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Autore: PawsOfFire    13/11/2017    2 recensioni
Russia, Gennaio 1943
Non è facile essere i migliori.
il Capitano Bastian Faust lo sa bene: diventare un asso del Tiger richiede un enorme sforzo fisico (e morale) soprattutto a centinaia di chilometri da casa, in inverno e circondato da nemici che vogliono la sua testa.
Una sciocchezza, per un capocarro immaginifico (e narcisista) come lui! ad aggravare la situazione già difficoltosa, però, saranno i suoi quattro sottoposti folli e lamentosi che metteranno sempre in discussione gli ordini, rendendo ogni sua fantastica tattica fallimentare...
Riuscirà il nostro eroe ad entrare nella storia?
[ In revisione ]
Genere: Commedia, Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Furia nera, stella rossa, orso bianco'
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~Il soldato Daniel Kemple del cinquantaduesimo reggimento Panzer…


Ero stato informato che il treno che avrebbe dovuto garantirgli la licenza era stato abbattuto a seguito di un attacco aereo.
Alcuni superstiti avevano fatto ritorno ai loro battaglioni di origine: considerati disertori, vennero perlopiù fucilati. Qualche fortunato, se così possiamo definirlo, venne integrato in reggimenti disciplinari a sminare bombe fino alla fine della guerra. Ben pochivennero  reintegrati ai rispettivi reparti.
Ma nessuno, fino a quel giorno, seppe dirmi qualcosa di più su Daniel che, di conseguenza, venne dichiarato come disperso.
Ritrovarono invece i suoi effetti personali, che fecero riavere per qualche assurdo motivo a me.

 

“Era il suo superiore, sbrighi lei questa faccenda” queste le testuali parole di  un furiere mentre mi sbatteva tra le mani un malloppo bruciacchiato e sporco dal valore reliquiario.
Così, nella mia tenda, circondato da pagine di Signal, mi apprestai a fare una delle cose più fredde e false della vita dura di un Capitano.
La lettera alla famiglia.

...disperso nel 10 novembre 1943 a seguito di un attacco aereo ad un convoglio ferroviario.
Che il suo sacrificio non sia vano.
Per il Fuhrer e per la Patria
Heil Hitler!”

Una squallidità allucinante, devo ammettere. Queste cose mi fanno sembrare uno stronzo insensibile. In realtà, sarò sincero: sono mortificato.
Anche gli altri sembrano piuttosto affranti. Sappiamo bene quante poche possibilità di sopravvivenza potesse avere un uomo, da solo, nella fredda campagna dell’est.
Solo Klaus ne è all’oscuro. Siamo con lui, in questa bettola ospedaliera, accampati fuori come cani in attesa di rifornimenti che sembrano non arrivare.
Non abbiamo nulla per scaldarci, se non stringerci l’uno accanto all’altro nella mia tenda ed osservare, al chiuso, la flebile fiammella della sigaretta di Tom ondeggiare rossastra fino a spegnersi, inghiottita dalla sua brama di fumo.
La stoffa grigiastra del nostro riparo ondeggiava appena, gonfiandosi di vento gelido, minacciando di spegnere il nostro lumino.
“Hai finito?” chiese Tom, spegnendo il mozzicone nel posacenere annerito dall’uso. Osservammo il fumo alzarsi con vago interesse, fino a dissolversi nel nulla.
“Oh, si” risposi, nascondendo la lettera tra le pagine di un quaderno, al sicuro.
“Vuoi scrivere qualcosa alla sua famiglia?”
La sua fronte si aggrottò pensierosa mentre si infilava l’ennesima e sequenziale sigaretta in bocca.
“Dì loro che avevano un figlio coglione che si infilava le scarpe al contrario...”
“Raffinato”

Rise a labbra strette il sergente, abbassando lo sguardo.
“Non pensavo sarebbe finita così” ammisi, rigirandomi la carta tra le dita.
“Non avrei dovuto dargli quella licenza premio. Oltretutto era anche immeritata”
“La smetta di dire stronzate, Capitano. Per quello che ne sappiamo adesso potrebbe essere in uno squallido scantinato a Mosca a farselo succhiare da quattro baldracche russe...”

