breve, se non fosse che lo smartphone era caduto proprio ai piedi di qualcuno.
Entrambi i giocatori alzarono lo sguardo, rimanendo di sale, così come la persona che stava dinanzi a loro: Iwaizumi li stava guardano con gli occhi sbarrati, il cellulare di Kuroo in una mano.
Si rese conto solo in quel momento di aver camminato per miglia e miglia, senza guardare dove stesse andando veramente, per poi ritrovarsi a percorre la strada che faceva di solito per andare a trovare Tooru al palazzetto, la mente che ancora rimandava l’immagine di Tomoko che usciva dal ristorante.
«Va da lui…»
Abbassò lo sguardo, avvicinandosi ai due ragazzi e consegnando il telefono al proprietario. L’intento era quello di far finta che non fosse successo nulla, continuando a camminare per la sua strada; il destino, però, aveva altri piani per lui. La bambola riccioluta aveva fatto il suo dovere, adesso toccava a lui fare il suo. E quell’incontro fortunato era proprio il momento perfetto.
Hajime si sentì tirare per la giacca e fu costretto a voltarsi, trovandosi davanti il viso di Kuroo, un’espressione tra il furioso e l’indignato. Dal canto suo, Hajime rimase impassibile, troppi pensieri che gli vorticavano in testa, troppi tumulti interiori che mandavano in subbuglio il suo stomaco e le sue viscere, la cena che quasi gli risaliva in gola.
«Hai bisogno di qualcosa, Kuroo?» chiese, e si stupì del suo tono di voce, aveva lo stesso effetto dell’acido sulla carne.
Il centrale fece una risata sprezzante. «Che faccia tosta!» esclamò. «Pensavi seriamente che non ti avrei fermato, dopo quello che hai fatto?»
Il giornalista si liberò dalla presa, guardando il ragazzo dall’alto in basso. L’aveva sempre fatto, subito prima di una discussione o di una rissa con i suoi compagni. Era sempre stato un bambino un po’ irruento, specie dopo quello che gli era successo, ma col tempo aveva finito per calmarsi, soprattutto perché non voleva arrecare ulteriori dispiaceri a sua zia. Quella sua natura, però, non se n’era mai andata veramente, e Kuroo lo stava guardando come avevano sempre fatto gli altri: con disprezzo.
«Io non ho fatto assolutamente nulla. E ora, se vuoi scusarmi…» E nel dirlo, fece nuovamente dietrofront; questa volta, però, fu spostato di peso e sbattuto contro la saracinesca di quello che probabilmente era un negozio di alimentari.
Si aspettava di vedere nuovamente il viso di Kuroo, ma invece vide solo gli occhi gialli e penetranti di Bokuto, il volto livido e quasi rabbioso. E non era l’unico ad essere rimasto scioccato dal gesto compiuto dall’ace, anche Kuroo guardava la scena con gli occhi spalancati.
«Non hai fatto nulla?» urlò. «Con che coraggio dici una cosa del genere? Non te ne frega proprio un cazzo di Oikawa?»
Un brivido percosse tutta la spina dorsale di Hajime, una vocina nella sua testa che gli diceva che no, a lui importava. Che avrebbe voluto sentirlo ridere per il resto della sua vita. Che avrebbe voluto scacciare ogni male che lo affliggeva. Che voleva esserci ogni volta che avrebbe pianto.
Che voleva baciarlo ancora una volta.
E poi c’era quella voce graffiante, viscida, crudele, che gli perforava i timpani e che gli diceva che era colpevole, che Oikawa soffriva per colpa sua, che non meritava di provare per lui qualcosa di così grande.
Il rimbombo di uno schiaffo gli risuonò ancora in testa, come se fosse il fischio di una mina, e si ritrovò catapultato a tre anni prima.
«Hai già rovinato la vita di mia figlia, non ti permetterò di rovinare anche la vita di mia nipote!»
