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Autore: Tessie_chan    13/11/2017    2 recensioni
Amor tussique non celatur.
Questa sentenza fa sorridere e riflettere allo stesso tempo. L’amore non si può nascondere. Si può fingere in ogni modo di non provarlo, si possono trovare scuse, ma se si ama una persona sarà evidente in ogni gesto, in ogni sguardo. Al contrario, laddove amore non c'è, non lo si può fingere, la finzione non può andare oltre qualche bella parola, qualche fatua promessa. Amore non si può nascondere, e chi è amato lo capisce. Così è vero il contrario. Non si può tossire e negare di aver tossito, non si può amare e negarlo.
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- Vorresti insinuare che non mi trovi abbastanza attraente, ragazzina?
- Non è questo il punto, Trafalgar. Non potrei neanche volendo, visto che oggettivamente sei davvero molto attraente.
- Oh ti ringrazio, dolcezza!
- Non ringraziarmi. Il mio non era un complimento, ma una semplice constatazione empirica, che in ogni caso non cambia il risultato. E dolcezza sarà tua madre!
***
- Non posso tollerare di vederti con lui!
- Piantala Ace, non c’è niente tra me e Law.
- Ah, davvero? E quegli sguardi complici che vi lanciate in continuazione me li sono immaginati?
- Cosa dovrebbe essere questa, una scenata di gelosia?
- Sì, dannazione!
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ciurma di Barbabianca, Nuovo personaggio, Pirati Heart, Portuguese D. Ace, Trafalgar Law
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Triangolo
Capitoli:
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Amor tussique non celatur


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Capitolo Speciale


Giorni di ordinaria follia:Portgas D. Ace



Seconda Parte





Amore che mortifica l'amor proprio o non dura,
 o, se dura, è tremendo.
- Niccolò Tommaseo