“Chi? Quel ragazzetto fissato con i dogmi di stato? Stiamo parlando della stessa persona, Weisz?”
 Ne dubitavo fortemente ma, sotto sotto, speravo fosse veramente così.
Ed invece, qualche giorno più tardi, ancora prima di spedire la cartolina, il colonnello, nel suo ufficio riscaldato, mi sbatté in faccia la medaglietta che quel dannato idiota si era dimenticato di levare prima di disertare, ancora grottescamente segnata dalla sua fucilazione.

La notizia era giunta in una tarda mattina di un nebbioso dicembre.
Ricordo ancora i vetri sottili nell’ufficio del Colonnello intrisi di brina, ramificati come fiocchi di neve ingranditi a microscopio.
Una stanza vera, con i muri di cemento e la stufa di ghisa che scoppiettava allegramente con il suo ceppo secco. Ed io, ciondolante come un bambino svogliato, mi sforzavo di stare sull’attenti davanti al mio superiore che, noncurante della mia presenza, continuava a rigirare la rotellina del telefono nero. Portò la cornetta all’orecchio ma, dall’altro capo, non ebbe nessuna risposta.
Si rivolse finalmente a me con uno sbuffo.
Temo di doverla informare, Herr Faust, che tra i suoi uomini si nascondeva un traditore della patria.
Vede, Capitano, il soldato Daniel Kemple è stato ritrovato a circa seicento chilometri da qua, nella campagna polacca. Si nascondeva in una fattoria e non ha esitato ad aprire il fuoco contro i suoi stessi uomini”
Deglutii. Non. Sapevo. Come. Ribattere.
Ha ucciso alla vigliacca un valoroso tenente, un veterano, ferendone un secondo. Non hanno esitato a fucilarlo seduta stante, quei bravi ragazzi del trentaduesimo reggimento waffen-ss. La fedeltà prima di tutto, come nelle loro fibbie...”
Sapevo inconsciamente non stare dando una grande impressione al mio superiore. La mano destra tamburellava tremante sull’altra mentre, rigido, cercavo di mostrarmi impassibile, fallendo in partenza.
Al suo cenno di congedo, tornai mogio nella mia tenda, colto da un grande senso di desolazione.
Sembrava quasi un racconto fantastico. Non era possibile, non lui.
Non in quel modo. Disertare, certo, ma...
Ripresi la vecchia cartolina, oramai senza valore, decidendo di usarla per accendere il fuoco.
La osservai disintegrarsi lentamente, fino a ridursi in cenere.
E riscrissi, con aspre e crude parole di condanna, la lettera alla famiglia.

 

~


L’ospedale era un ex caserma militare abbandonata a sé stessa da molti anni. Quadrato e sovietico, presentava trame di mattoni in calcestruzzo irregolari ed erosi dal tempo. Le finestre, perlopiù spaccate, erano state aggiustate alla buona con assi di legno per impedire l’entrata di fastidiosi spifferi.
Di buono, però, l’edificio conservava ancora numerosi letti di tessuto infeltrito e tarmato, molto più di quanto un ferito potesse normalmente chiedere.
Aveva perfino un cortile chiuso da una cinta di mattoni ed un cancello perennemente aperto in una viavai di furgoncini carichi di materiale medico e soldati feriti.
Davanti all’entrata, come una statua marmorea (per il colore cadaverico della pelle, si intende) sfumacchiava un disperato dottor Biermann. Le occhiaie oramai erano diventate una parte del suo essere e scavavano profondi solchi intorno ai suoi occhi, facendolo apparire come una sorta di teschio vivente.
“Dottor Bierman...”
“Capitano Faust, che piacere averla ancora tra noi” la sua voce, pur ridotta ad un rauco suono d’oltretomba, era condita da una di stupore positivo.
Ero il suo miglior cliente, dopotutto.
“So cosa vuole chiedermi” l’uomo sospirò una vaporosa nuvola di fumo, scoprendo i denti grigi e corrosi dagli eccessi.
“Il suo uomo, Achen, lo trova al secondo piano, stanza a sinistra. Uno alla volta, per favore”
“Ineccepibile, Dottore”
In risposta l’uomo sorrise a denti stretti, lanciando a terra il mozzicone di sigaretta, schiacciandola. In una frazione di secondo, come un trucco di magia, ne portò una seconda alle labbra, già accesa.
“Se vivremo abbastanza a lungo mi piacerebbe bere con lei un bicchiere. Sa, ho un paio di notizie succulente che penso potrebbero interessarle”
In un unico tiro finì l’ennesima paglia. Se ne liberò in fretta, sfiatando fumo da ogni buco come un novello dragone.
Dal portone d’ingresso uscirono due infermiere. Due belle ragazze, oltretutto.
Senza timore chiamarono il vecchio Biermann per nome, il quale ricambiò con un lascivo saluto di mano, sorridendo viscidamente.
“Mi ha fatto piacere rivederla, Capitano. Temo di doverla abbandonare adesso. Come immagina il lavoro qua non finisce mai...”
“Certo, capisco benissimo, si figuri...”

