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Autore: ggiovbr    13/11/2017    0 recensioni
''Correvo più che potevo , distruggendo quello che era rimasto ancora dei miei polmoni crivellati dal fumo passivo che ero costretto ad aspirare dalle sigarette dei miei amici. O forse quella era solo una scusa per mascherare la voglia di ozio che mi aveva portato ad abbandonare qualsiasi sport negli ultimi quattro anni. 
Corsi così velocemente che quasi non superavo la barriera spazio/tempo. Ero davanti ad un semaforo che in quel momento lampeggiava rosso e la sfilza di macchine attendeva incessantemente di partire: mentre attraversavo la cerniera con un semplice movimento si ritrovò aperta e quel poco di materiale scolastico finì per terra. ''
Genere: Azione, Comico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Odiavo il mio nome. Odiavo il momento in cui la gente masticava lentamente le lettere e creava quel fatidico suono che bruciava i miei timpani. 
Ero costretto a sentirlo ogni giorno e ogni singola volta cercavo di trattenere l’odio dentro di me verso quella stupida parola che mi era stata assegnata. Gioacchino. 
Con un nome, un singolo nome, riuscivo a rovinarmi la reputazione di chiunque.
Il nome è il tuo biglietto da visita e il mio sembrava solo da burattino rosso, o un diminutivo che faceva rima con parole ancora più divertenti.  
I tempi per le ragazzate erano finite, il saluto “ Gioacchino il tacchino” o “Giacchino portami il giacchino” per fortuna erano solo un brutto ricordo delle elementari e delle medie. 
''Buongiorno, lei chi è?'' una signora in tuta elegante fermò il suo discorso per rivolgere la parola alla persona che era appena entrata. 
''Gioacchino Tommasi'' dissi io con timore radicato fino alle ossa mentre una risatina pervase tutta la stanza luminosa. 
''Mh... Io sono Rosa Carnevale, la nuova professoressa di inglese> fece scorrere il dito lungo il registro di classe ancora vergine e continuò '' numero 17 dell’elenco, come mai in ritardo? Direi pazzesco.'' 
Non potevo spiegare in poche parole alla nuova professoressa ciò che fosse successo quella mattina e mentre cercavo di accontentarla con uno spoglio ''ehm'' lei mi bloccò con il musicale rumore dei bracciali al polso sinistro.
''Signor Tommasi, il primo giorno si presenta a quest’ora e non sa darmi delle spiegazioni. Le darà al preside.'' guardò con aria di sfida i miei occhi perdenti. 
''Dopo però'' continuò. ''questo non è il momento adatto, si presenti davanti a tutti'' mi disse alzando il sopracciglio. 
''Ma guardi che non sono nuovo, ho frequentato questo corso anche l’anno scorso. Loro mi conoscono già'' indicai i miei compagni.
''non si scaldi,Tommasi e porti rispetto, che è già partito malissimo. Visto che qui la conoscono, vorrà dire che si presenterà solo a me, che male ci sarebbe? '' sorrise malignamente la donna. 
''Potrei sedermi?''
''Certo questo non posso negarlo, ma affrettati''
Sistemai ciò che rimaneva del materiale ad un banco in prima fila. Davanti alla cattedra. 
Cominciai ribadendo il mio nome e subito le labbra carnose della professoressa mi fermarono 
''mi sono  dimenticato di dirle: la presentazione in inglese, grazie''
Non potevo crederci. Io ero lì, impalato ad aspettare che qualcuno mi salvasse mentre gli sguardi fiammanti continuavano a fissarmi. 
Mi piaceva l’inglese. Peccato che non fossi affatto bravo in quella materia, nonostante il costante impegno. 
Bisbigliai due paroline come “I’am” o “I’m Gioacchino, I’ve 14 years” che subito si gridò allo scandalo. 
''Iniziamo proprio bene. Ha appena commesso uno degli errori più gravi. Non si può di certo utilizzare il verbo ausiliare avere per indicare l’età, Signor Tommasi, ma To Be'' 
''mi scusi, continuo...'' 
''Basta. Hai chiaramente delle grossissime lacune.''' scosse il capo in segno di disapprovazione e allungò il muso da papera appoggiando il labbro superiore in modo più accentuato sull’inferiore. ''Passiamo ad un altro. Tu, lì in fondo, come ti chiami?''
'' Francesco D’Aragona ''
''Bel cognome, stirpe nobile'' sorrise lei da sola in mezzo al silenzio accorgendosi della stupidità del suo commento. 