Kate venne svegliata da una voce incalzante. - Sveglia!
Aprì lentamente gli occhi. Se li sentiva collosi, appiccicati. Qualcosa le faceva il solletico alla faccia. Erano capelli. Scattò istintivamente a sedere, e colpì con la testa qualcosa di duro.
- Ahi! Mi hai dato una testata! - Era una voce maschile. Ace. Il ragazzo accese la luce accanto al letto e guardò Kate risentito, massaggiandosi la fronte.
- Be', nessuno ti ha detto di chinarti su di me a quel modo. Mi hai spaventata a morte. -  Anche Kate si massaggiò la testa. C'era un punto che le faceva male, appena più in alto del sopracciglio. - E comunque cosa vuoi a quest’ora?
Ace alzò un sopracciglio – A quest’ora? Sono le undici e mezza del mattino!
- Sì, e io avevo chiesto di non essere disturbata! – replicò Kate seccata, rannicchiandosi di nuovo sotto le coperte dando le spalle al pirata – Sono stanca, ho bisogno di dormire…
- Perché, stanotte cos’hai fatto invece?
Kate torse parzialmente il busto per guardarlo di nuovo in faccia e gli scoccò un sorriso malizioso – La posizione del 69 con le infermiere. Per tutta la notte. È stato fantastico…forse un po’ scomodo, ma se decidi di incastrare cinque persone in una posizione del Kamasutra pensata solo per due non puoi pretendere che vada tutto liscio come l’olio…
Ace era diventato rosso fino alla punta delle orecchie – S-stai scherzando, vero?
- Ma certo che sto scherzando, baka! – rise Kate, divertita dalla smorfia di disappunto del ragazzo – No, la verità è che stanotte ho ospitato Bea-san nella mia cabina perché la sua la stanno ristrutturando, e visto che lei russa come un trattore stanotte non sono riuscita a chiudere occhio.
- Ah, ecco! – esclamò Ace senza sforzarsi di nascondere il sollievo. Kate rise ancora, e si lasciò cadere di nuovo con la testa sul cuscino – Ora posso tornare a dormire? Sono davvero stanca…
- No che non puoi! Ho bisogno di un favore, dei tuoi consigli!
Kate aprì un occhio, fissandolo sospettosa – Deciditi, hai bisogno di un favore o di consigli?
Ace, distolse lo sguardo, improvvisamente a disagio – Di entrambi.
Solo a quel punto Kate si decise a dedicagli la sua completa attenzione. La ragazza si tirò su a sedere, si strofinò gli occhi e lo guardò intrigata – Interessante. Ti sei ficcato in qualche guaio?
- No.
- Hai problemi di cuore da risolvere?
Ace arrossì di nuovo - No!
- Allora cosa c’è che non va? Sputa il rospo.
Ace distolse di nuovo lo sguardo. Ora sembrava davvero molto, molto a disagio – Ecco, io… speravo che tu potessi farmi un tatuaggio…sai, quello della ciurma.
Calò il silenzio
– Tutto qui? – chiese infine Kate, alzando un sopracciglio con aria scettica.
- No, non è tutto qui… – sospirò Ace – Ma direi che è un buon punto d’inizio. Allora? Mi darai una mano?
Kate incrociò le braccia al petto, sospettosa. Perché di punto in bianco il ragazzo era diventato così evasivo? Cosa stava bollendo in pentola?
- Va bene. – rispose infine la ragazza, tirando fuori le gambe dal letto. A quel punto ormai non sarebbe riuscita a chiudere occhio comunque, e inoltre troppo curiosa per ignorare quella strana richiesta d’aiuto. – Ma ti avverto, non ho mai fatto un tatuaggio a nessuno, prima d’ora.
Ace le sorrise – Sei un medico, no? Dubito che ci sia qualcuno con la mano più ferma della tua su questa nave.
Kate ricambiò il sorriso, nonostante la strana tensione che c’era nell’aria. Ace era bravo a farla sorridere, notò con un lieve senso di sorpresa. Quasi troppo bravo. — Dove andiamo? — gli chiese un po’ bruscamente. – È meglio in infermeria, o sul ponte dove c’è più luce?
Ace si strinse nelle spalle – Non so, decidi tu…
Kate ci pensò su un attimo, poi decise – È meglio fuori. Non mi va di stare in infermeria, mi manca l’aria là dentro.
I due ragazzi impiegarono più di mezz’ora per recuperare tutta l’attrezzatura necessaria. Kate spiegò al pirata con una certa costernazione che lì sulla nave non possedevano una macchinetta elettrica per i tatuaggi, ma che comunque la sua vecchia sensei le aveva insegnato i rudimenti del tebori, un’antica tecnica giapponese che avrebbe fatto al caso loro.
- Potrebbe essere un po’ doloroso, però. – lo avvertì – Sei sicuro di sentirtela?
- Ehi, ma per chi mi prendi?! – si inalberò Ace, gonfiando il petto – Potrei stare sotto i ferri per ore! Dai andiamo, vedrai se non riesco a resistere!
Kate sghignazzò, divertita dalla sua irruenza, e lo prese a braccetto. – Andiamo. Ti faccio vedere il mio posto preferito su questa nave.
Lo condusse all’estrema poppa della nave, nel punto dove il ponte si interrompeva e il cassero si innalzava. Era una zona della nave stranamente deserta, constatò Ace, come una specie di zona neutrale su un campo di battaglia. Senza fare caso alla sua espressione perplessa Kate puntò dritta verso il punto più lontano, proprio dove c’era la balaustra e lo specchio di poppa, e quando si fermò Ace si accorse che la ragazza l’aveva portato in un piccolo angolo dove era sistemato un tavolino basso di tek, una sdraio dello stesso materiale con un sottile materasso sopra, e un minuscolo armadietto con le ante di vetro che conteneva qualche libro e alcune pergamene.
- Accidenti. È tuo questo posto?
- Dire che è mio è po’ eccessivo… diciamo che è un posticino riservato solo a me. – spiegò Kate con un sorriso – Mi piace venire qui a riflettere. È tranquillo e silenzioso, e c’è una vista spettacolare.
Ace alzò un sopracciglio – Una vista spettacolare? Da qui?
Lei si strinse nelle spalle – Da qui si vede la scia che lascia la nave quando naviga. E in più si può vedere ciò che ci si è lasciati alle spalle. Dimmi, dove lo vorresti il tatuaggio?
- Su tutta la schiena. Ed è così importante? – chiese Ace, sempre più scettico. – Guardare cosa ci si è lasciati alle spalle, voglio dire.