Hajime avrebbe voluto chiudere gli occhi e lasciarsi andare contro quella parete di metallo, ma non poteva, non poteva farsi vedere debole davanti agli amici di Oikawa. Doveva fargli capire che quella relazione assurda che aveva con quel ragazzo era assolutamente finita, che non ci sarebbe stato più nulla, che l’aveva fatto per il suo bene. Che non era innamorato di lui.
«Sì» disse, e sentì una fitta lancinante all’altezza del petto. «Non me frega un cazzo. Ora posso andare?»
Era un pessimo bugiardo, lo sapeva. Anche se per anni aveva tenuto dentro un segreto troppo grande per lui, pur di non rovinare la felicità di Akane e Minori. E ancora si sentiva colpevole, perché se lui fosse morto in quel dannato incidente, tutto questo non sarebbe successo. Se lui fosse andato con i suoi genitori, tutto questo non sarebbe mai successo. Tutti sarebbero stati meglio senza di lui.
Oikawa sarebbe stato meglio senza di lui.
Senza volerlo, una lacrima sfuggì al suo controllo, ma continuò a tenere gli occhi puntati su quelli di Bokuto, il respiro pesante.
«Sei un pessimo bugiardo» gli disse il ragazzo, piano, allentando la presa che, fino ad allora, aveva tenuto ben salda sulla collottola della camicia bianca.
Iwaizumi riuscì a liberarsi anche questa volta, asciugandosi velocemente il volto. I due ragazzi non lo guardavano più con odio, bensì con una grande, grandissima tristezza. Non provavano pena per lui; solo, si sentivano catapultati in uno strano déjà-vu, come se quella scena l’avessero già vissuta, ma il ragazzo aveva i capelli castani ed era il loro compagno d’avventure da un paio di anni, oramai.
«Si può sapere che cosa volete da me?» sbottò poi Hajime, tirando su col naso.
Fu Kuroo a parlare. «Vogliamo sapere perché hai baciato Oikawa…»
«Non lo so, okay? Non lo so perché l’ho fatto! È una colpa questa?»
Altre lacrime continuarono a solcargli il viso, il tono di voce che si fece sempre più alto, infischiandosene della gente che stava a guardarlo, che fosse da una finestra o per strada.
«Perché non lo ammetti?» disse poi Bokuto, una voce velata di malinconia che lasciò perplessi i due giovani uomini.
«Che cosa?»
«Quello che provi per lui…»
Il respiro gli morì in gola. Un’altra, l’ennesima dannatissima persona che gli diceva di ammettere ad alta voce i suoi sentimenti. La vocina di prima, proveniente da una nicchia nascosta nel suo cuore, continuava a urlare e a sbraitare, puntando i piedi e facendo aumentare i battiti del suo cuore. Ancora quel fischio, ancora il rumore di uno schiaffo che risuonava in una stanza semi buia, ancora quegli occhi che lo fissavano, lo giudicavano. Adesso, però, tutto era confuso, ovattato, coperto dal rumore del suo cuore che batteva, dalle immagini di Oikawa che gli sorrideva, che inclinava al testa di lato, che l’abbracciava al funerale. Chiuse le dita a pugno, e le sentiva ancora, le dita di Oikawa che stringevano le sue.
Poteva avere davvero quello che voleva? Poteva concederselo senza provare costantemente dei sensi di colpa verso le persone a lui care?
Poteva davvero concedersi di amare?
Stavolta, non riuscì a non abbassare le palpebre e prese un respiro profondo. «Ti ho già detto che di lui non me ne frega nulla…» provò a dire, ma gli tremava la voce.
«E allora perché gli avresti detto di continuare a vedervi dopo che ti ha baciato?» incalzò Kuroo.
«Perché era un ottimo passatempo, okay? E adesso, coraggio, picchiatemi pure se volete, tanto lo so che morite dalla voglia di farlo!» Allargò le braccia, come se si aspettasse di ricevere seriamente un pugno da uno dei due ragazzi, ma questo non arrivò mai.