Non finii di parlare che il medico era già sparito oltre l’atrio di ingresso, attorniato da giovani pulzelle che pendevano dalle sue labbra catramose e giudaiche, lasciandosi alle spalle un magnifico esemplare di tedesco ariano, più giovane e prestante, che tanto avrebbe potuto offrire a loro.
Maledissi quel bastardo della buon’anima di mio fratello Stefan che, ancora una volta, seppur postumo, aveva ragione.
Avrei dovuto studiare medicina, altrochè.


Raggiunsi Klaus nella sua piccola ed asfissiante stanzetta d’ospedale, condivisa con almeno altri venti uomini ammassati più o meno ovunque e senza criterio logico sui letti e per terra.
“Capitano!” i suo volto paffuto si illuminò alla mia vista. Qualche infermiera senza scrupoli doveva avergli rasato i baffoni per qualche assurda ragione. Così sembrava avere la faccia ancora più rossa e paciona ed ebbi qualche perplessità prima di ricambiare il saluto. Non sembrava nemmeno lui.
La fasciatura alla testa era di secondaria importanza rispetto a...questo.
“Achen...i baffi...”
“Non dica niente, Capitano! Anni per farli crescere e poi arriva il primo medico fanatico che decide di levarmeli per qualche questione di igiene”
L’uomo sospirò, cercando una posizione più comoda nel suo lettino infeltrito.
“Devo presentarle una persona importante. Quest’uomo-” e mi indicò un uomo brizzolato, sulla cinquantina andante “E’ un veterano della Grande Guerra! Pensi, ha perfino conosciuto il Barone Rosso, in persona!”
“Davvero?”
“Ragazzino supponente, lei che dubita di me” Il vecchio mi squadrò dal suo lettino, cercando di alzarsi. Poi si ricordò di avere quattro arti fasciati e preferì mugolare di dolore, rinunciandovi.
“Quando tu nemmeno esistevi io facevo già grandi cose! Eravamo tutti acrobati del suo grande circo, tzè.”
Aveva chiaramente l’espressione di uno che mentiva pur di cercare di imprimere nella mia, a suo parere, giovane ed ineducata mente del sano nonnismo.
“Ah, davvero?”
Finsi dunque di assecondarlo, giocando a chi ce lo aveva più grosso. Posizionai per bene la mia carissima croce di ferro di seconda classe sul bavero, lisciandomi successivamente spalline, colletto e cappello. Funziona sempre.
“Certo! Io stavo a guardare ma facevo parte della sua squadriglia!”
“Ah, magnifico”
“Sai cosa conta per davvero, in guerra? Bisogna spaventare il nemico. Un nemico spaventato è un nemico morto! Se lo ricordi, la prossima volta che volerà!”
“Non sono un aviatore-”
“Un volo metaforico, intendevo!” sputacchiò il sedicente veterano, gorgogliando un grosso nodo di catarro, mirando ai miei piedi con precisione da cecchino.
Per fortuna sono dotato di una certa velocità di riflesso…
“Sempre più giovani e supponenti retaggi di fanteria! Ai miei tempi, quando la guerra era ancora ben fatta, ero un meccanico. Il migliore di tutti, si intende! Quando ebbi l’onere ed onore di dare una sistemata a quel portento di triplano riuscii ad incontrare anche il Barone che, povera anima, sembrava un po’ afflitto quel giorno. Sono stato tutto il tempo a pensare al fatto che per errore dovevo aver montato un pezzo al contrario e nessuno doveva essersene accorto e...”
Credo avessi abbastanza tempo da perdere per ascoltare il suo fastidioso ciarlare.
Forse perché passai il tempo a lucidare la croce di ferro tra indice e pollice, raschiandola dallo sporco fino a farla brillare.
“...E allora ho chiesto ad un Tommy che fine avesse fatto e mi sono beccato una pallottola nella gamba”
“Fantastico”
“Un cazzo, fantastico” Il vecchio ricacciò una palla di sputo oltre il mio piede, sogghignando. Penso lo trovasse molto divertente.
Dovevo battere in ritirata, a tutti i costi.
Lentamente, senza dare nell’occhio, arretrai di qualche passo, mantenendo il contatto visivo con il ciarlatano, un po’ come si fa con le bestie selvatiche particolarmente pericolose.
Accartocciai le mani in un indecifrabile segno di scusa mentre Klaus, in bilico tra il timore riverenziale e la confidenza familiare, boccheggiava a vuoto nel vano tentativo di fermare la mia fuga.
Abilmente, ancora una volta, gli feci cenno di silenzio, mimando con un abile gioco di mani la pena a cui sarebbe andato incontro se non avesse taciuto.
Così, appena il tacco dello stivale toccò lo stipite della porta, voltai rapidamente il passo per scomparire oltre la porta, inseguito dai ragli del vecchio del vecchio sempre più lontani, ancora intento a domandarsi se, a far collassare il Barone, fu la sua stramaledetta vite storta.