- Ovviamente. Sono le esperienze passate quelle che ci permettono di comprendere al meglio la nostra natura, perché è da queste che essa viene plasmata. Comprendere noi stessi è un procedimento lungo e difficile, che raramente si riesce a portare a termine… però ritengo che guardare al passato possa essere molto utile. – concluse la ragazza - Su, stenditi a pancia in giù, così posso iniziare.
Ace si tolse la camicia e obbedì, un po’ stralunato dalle parole della ragazza. Il suo modo di ragionare non avrebbe mai smesso di spiazzarlo, e tantomeno l’avrebbe mai fatto la disarmante semplicità con cui parlava di argomenti così delicati, come se fossero verità assodate al pari di “Di inverno fa freddo” o “La Terra gira intorno al sole”.
- Scusa, e per quanto riguarda il destino di una persona?
Kate si fermò, e alzò lo sguardo verso di lui. Armata di un gigantesco batuffolo inumidito di antisettico, la ragazza aveva iniziato a disinfettare la schiena del ragazzo con la mano sinistra, mentre con la destra sfogliava le pagine di un libro che si era sistemata sulle ginocchia, e che raffigurava aghi e ciotole di colori, probabilmente con lo scopo di illustrare nel dettaglio il procedimento che la ragazza avrebbe dovuto seguire.
- Il destino? Cosa vuoi dire?
Ace distolse lo sguardo, nel tentativo di nascondere il proprio turbamento – Kate, ti è mai capitato… di sentirti prigioniera di una condizione che non hai scelto, ma che comunque ti paralizza e non ti lascia via d’uscita?
Kate non gli rispose subito. Lo guardò negli occhi per qualche istante, probabilmente alla ricerca delle parole giuste, o forse di qualcos’altro. Alla fine parlò, e il tono della sua voce era stranamente triste - Certo che mi è capitato. Io mi porto dietro il fardello della mia famiglia d’origine. Mi paralizza, e non so come liberarmene. È una benedizione e una maledizione allo stesso tempo, per me.
Ace si voltò di scatto a guardarla, incredulo – Dici sul serio?!
- Certo.
- E la tua famiglia…?
- Il clan O’Rourke, del Mare Occidentale. Lo hai mai sentito nominare?
Ace scosse la testa.
- Be’, è una famiglia molto potente, composta da sole donne, che esercita una grandissima influenza in quelle acque, e anche altrove. Sapevi che il Mare Occidentale è controllato da cinque famiglie mafiose?
Ace annuì, e chiese – E il clan O’Rourke…?
- È una di queste. La più potente, per la precisione.
– Perché dici che loro sono un fardello per te?
- Non sono loro ad esserlo, non proprio. È mia madre.
Ace tentò di tirarsi su, ma le mani di Kate lo fermarono – Raccontami. – disse allora il pirata.
- Un’altra volta. Ora devo farti il tatuaggio…
- Puoi fare entrambe le cose, no?
- Un’altra volta. – ripeté Kate, il tono improvvisamente duro – Devi ancora dirmi qual è il tuo problema, hai detto che volevi un consiglio…
- Te lo dirò, promesso. Ora però racconta.
- No.
Ace fece un verso frustrato – Perché non vuoi raccontarmi questa storia?
Kate gli lanciò un’occhiataccia – E tu perché ci tieni tanto a conoscerla?
- Voglio sapere di più su di te! – esclamò Ace – Perché mi tieni a distanza? Credevo fossimo amici, ormai.
- Lo siamo. Ma non vedo come il mio passato…
- L’hai detto tu, no? – la interruppe Ace – Il passato è utile per capire. E io voglio capirti.
Lei lo guardò da sotto in su, attraverso le ciglia. - È davvero necessario?
- Non lo so. Non sono sicuro che qualcuno ti capisca davvero, su questa nave.
- Be’… – sospirò Kate – Forse è meglio così. E in ogni caso, non è una cosa di cui amo parlare…
- Per favore. – la interruppe di nuovo Ace. Non disse nient’altro, lo ripeté soltanto – Per favore, Kate. Aiutami a capirti.
Kate lo fissò in silenzio per diversi istanti, come se stesse cercando di capire se poteva aprirsi tanto con lui o no. Ace ricambiò lo sguardo con tutta la fermezza di cui era capace, cercando di trasmetterle tutta la propria sincerità e il proprio coinvolgimento.
Era stato onesto con lei, sempre. Voleva conoscerla, voleva starle vicino, e voleva che lei desiderasse di fare altrettanto con lui. Ma Kate sembrava essere sempre così lontana, così irraggiungibile…
- Bene, come vuoi. – sospirò infine la ragazza. Ace alzò incredulo lo sguardo verso di lei, e la ragazza abbozzò un sorriso – Resta steso e immobile, così eviterò di sbagliare. Ascoltami e basta, così sarà più facile ignorare il dolore.
Ace annuì con decisione e sistemò la testa in mezzo alle braccia, mentre Kate prendeva in mano un grosso ago e lo immergeva in una ciotola di inchiostro viola.
- Non c’è poi così tanto da dire. – esordì Katherine nel momento in cui l’ago punse la schiena del ragazzo – Il clan O’Rourke ha origini antichissime, che risalgono ai Cento anni del Grande Vuoto. Il nostro inizio è un po’ lungo da raccontare, e francamente anche un po’ noioso se non ti piacciono i romanzi rosa, ma ti basti sapere che in quel periodo la capostipite della famiglia ottenne il potere di comunicare con i Re del Mare e di assoggettarli al proprio volere. – Kate spostò leggermente l’ago - Potere che poi hanno ereditato le sue figlie, le figlie delle sue figlie, e via dicendo.
Ace alzò la testa, allibito – Stai scherzando?!
- Affatto!
- E quindi tu sai… tipo, evocare i Re del Mare…?
- No, io no. Di solito questa nostra capacità non si manifesta prima dei ventun anni. Ma un giorno ci riuscirò di sicuro.
Ace deglutì a vuoto, non trovando niente da replicare. Era una verità tosta da digerire, ma Kate gliel’aveva buttata lì come se niente fosse. Forse per lei non significava davvero niente… o forse era arrivata a quel punto perché spinta da qualcosa, anche se Ace non riusciva ad immaginare che cosa.
- Sai, durante i primissimi decenni le donne del clan vivevano una vita assolutamente normale… – continuò Kate - Non potevano immaginare che il loro potere sarebbe stato la causa della loro rovina… ma lo impararono presto, eccome. Dimmi, cosa sai del Regno Antico?