Era vero, all’inizio erano furiosi con lui e l’avrebbero volentieri preso a calci, ma adesso che lo guardavano meglio si resero conto delle condizioni in cui si trovava: erano le stesse condizioni in cui riversava Oikawa dopo che l’avevano consolato, in palestra. Stavano entrambi male da troppo tempo, entrambi senza saperlo, entrambi convinti che l’altro stesse andando avanti. Erano due sciocchi.
C’erano delle ragioni per cui Iwaizumi si stava comportando così, Bokuto ne era sempre stato convinto, e adesso anche Kuroo la pensava come lui. Tuttavia, non voleva rendere partecipi gli altri del suo dolore, per quanto fosse evidente all’esterno.
Se era vero, come diceva, che Oikawa era stato solo un passatempo piacevole, allora non si sarebbe ridotto in quel modo.
«Continui a mentire, Hajime…» disse l’ace, ed era una piccola ammonizione detta con tutta la gentilezza possibile.
«Cazzo, ma lo volete capire o no che io sto dicendo la verità?»
I suoi polmoni cercavano aria, si sentiva come un gatto intrappolato tra quattro piccole mura, e tentava di risalire con le unghie che graffiavano le pareti rocciose. Sarebbe esploso di lì a breve, la vocina che si faceva sempre più persistente, sempre più forte, e adesso quella voce crudele non esisteva più, niente più mantra, niente più sensi di colpa, solo il desiderio di vedere Oikawa. Di abbracciarlo. Di baciarlo ancora una volta e di chiedergli scusa.
Di dirgli che… che era…
«Ti costa così tanto dirlo ad alta voce?» Questa volta Bokuto alzò la voce, avvicinandosi sempre di più.
«Che cosa? Dire che cosa?» urlò Iwaizumi, il respiro che scemava sempre di più.
«Il motivo per cui hai baciato Oikawa. Ti costa così tanto ammetterlo?»
«Io non devo ammettere niente!» insistette. «E sono stanco di questa buffonata!»
Si allontanò da quell’interrogatorio che lo stava opprimendo, lo stava schiacciando, stava facendo uscire quella vocina che lo importunava da mesi, oramai, e i due non lo seguirono come lui si aspettava. Semplicemente, Bokuto gli urlò contro, mentre lui era girato di spalle e camminava a passo svelto, allontanandosi sempre di più. «Dillo, dannazione, non scappare come un codardo!»
In quel momento, avvenne l’impensabile, quello che Hajime non si sarebbe mai aspettato, non mentre stava facendo di tutto per fuggire, ancora una volta. Si voltò, e le sue parole uscirono senza che lui lo volesse, la vocina di prima che prese definitivamente il controllo della sua persona, della sua mente, dei suoi pensieri.
«PERCHE’ LO AMO, CAZZO, ECCO PERCHE’ L’HO BACIATO!»
Calò il silenzio, interrotto solo dal rumore delle macchine che passavano lì vicino. Si sentiva scombussolato, come se avesse appena confessato di essere il fautore di un qualche reato grave, quando invece aveva solo confessato di essere innamorato di una persona. Di amarla come non aveva mai fatto con nessun altro. 
Dire di amare una persona non deve essere qualcosa di scontato. Deve essere qualcosa di vero e sincero.
Hajime avrebbe voluto dire questa frase diverso tempo prima, ma c’era qualcosa che glielo impediva, qualcosa che doveva ancora risolvere, e che forse poteva trovare una soluzione. Era stanco di nascondersi, era stanco di reprimere quello che sentiva in quella stramaledettissima nicchia.
«Lo amo…» mormorò, e per la prima volta nella sua vita apprezzò il suono della sua voce, lacrime copiose che segnavano i suoi zigomi.
I due giocatori si guardarono un attimo e sorrisero, per poi avvicinarsi al giovane giornalista. Gli diedero un piccolo pugnetto sulla spalla per farlo riprendere.
«Sei sempre uno stronzo» disse Kuroo. «Ma non ti picchiamo solo perché devi andare da Oikawa e, insomma, devi essere un minimo presentabile!»
«Ben detto, Kuroo!» si aggiunse Bokuto.