''I’m 15 years...''
''No, tranquillo, tu presentati pure in italiano.'' 
Feci un lungo respiro e contai fino a dieci.Uno. Due. Tre. Quattro...
''Signor Tommasi, cosa sta facendo ? Sognando ad occhi aperti?'' 
''mi scusi''
''cosa stava dicendo il tuo compagni? Eri attento?''
L’unica cosa a mio favore fu la campanella che suonò all’improvviso. 
Tirai un sospiro di sollievo.
''La prossima volta interrogato, Tommasi, stavolta ti ho graziato non mandandoti in presidenza.'' 
La guardai senza dire nulla sennonché''arrivederci''. 
Tutti mi fissarono, dopo quello che era successo ero sicuramente diventato un fenomeno da baraccone, un qualcosa da deridere. 
La voce dell’accaduto, con nomi e cognomi, si sarebbe sparsa in meno di pochi minuti in tutto il corridoio e sarebbe dilagata in tutta la scuola, con le cornici di ogni mio compagno di classe. 
Ne ero avvezzo ormai, perciò non mi preoccupai delle frecciatine provenienti dai bassi fondi della classe. 
Rimasi seduto per qualche istante ad osservare negli occhi i ragazzi intorno a me. Le loro pupille vitree cercavano di sfuggire ai miei sguardi taglienti e per un attimo mi sentì il più potente. 
Sentivo di poter dominare quel branco di imbecilli con la mia intelligenza superiore e di convincere che fossi l’Eletto. 
Catturai tutti, dal primo all’ultimo. Alcuni risero per il mio volto accecante, altri ricambiarono l’espressione. 
''cosa guardi, Gioacchino?'' sogghignò Dalila, una innominata ragazzina della terza fila. 
''non lo so neanche io''' risposi.
Non so ancora cosa mi prese, continuo a credere ancora adesso di aver bevuto qualcosa di un po’ tossico. Ne sono certo. 
Il mio attimo di orgoglio fu fermato dall’arrivo del professore di educazione fisica. 
I professori di ginnastica sono tutti uguali, ed io adoravo stereotipare quella categoria. 
Alti, come sempre. Il nostro si chiamava Michelini. Il nome non l’ho mai saputo. 
Muscoli cadenti un po’ ovunque, a rimembrare gli anni di duro lavoro fisico in una palestra periferica, da veri ragazzacci che mai avrebbero pensato di prendersi la laurea in scienze motorie. 
Tuta. La stessa tuta ogni singolo giorno di lavoro, con la classica striscia bianca all’esterno della coscia che sottolineava la marca sportiva ormai non più in moda. 
Occhiali da sole, naturalmente specchiati per far cadere l’occhio su qualche alunna formosa di quarto anno. 
Ebbene sì, escluso qualcuno, la vita loro la passavano da single, fuori la scuola li vedevi sempre nello stesso modo, mentre appoggiati alla macchina, aspettano che qualche fanciulla cadesse nelle loro braccia muscolose.
'Buongiorno ra-gazzi '' alzò le lenti per mostrare i suoi occhietti piccoli circondati da rughette.
''Buongiorno...'' un coro si elevò per lui.
''Non avete la tuta?'' chiese spacciatamente. 
''No, prof, l’orario non lo sapevamo'' disse il rappresentante in cerca di consenso.
''vabbè andiamo lo stesso in palestra, vi mostro degli esercizi che approfondiremo nel corso dell’anno'' rispose lui alzandosi e facendo alzare la massa di persone. Cercava di utilizzare un linguaggio consono ma nove mesi con lui mi fecero capire che mentiva. Spudoratamente. 
Appena arrivammo nella palestra - atrio trasformato in area da ginnastica con tappetini per terra- ci disponemmo in cerchio con lui al centro, prima togliendoci le scarpe. 
All’improvviso un tanfo disgustoso si levò nell’aria. Ognuno cercò di annusare gli altri per scoprire il colpevole di quell’odore sgradevole. 
''L’anno scorso abbiamo fatto Judo, vero? Quest’anno continueremo il programma di mosse, un po’ più complicate.'' 
Tutti annuimmo. Il professore continuava parlare e sbuffai. 
Dalla finestra vidi svolazzare un piccolo pennuto. 
La sfumatura grigia sulle sue penne lo faceva sembrare di una rara razza e pensai da quale sperduto posto fosse migrato. 