- Niente! Nessuno ne sa niente, lo sai. Il Governo Mondiale si è dato molto da fare per cancellare ogni testimonianza di quegli anni e di quel regno.
- Certo, lo so. E infatti neanche io ne so nulla… se escludo la parte della storia in cui i governatori di quel regno cominciarono a darci la caccia, sperando di poterci usare come arma per vincere Grande Guerra.
- Che cosa?!
- È la verità. – rispose con calma Kate – Le donne del clan diventarono dei veri e proprio bersagli vivi. All’epoca non eravamo numerose come oggi, in fondo eravamo appena agli inizi, e fu proprio per questo che sulla testa di ognuna di quelle donne iniziò a pendere una taglia sempre più alta, da capogiro. Eravamo merce rara, di valore… e intere popolazioni, spinte dall’avidità, votarono la loro esistenza al dare la caccia a noi. – la ragazza si strinse nelle spalle - Immagino che non dovrei esserne scandalizzata, visto che sin dagli albori è stata l’avidità lo spirito guida della civiltà.
- E poi? Loro cosa fecero? – chiese Ace, affascinato.
- La peggior stupidaggine che avrebbero mai potuto fare. Cercarono la protezione dello schieramento nemico, quello che oggi è conosciuto come Governo Mondiale. – spiegò Kate mentre intingeva di nuovo l’ago nell’inchiostro. Apparentemente sembrava ancora calma, ma la mano le tremava leggermente – Per quei bastardi fu uno scherzo blandirle, spaventate e disperate com’erano. Promisero loro che se li avessero aiutati a vincere quella guerra sarebbero state libere di vivere in pace, e che nessuno avrebbe più tentato di approfittarsi del dono che avevano. Loro ci cascarono, e si batterono in prima linea per consegnare la vittoria all’alleanza dei venti regni, e guadagnarsi così la libertà. Alcune di loro caddero addirittura sul campo di battaglia pur di raggiungere lo scopo… ma riuscirono nell’impresa. Il Regno Antico cadde, e l’alleanza dei venti regni impose il proprio dominio sul mondo intero.
Ace ora la guardava comprensivo – Ma il Governo Mondiale non mantenne la promessa, vero? Non liberò mai le donne O’Rourke.
- No, infatti. – annuì Kate con tono amaro – Anzi, fece tutto il contrario. Le ridusse in schiavitù, e le minacciò di morte se avessero mai rivelato del loro coinvolgimento nella guerra. Per anni l’intero clan rimase sotto il giogo del Governo Mondiale, e le donne vennero trattare alla stregua di carne da macello, costrette ad utilizzare il proprio potere per soffocare le ribellioni contro il nuovo Governo che si susseguirono numerose in quegli anni, o peggio ancora per divertire i Nobili Mondiali…
Ace la ascoltava rapito, così preso dalla storia da non avvertire nemmeno il dolore dell’ago.
- Finché un giorno le cose cambiarono. In nostro aiuto vennero quelle che da sempre sono le nostre maggiori alleate: le Amazzoni.
Ace alzò la testa – Vuoi dire le Kuja? Sul serio?
- Oh sì. – annuì di nuovo Kate, sorridendo al pensiero delle guerriere che abitavano ad Amazon Lily – Aiutarono le donne O’Rourke a sfuggire dalle grinfie del Governo Mondiale, e le condussero ad Amazon Lily per prendersi cura di loro e rimetterle in sesto. Non è stato mai chiarito il motivo per cui decisero di aiutarci, ma io sospetto che si trattò di solidarietà femminile pura e semplice. – Kate sogghignò – Da quella volta siamo sempre state alleate, e per ringraziarle per la loro generosità da sempre inviamo regolarmente i Re del Mare a proteggere la loro isola, per tenerle al sicuro dal Governo Mondiale.
- Forte… - mormorò Ace, per poi chiedere entusiasta – E poi cosa accadde?
- Oh, il resto è storia. Una volta che furono in grado di viaggiare le O’Rourke lasciarono Amazon Lily con mille promesse di lealtà e amicizia, e si misero in viaggio per trovare un posto dove vivere. Lo trovarono a Cherry Blossom, un’isola del Mare Occidentale che da allora è da sempre la nostra terra natale, e il nostro rifugio… - Kate sospirò, scuotendo la testa – Oh, ma perché ti sto annoiando con queste storie? Sto decisamente divagando, mi avevi chiesto una cosa completamente diversa…
- No, no! – la rassicurò Ace – Mi ha fatto piacere ascoltarti. Non avevo idea che tu fossi…
- Una pluriricercata? – lo precedette Kate con un ghigno – Tecnicamente non lo sono ancora…almeno fino a quando non scopriranno la mia identità. – lei si strinse nelle spalle – Prima o poi dovrà succedere… non sono mai stata il tipo di persona che passa “inosservata”.
- Ci credo. – si lasciò scappare Ace con leggerezza. Nel rendersi conto di quello che aveva detto il ragazzo serrò le labbra con aria colpevole, ma Kate sembrò non farci caso.
- Ehm, allora… - farfugliò Ace con voce imbarazzata – Continui a raccontarmi questa storia o no?
Kate gli lanciò un’occhiata di sbieco – Ma tu non avevi qualcosa da dirmi?
- Sì, ma voglio sapere come va a finire! Andiamo, non puoi lasciarmi in sospeso così!
- Suvvia grand’uomo, guarda che puoi anche dirlo che vuoi che continui a parlare solo per distrarti dal dolore dell’ago! – ghignò Kate, premendo un po’ più forte sulla pelle del ragazzo.
- Ahi! – si lamentò Ace, per poi lanciarle un’occhiataccia – Sei proprio un’aguzzina, lo sai?
- Sì, lo so. – rispose Kate con un sorriso malefico – Allora, vuoi o no che mammina ti racconti il resto della storia? Magari se fai il bravo dopo potrei regalarti anche un lecca-lecca…
Ace la fulminò con lo sguardo, ma rispose – Continua.