 

Su una cosa, però, il meccanico fanfarone aveva indubbiamente ragione.
Un nemico spaventato è un nemico morto!
Meditai su quella fare tutta la notte, nella mia tenda da ufficiale umile ma rispettato, osservando assonnato il telone verde gonfiarsi di spifferi gelidi.
Se avessi acceso il mio lume mi avrebbero scaraventato a calci fino a Mosca così, nella più tetra delle notti ucraine, dovetti accontentarmi di una mappa estremamente ben dettagliata della mia tattica, una strategia talmente sofisticata che perfino Herr Guderian avrebbe dovuto concedermi un doveroso applauso.

 

“...Faust, per favore”
Il Colonnello sembrava sul punto di piangere dalla rabbia. Mi meravigliavo del fatto che, nonostante sembrasse malapena tollerare la mia presenza, continuasse ad accettare qualsiasi mia richiesta di visita.
“Non posso farle arrivare un...Panzer...completamente verniciato di rosso. Sia obiettivo, per favore. Non faccia come...quel dannato pittore...”
Con i gomiti piantati come chiodi sul tavolo, l’uomo mi giudicava sprezzante oltre i suoi piccoli occhiali tondi ed io, comodamente in piedi in una falsa riverenza, mi godevo il tepore della stufa di ghisa che scoppiettava allegramente oltre le mie spalle.
“Mi ascolti, per favore. Si ricorda la manovra a tenaglia nella tenaglia? Ha funzionato, vero?”
“Abbiamo perso circa quindici chilometri, quel giorno...”
“Potevano essere venti, non crede? Se riusciamo a dotare la mia compagnia di carri colorati, dal rosso al verde, potremmo incutere al nemico una paura atavica fino a costringerlo alla resa!”
Fu silenzio.
Di assenso, indubbiamente.
La mano del colonnello, tremante, sfiorò l’asta degli occhiali, cercando di levarli cautamente per fermare il violento istinto di lanciarmeli addosso, suppongo.
“Faust, faccia le valigie. Lei ed i suoi uomini andrete in un campo di addestramento per l’uso di cacciacarri. Fingerò che sia strategicamente importante dotare le truppe di un efficace addestramento in vista dei nuovi Jagdpanther quando, semplicemente, desidererei vederla, scusi il francesismo, fuori dai maledetti coglioni per un paio di settimane.
Grazie”
Così, cautamente, arretrai con passo felino, facendo attenzione a non dargli le spalle.
“Ah. E si porti dietro Höfler. Non ne posso più di vedere le sue dannate oche appese al reticolato. Attirano lupi e quei fottuti orsi alti due metri.”

 Così mi congedò, in silenzio. Non osai proferire altre parole, dato che il Colonnello sembrava essere seriamente incazzato con il sottoscritto che, oltre ad essersi dimostrato un valoroso combattente, aveva dato prova di napoleonica abilità strategica.
Forse è questo lo scotto per entrare nella Storia.
 

 

Note:

In ritardo imperdonabile, ancora una volta. Diciamo che...ho avuto delle settimane piuttosto incasinate.
Spero di poter essere più puntuale con i prossimi aggiornamenti e vi ringrazio per l'infinita pazienza nel seguirmi nonotante i miei aggiornamenti ballerini.

 

   
 
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