Una cosa mi terrificò.Si posò sul cornicione dell’infisso per qualche secondo e nel tentativo di volare lascio un suo ricordo. Mi avvicinai con lo sguardo e lo vidi. Era un misero piccione. 
E da lì a momenti ne sarebbero venute a decine. Così voltai il capo nella speranza di non rigurgitare. 
Sentì una pacca nella spalla.
''Gioacchino'' 
''eh?'' chiesi stupito, mi ero distratto. 
''il prof ti vuole come cavia per mostrarci una mossa di judo'' 
''Cosa?'' non avevo sentito bene, o forse le miei orecchie non volevano crederci. 
''vieni qui Gioacchino.'' 
Mi avvicinai e lui si mise accanto a me.
Si girò con uno scatto e senza capire nulla venni sobbalzato in aria e sbattuto per terra senza il minimo contegno. Sarei potuto finire in ospedale per quella stupida mossa e morire, ma per fortuna non mi successe nulla. Mi rialzai un po’  dolorante e senza che potessi accorgermene lo rifece per chi non l’aveva capito. 
''questa si chiama Sumi Otoshi. Consiste nel mettere un piede in mezzo alle gambe dell’avversario, e con la forza delle braccia catapultarlo e facendo girare, in modo tale che non si faccia male, ma rimanga a terra.'' 
SUMI CHE? 
Che bel l’inizio dell’anno pensai. 
''tu che l’hai sperimentato, prova a farlo con un tuoi compagno'' mi sentii dire. 
I miei occhi si dilatarono. Ero una calamita per le sventure.
''Alberto vai tu vicino Gioacchino'' 
Alberto Manganesi. 
Alto. Moro con occhi azzurri. L’acclamato dalle ragazzine della scuola. Faccia da copertina di fotoromanzo. 
Lui mi guardò con sfida, mentre io ero indifferente, volevo solo che l’ora finisse subito. 
Arrivò il momento dell’esercizio. 
Cercai di sollevarlo ma era esattamente il doppio di me e da lontano arrivò un gratuito “scamorza”.
Era ormai un rituale, la mia sconfitta, in qualsiasi ambito. 
Ritentai ancora una volta ma fui bloccato dal peso. Non credevo più neanche in me stesso. 
Mi arresi tra i sorrisi maligni delle ragazzine che sbavavano dietro Alberto. 
 
La ricreazione arrivò, come la quiete dopo la tempesta. 
Angelo e Alessia si incamminarono verso di me ''hai fatto una figura di merda con la prof di inglese'' disse il primo.
''lasciamo stare. È meglio non parlarne. Non mi date addosso altrimenti vi mando  a fanculo entrambi come state'' 
''Oh, tranquillo. Ma cosa è successo?'' chiese Alessia. 
''ma niente. Troppo lungo da raccontare.'' alzai le spalle. 
''Perché fai lo smorfioso stamattina? '' 
''Stai scherzando spero? Dopo tutte le disavventure, il ritardo, la Carnevale che mi obbliga a presentarmi, in inglese per giunta, Michelini che mi distrugge la schiena e tu hai il coraggio di chiedermi come mai sono smorfioso?'' mi stavo sfogando. 
''Hai ragione, scusa ma adesso dicci perché sei arrivato alle 8:35'' 
Gli raccontai della sveglia, di mio padre, avvocato, che a volte doveva vedersi in segreto con dei clienti molto ricchi che non volevano far sapere a nessuno dei loro problemi penali. 
Mattia arrivò subito dopo e volle essere spiegato tutto dall’inizio. Così ripresi il mio racconto avventuriero  e ormai gli ascoltatori erano sulla dozzina.
Solo Alberto e la sua combriccola rimanevano appartati sull’ultima fila, che si erano sicuramente accaparrati entrando alle 7:30. 
La giornata passò in fretta, tra le lamentele di Barbara e Vania, che altri centonovantanove giorni così non li volevano proprio fare. 
Sospirai guardandole. 
Continuavano  a starnazzare. 
•••
Sistemai in fretta le misere cose nella cartella e la caricai sulla spalla indolenzita. Il deltoide aveva ceduto nel giro di poche ore e le palpebre iniziarono a sognare le coperte. In effetti l’unica cosa di cui avevo bisogno era stendere la mia figura cadente sul letto e riposarmi per tutto il pomeriggio. Avrei  voluto districare le mie braccia nelle lenzuola turchine che profumavano di lavanda e scaricare la stanchezza di quella odiosa giornata sul cuscino che mi attendeva impaziente. 