Kate gli fece un sorrisetto e ricominciò a parlare – Dopo che il clan si fu stabilito a Cherry Blossom, per diversi secoli vivemmo nascoste nell’ombra, muovendoci costantemente in incognito e lasciando l’isola in meno possibile; le donne O’Rourke impararono l’arte della prudenza e dell’inganno, e ogni volta che lasciavano l’isola si muovevano sempre in assoluto segreto. Il più delle volte potevano vivere anche l’intera vita senza che nessuno al di fuori delle parenti scoprisse la loro vera identità… ma alcune volte poteva accadere che le cose precipitassero, e allora il Governo metteva una taglia di almeno cento milioni sulla testa della fuggitiva, a prescindere dall’età che aveva, o dalle sue capacità, o dalle azioni commesse. – Kate sollevò l’ago dalla pelle del ragazzo e ne prese in mano un altro pulito, che intinse in una ciotola di inchiostro bianco - Per il Governo noi siamo solo una fonte di guai, che però usata nel modo giusto può diventare un’enorme fonte di guadagno. È così, è sempre stato così, e sempre così sarà.
Ace la guardò dispiaciuto – Mi dispiace…
Kate gli fece un sorriso tranquillizzante – Oh, non preoccuparti. Questo non è mai stato un problema per me, e comunque negli ultimi anni le cose sono cambiate molto… e il merito, anche se mi secca molto ammetterlo, è di mia madre.
Ace la guardò confuso – Non capisco.
Kate sospirò – Te l’ho detto che ho un problema con mia madre, no?
- Sì, ma non mi hai detto perché…
- È una donna orribile. – dichiarò Kate con tono secco. Sembrava disgustata solo a nominarla, perfino i suoi movimenti si erano fatti più bruschi – È schifosamente egoista e insensibile, e per tutta la vita ha agito facendo solo i suoi dannati comodi. Non me ne frega niente di quello che pensa Barbabianca in merito, e nemmeno delle cose buone che ha fatto per la nostra famiglia. È una stronza senza cuore, e nemmeno Dio in persona potrebbe convincermi del contrario.
Kate si interruppe e abbassò lo sguardo, rendendosi conto in quel momento che per la rabbia aveva affondato l’ago nella carne di Ace almeno per tre centimetri, e che il ragazzo, a dispetto della smorfia di dolore che aveva stampata in faccia, la stava fissando con una certa apprensione.
- Scusa. – mormorò la ragazza dopo un istante, tirando fuori l’ago dalla pelle con tutta la delicatezza possibile - Non so davvero cosa mi sia preso.
- Non preoccuparti. – rispose in fretta Ace, la voce leggermente contratta per il dolore. Kate notò che la stava guardando in modo molto strano, nei suoi occhi c’era un misto di sorpresa e comprensione – Stai bene?
- Ti ho praticamente pugnalato con un ago grosso quanto una bacchetta per il cibo, e tu chiedi a me se sto bene?! – chiese scioccata Kate.
- Be’, sembri davvero sconvolta.
Kate lo guardò negli occhi per qualche istante, poi sospirò dispiaciuta – Mi dispiace. Te l’ho detto, non è un argomento di cui amo parlare…
- Be’, ormai però sei in ballo. – decretò Ace – E inoltre non ti fa bene tenerti dentro tutto questo rancore. Avanti, parla con me e sfogati, vedrai che dopo starai meglio…
Qualcosa di oscuro si agitò nel petto di Katherine, e prima ancora di avere il tempo di pensare a quello che stava facendo la ragazza in preda alla rabbia si lasciò scappare queste parole – Oh, tu dici che starò meglio?! Bel consiglio, davvero… allora perché tu non hai detto a nessuno di essere il figlio di Gol D. Roger?! Perché in fondo è questo il tuo problema, no?! Non posso credere che tu abbia avuto davvero il coraggio di spingermi a confidarmi con te quando tu non fai altro che raccontare bugie da quando sei arrivato…
Probabilmente Kate avrebbe continuato a parlare a sproposito se Ace non fosse balzato in piedi, sottraendosi al tocco delle sue mani e facendole cadere l’ago dalle mani, che finì a terra con un tintinnio assordante. Ora il ragazzo la stava fissando con gli occhi spalancati e brucianti di rabbia, i pugni stretti in una morsa ferrea, e le stava ringhiando contro con dipinta in faccia una smorfia spaventosa, come un animale che si prepara ad attaccare.
Solo quando guardò l’amico in faccia Kate si rese conto di quello che aveva detto. La ragazza spalancò gli occhi per l’orrore e si portò le mani alla bocca, affondando le unghie nelle guance in una sorta di auto-punizione – Ace, scusami, non volevo…
- Come diavolo hai fatto a saperlo?! – le urlò contro il ragazzo – Chi te lo ha detto?!
Kate trattenne il fiato, per la prima volta spaventata dal ragazzo – Ace, io…
- RISPONDIMI!
- Tu! Me l’hai detto tu! – rispose Kate terrorizzata, indietreggiando istintivamente.
Ace fece un passo avanti con aria minacciosa – Cosa diavolo vorresti dire?! Io non ti ho detto un bel niente!
- S-sì, invece. Non volontariamente, ma l’hai fatto. – balbettò Kate, raddrizzandosi lentamente per evitare di scatenare una reazione – Quando sei stato male la prima volta… avevi la febbre alta, e deliravi. Io ti sono rimasta accanto tutta la notte, per intervenire in caso di bisogno… e ti ho sentito mentre ti lamentavi. Dicevi di odiare tuo padre, che era un egoista senza principi, che aveva abbandonato te e tua madre, che non credevi di meritare di vivere a causa sua…
- Basta. – ringhiò Ace. Kate tacque mortificata, e lui disse – Zitta. Sta’ zitta, non dire più una parola.
Kate allungò una mano verso di lui – Ace…
- Non toccarmi. – sibilò Ace, allontanandosi da lei. Kate lasciò cadere la mano – Ace, io…
- Non devi dirlo a nessuno. – la minacciò il ragazzo – Mi hai sentito? Non devi dirlo a nessuno, mai. D’ora in poi voglio che tu mi stia alla larga, e che non mi rivolga più la parola.
Kate trattenne il fiato, incredula – Ace, perdonami, io non volevo...
Non le dette il tempo di parlare. Senza degnarla di uno sguardo il ragazzo si voltò e si allontanò, diretto a prua, mostrandole la schiena con il tatuaggio lasciato a metà. Non si voltò e non vide Katherine che lo seguiva disperata con lo sguardo, non vide la ragazza coprirsi una bocca con la mano per trattenere i singhiozzi…
E non la vide nemmeno quando alcuni istanti dopo allontanò le mani dal volto con aria sconcertata, gli occhi fissi sui polpastrelli umidi delle prime lacrime che avesse mai pianto in vita sua.