Iwaizumi non disse niente, prendendo boccate d’aria come se fossero sorsi d’acqua fredda, le membra che quasi tremavano. Chiuse gli occhi e prese un ultimo profondo respiro prima di parlare, e la sua mente cancellò finalmente l’immagine di quegli occhi che lo giudicavano come se fosse una spugna. Adesso, aveva davanti l’immagine di Oikawa che gli sorrideva, che arrossiva, che giocava con sua figlia. Ed era bellissimo.
«Ragazzi... Prima di andare da Oikawa c’è una cosa che devo risolvere…» Guardò prima l’uno e poi l’altro, serio. «Posso contare sul vostro aiuto?»
I due lo osservarono perplessi, per poi sorridergli. Sì, poteva decisamente contare sul loro aiuto.



Il destino aveva osservato tutto da lontano, un sorriso soddisfatto stampato in faccia. Fece cadere la piccola bambola riccioluta e si allontanò, sparendo piano piano, come se fosse un fantasma.
Alla fine, si era reso conto di aver giocato troppo con quei due. Voleva lasciargli le redini, sarebbero stati loro a guidare l’ultimo round.
Loro avrebbero scelto se far legare quel filo rosso, o se spezzarlo definitivamente.
Da come stavano procedendo le cose, però, il destino era decisamente propenso per la prima ipotesi.


 
[I run away when things are good
And never really understood
The way you laid your eyes on me
In ways that no one ever could
And so it seems I broke your heart
My ignorance has struck again
I failed to see it from the start
And tore you open 'til the end]




 
Delucidazioni:
SIGNORI E SIGNORE, VI PREGO, FACCIAMO UN APPLAUSO LUNGO NOVATADUE MINUTI AD IWAIZUMI HAJIME!
Ebbene sì, finalmente il nostro ace ha ammesso di amare quel cutie pie di Oikawa Tooru. Ce n’è voluto di tempo, eh? *le sparano*
Comunque, adesso posso finalmente spiegarvi la motivazione del suo comportamento, anche se si vedrà meglio nel prossimo capitolo: la voce che Iwaizumi sente – e di cui voi leggete le parole nella scena al ristorante – è quella della madre di Minori. A quanto pare, né lei né il marito va a genio il rapporto che ha Hajime con la figlia, e hanno fatto di tutto per allontanarlo dalla nipotina, ancora troppo piccola. Ovviamente, Iwaizumi l’ha scoperto, ma non ha voluto dire niente perché temeva seriamente di rovinare la carriera di Minori o la vita di Akane. E sì, quella donna ha avuto il coraggio di dare uno schiaffo a Iwaizumi, PROTEGGIAMOLO! 
Spero che questo giustifichi il suo comportamento da stronzo…
Also, le donnine di questa storia hanno avuto finalmente il loro spazio: Eiko è adorabile e sì, Iwaizumi ci aveva visto giusto quando ha affermato che provava qualcosa per il suo manager; e Tomoko si è finalmente resa conto che quello non era affatto un rapporto sano (la mia beta sostiene che questa è la sua canzone lol)
Comunque, se volevate saperlo, Tomoko usa alcune parole in italiano con la madre. E mia sorella mi ha costretto a inserire alcuni riferimenti alla vita sessuale della donna e tutta la questione del gatto. Sì, sono io che do nomi strani ai gatti… Come Nerone, Agrippina o Odino (??)
Spero che i mei due bro del cuore non siano risultati OOC e che la discussione sia convincente, ugh. La canzone che fa di sfondo al capitolo è Sorry di Halsey, ORA DITEMI SE NON E’ PERFETTA!
Oh, quasi dimenticavo: il prossimo è l’ultimo capitolo. Lo so, in teoria dovrebbe esserci un altro capitolo prima della fine, maaa… C’è l’epilogo. Ops.
*la imbavagliano e le danno fuoco*
Alla prossima ;)
_Lady di inchiostro_

l’uccellino cinguetta
 
  
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