Il telefono squillò mentre sognavo il dolce riposo e mi riportò alla realtà unisona. 
''Sono io'' disse una voce subito riconoscibile. 
''Lo so chi sei, papà. Il tuo nome esce sullo schermo ogni volta che mi telefoni'' imbronciai la voce.
''sei arrabbiato e si sente. Ma non è colpa mia.'' cercava di rimediare con la sua infantile maniera di soccorso per se stesso. 
''Tranquillo papà. L’unico problema è stata l’attraversata casa-scuola.'' 
''cosa ti è successo'' si allarmò e mi venne in mente la sua figura preoccupata dall’altra parte della cornetta. 
''Un pò di cose... ti racconto tutto a casa. Ah, mi faresti un favore per compensare la tua mancanza di stamattina?'' lo stuzzicai
''cosa? Dimmi subito'' sembrava fosse il mio servo personale. Un po’ di dispiaceva quella situazione, ma avevo bisogno proprio della cosa che stavo per annunciarli ''vienimi a prendere. Ti prego'' 
''Okay, Gioacchino.'' 
Sospirai e mi rilassai appoggiando la gamba destra al muro della scuola. 
''Arrivo'' chiuse così la chiamata. 
Quel breve momento non passò così in fretta. 
Erano passati circa tre minuti dalla conclusione della chiamata con mio padre che sentì uno schiamazzo alle mie spalle.
Girai lo guardo.Dalla porta giungeva un gruppo di ragazzi. 
Tra di loro spuntava la pesante immagine di Alberto Manganesi. 
Sempre lui. 
Il suo passo voltò insieme a tutti verso di me, all’uscita. 
Perché Papà non arrivava ? 
Volevo svignarmela da  quella imbarazzante situazione. 
In qualche secondo mi raggiunse. Da solo. Il gruppo di pennuti che si stava sbellicando di risate animalesche era rimasto a guardare. Mancava solo un recinto a contenere il pollaio. 
Manganesi abbassò lo sguardo per fissare le mie pupille imbronciate: era quasi il doppio di me. 
''volevi fare il forte oggi, eh?'' 
''ma no! Era un esercizio'' risposi. 
''non ci provare. Vuoi sfidarmi?''
''te l’ho detto. Il professore mi ha detto di farlo. Cosa non capisci di queste parole? Sono così difficili?'' 
''ehi ragazzino, sai chi sono io?'' 
''Alberto Manganesi?'' dissi io sogghignando per la tremenda risposta datagli.
''tu scherzi.'' 
''ti chiami così o sbaglio?''
''non sbagli affatto. Non provare ancora una volta a toccarmi o ti spezzo le dita dalla prima falange all’ultima'' 
''conosci il corpo umano?'' feci la faccia meravigliata per sfidarlo. 
''Bella battuta. Secchione. Da te ho sentito quella parola, e che ne so io''
''ma da me precisamente cosa vuoi?''
''Un cazzo, non voglio un cazzo da te, tranquillo. Devi solo smetterla di rompermi i coglioni. ''
''ma chi ti pensa Albè'' cercai di smorzare i toni ma non ci riuscì.
''Oh'' lasciò cadere lo zaino rigorosamente firmato e con le se due mani aperte mi spinse al muro. 
''in classe comando io. Non tu, sfigato'' 
''Ok.Ok'' lo vidi. 
Era lui. 
L’Audi luccicante sfrecciava lungo la strada appena asfaltata e stava raggiungendomi. 
Manganesi mi lasciò e corse dal suo gruppetto. Non riuscivo ancora a capire cosa volesse. Credeva che lo volessi intaccare. 
Il clacson mi fece avvicinare alla macchina parcheggiata in pochi secondi ed entrai guardando il viso sorridente di Vincenzo Tommasi. 
Il più famoso avvocato in carriera di Bari. 
Mio padre. 
''chi è quello che ti teneva incollato alla parete?'' chiese lui.
''Un coglione'' risposi io ridendo. 
''Oh Oh. Erano mesi che non sentivo mio figlio dire una parolaccia.''
''Tranquillo papà, nessuno mi bullizza. So difendermi da solo.'' 
''Non mi preoccupo affatto. So di che pasta è fatto mio figlio!'' disse fiero. 
''Cos’è questa frase fatta, papà?''
   
 
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