Dio, che cosa ho fatto?!


- Ace? – chiamò esitante Kate, bussando con delicatezza alla porta della sua cabina – Ace, sei qui?
Niente. Nessuna risposta. Kate si sforzò di mandar giù il groppo che aveva in gola e bussò di nuovo, stavolta con più decisione.
- Ace? – chiamò ancora Kate – Ace, sono venuta per scusarmi. So di essere stata inopportuna e ficcanaso… ma ti giuro che non volevo essere crudele. Dai, apri la porta ed esci, così ne parliamo.
Ancora niente. Kate sospirò scoraggiata. Possibile che Ace non fosse in cabina? Eppure Thatch le aveva assicurato che l’aveva visto entrarci mezz’ora prima, e che da allora non ne era più uscito…
Ostinandosi a non voler demordere, Kate si cavò lo stetoscopio di tasca, infilò gli auricolari nelle orecchie, e posò la campana sul buco della serratura, nel tentativo di captare qualche segnale di movimento. Non sentì assolutamente nulla, nemmeno il suo respiro… probabilmente lo stava trattenendo, constatò amareggiata la ragazza, per tentare di ingannarla e farla andare via.

Stavolta l’ho combinata davvero grossa… Si maledì Kate. È grottesco, meno di un’ora fa stavo inveendo contro mia madre, chiamandola stronza senza cuore…e poi ho detto quelle cose orribili, e allora sono diventata io la stronza senza cuore.

Kate strinse gli occhi, improvvisamente avevano iniziato di nuovo a bruciarle. Fece per togliere la campagna dalla serratura…
E si immobilizzò. Era stato flebile, ma l’aveva sentito chiaramente: il cigolio delle molle di un letto.

Allora è davvero là dentro.

Kate non sapeva che fare. Le scuse gliele aveva già fatte, ma a quanto pare ad Ace non erano sufficienti. Cosa poteva fare allora per farsi perdonare?

Forse dovrei provare a fargli capire perché l’argomento genitori mi tocca così tanto. Rifletté Kate. In fondo non ho avuto il tempo di dirgli niente, prima… forse, se capisse le mie ragioni, potrebbe anche decidere di dimenticare la mia cattiveria e perdonarmi.

Kate sospirò, e con il magone che le serrava la gola si lasciò scivolare contro lo stipite della porta fino a quando non arrivò a sedersi per terra. Rievocare quei ricordi per lei era come gettare del sale su una ferita aperta… ma se quello era davvero l’unico modo perché Ace dimenticasse ciò che aveva fatto, allora era pronta a farlo.

Se tempo fa qualcuno mi avesse detto che sarei arrivata a tanto pur di far pace con qualcuno, gli avrei offerto un ingaggio come cantastorie sulla nave.

- D’accordo, ho capito, non mi vuoi parlare. – sospirò Kate – Non importa, vorrà dire che parlerò io. In fondo ti avevo promesso il resto della storia, e tutto si può dire di me tranne che io non mantengo una promessa quando la faccio.
Fece una pausa, mettendosi in ascolto nella speranza di udire un rumore qualsiasi provenire dalla stanza. Non ottenne molto, solo un altro cigolio di molle, ma decise di farselo bastare comunque.
- Sai, mia madre ha sempre avuto un carattere particolare, sin da ragazza. Non che abbia avuto l’occasione di verificarlo personalmente, ma è quello che Barbabianca e la mia vecchia sensei mi hanno raccontato quand’ero piccola. – Kate prese a giocherellare con un pezzo di spago che sfuggiva dalla cucitura della maglia – Era una ragazza insofferente, ribelle, una vera testa calda, e non in senso buono. Per generazioni intere il clan aveva vissuto all’insegna della cautela e della pace, nascondendosi dal mondo intero per evitare inutili battaglie e spargimenti di sangue, memore degli eventi della Grande Guerra… ma lei non riusciva a rassegnarsi a quello stile di vita. Era ambiziosa, egoista e assetata di potere e gloria, e non tollerava l’idea di vivere da reclusa per tutta la vita a Cherry Blossom. Così a diciotto anni mollò tutto e se ne andò, sollevando le preoccupazioni di tutte le altre donne della famiglia, che conoscevano molto bene il suo modo di pensare e agire, e che temevano quindi non solo per lei, ma per il futuro dell’intero clan, e giustamente.
Divenne una piratessa. Era da sempre molto carismatica, e grazie a questa qualità riuscì ad unirsi ad una ciurma molto potente... della quale tra l’altro faceva parte anche nostro padre, di cui divenne grandissima amica.
Kate tacque, e un lieve sorriso le incurvò le labbra. Ora era più che sicura di aver sentito un chiaro cigolio del letto, probabilmente segno che Ace si era messo seduto o si era alzato.
- Ben presto venne riconosciuta come una delle più forti fra i pirati in circolazione all’epoca. – continuò – Il babbo le aveva insegnato a combattere, e questo, unito alla sua abilità di soggiogare i Re del Mare, aveva fatto di lei una guerriera eccezionale, pari quasi a quella dello stesso Barbabianca.
Ovviamente però c’era anche il rovescio della medaglia… che nel suo caso fu la fama di essere riconosciuta non solo come una delle più potenti, ma anche come una delle più spietate. Era una devastatrice brutale, e un’assassina ferocissima, che si accaniva in particolar modo contro chiunque fosse in qualche modo alleato o legato al Governo Mondiale. La chiamavano “La Mietitrice di Dei” perché è stata la pirata che ha ucciso più Nobili Mondiali nella storia. Non che io sia addolorata per la morte di quei mostri, è chiaro… ma lei, nel suo delirio di vendetta, quando mirava ad un nemico attaccava a testa bassa, e spesso e volentieri faceva massacro anche di civili, donne e bambini, e magari solo perché vivevano sulla stessa isola del suo obbiettivo.
Kate si interruppe, maledicendosi un’altra volta. Stava di nuovo divagando, accidenti a lei.
- Arrivò a trent’anni che era conosciuta praticamente in tutto il mondo. Il Governo aveva provato molte volte a catturarla o ad ucciderla, ma lei riusciva sempre a sfuggire, lasciandosi sempre dietro una scia di Marines morti. Giulio Cesare diceva “Se non puoi sconfiggere il tuo nemico, fattelo amico”. Loro presero alla lettera quella massima, e decisero di offrirle un posto nella Flotta dei Sette, per tirarla dalla loro parte. Ovviamente lei rifiutò, e non lo fece cordialmente. Il Governo Mondiale allora giurò che l’avrebbe eliminata a qualunque costo, e le scatenò contro l’intera Flotta dei Sette, e quasi tutti gli Ammiragli della Marina… e a quel punto lei non ebbe altra scelta che ritirarsi con la coda fra le gambe a Cherry Blossom, più umiliata e incattivita che mai.
Kate fece un’altra pausa, per prendere un po’ d’aria e farsi coraggio. Da quel momento in poi la storia cominciava a diventare davvero dolorosa, perché era allora che entrava in scena lei.
- Il viaggio fino a Cherry Blossom durò più di un anno. – ricominciò – E durante la traversata lei scoprì di aspettare me. Norma Jean un paio d’anni prima aveva preso con sé un amante, il suo nome era Memphis … chiaramente non lo amava, aveva iniziato una relazione con lui solo per divertimento, e fu per questo che quando scoprì di essere incinta di me si infuriò così tanto. Lei non voleva figli, e tantomeno voleva legarsi all’uomo che l’aveva messa in quella situazione. Mio padre era… voglio dire, mio padre è un uomo profondamente gentile e generoso, e amava sinceramente mia madre. Fu felicissimo quando lei gli comunicò la notizia, ma lei lo freddò annunciandogli che aveva intenzione di sbarazzarsi di me, e pretese il suo aiuto per riuscirci. Lui ovviamente si rifiutò, così lei lo scaricò  sulla prima isola che trovò, senza dirgli nemmeno una parola d’addio. Come se fosse stato spazzatura.
Kate si interruppe, con la gola che le bruciava. Conosceva quella storia da anni, era stata Kureha a raccontargliela, ma rievocarla era sempre e comunque una sofferenza per lei. Non aveva mai avuto stima per sua madre, ma la consapevolezza di essere stata indesiderata al punto da rischiare di non poter nascere continuava a sconvolgerla, anche a distanza di anni. Insomma, quale donna snaturata può provare così tanta indifferenza per il proprio figlio?
- Una volta che si fu liberata di Memphis… – riprese Kate a voce bassa – …Norma Jean cercò qualcun altro che potesse aiutarla ad abortire, ma il clan, che aveva saputo di quello che stava accadendo dai Re del Mare di cui Norma Jean si serviva, inviò alcune donne per fermarla, che l’avvertirono che se non avesse portato a termine la gravidanza sarebbe stata bandita da Cherry Blossom. A quel punto Norma Jean non ebbe altra scelta che obbedire: interruppe i suoi tentativi di aborto, e senza dare spiegazioni ordinò al suo equipaggio di fare rotta verso l’isola di Drum. Io nacqui sette mesi dopo, proprio quando la nave arrivò sull’isola. Mia madre non volle nemmeno vedermi, mi affidò immediatamente alle cure di una sua vecchia amica, la dottoressa Kureha, affinché mi crescesse al posto suo. Tutto ciò che le disse fu che il mio nome sarebbe stato O’Rourke D. Katherine, e che avrebbe dovuto fare tutto ciò che era in suo potere per evitare che qualcun altro scoprisse la mia identità... e così andò, per nove anni.
Kureha… non è mai stata una donna dal carattere facile, ma mi allevò con tutta la cura e l’affetto di cui era capace, e quando fui abbastanza grande da riuscire a leggere senza difficoltà iniziò ad istruirmi per fare di me un medico. Fu una vita relativamente felice quella che vissi lì, ma sin da quando ebbi tre anni fu chiaro quanto fossi precoce, e ben presto affrontai Kureha per chiederle spiegazioni sulla mia vera madre, e sul perché io non vivessi insieme a lei.
Kureha capì subito che già a tre anni ero troppo intelligente per meritare le bugie senza senso che di solito si rifilano ai bambini. A dispetto dell’amicizia che in gioventù l’aveva legata a mia madre, credo che Kureha non avesse mai approvato le scelte che Norma Jean aveva fatto, e perciò non se la sentì di ingannarmi nel vano tentativo di farmi illudere del fatto che a dispetto delle apparenze mia madre fosse una persona degna di stima. Così decise di raccontarmi la verità, e quando terminò il suo racconto mi assicurò che lei per me ci sarebbe stata sempre, e che era quella l’unica cosa che contava. Ma almeno su questo si sbagliava, perché una settimana dopo il mio nono compleanno, dopo anni di silenzio O’Rourke D. Norma Jean si fece rivedere.
Ho un ricordo piuttosto nebuloso di quel giorno. Era una giornata come tante altre, io stavo dando una mano a Kureha a riordinare le erbe mediche che avevamo raccolto insieme il giorno prima, quando sentimmo la porta di casa spalancarsi bruscamente. Andammo subito a vedere chi era, e la prima cosa che feci quando la vidi fu chiedermi chi fosse quella donna che mi assomigliava così tanto, e che in quel momento mi stava fissando con uno sguardo così freddo da farmi arrabbiare d’impulso. Poi collegai nella mia mente l’immagine di quell’intrusa a quella della donna che animava i racconti di Kureha, e a quel punto mi fu tutto dolorosamente chiaro.
Non andai ad abbracciarla. Mi sentivo istintivamente diffidente nei suoi confronti, e non era solo perché il ritratto che mi era stato fatto di lei era stato tutto tranne che lusinghiero. Quella donna mi ricordava in maniera impressionante un rettile, un intruso nella mia vita che doveva solamente sparire, e il più in fretta possibile.
Kureha sembrò altrettanto infastidita da quella visita. Provò a chiedere spiegazioni, ma mia madre la precedette, annunciando senza mezzi termini che mi avrebbe portato via con sé quella sera stessa, poiché le era necessario con una certa urgenza l’aiuto di un medico. Inutile dire che Kureha si oppose, ma Norma Jean liquidò le sue proteste con la solita indifferenza, rammentandole che nonostante tutto era ancora lei la mia vera madre, e che Kureha non poteva vantare alcun diritto su di me. Ovviamente mi opposi anch’io, ma quanto poteva contare il parere di una bambina di nove anni? Quella sera stessa venni strappata via da quella che consideravo la mia casa e imbarcata sulla nave di mia madre, senza aver avuto nemmeno la possibilità di impedirlo.
Anche in quell’occasione Norma Jean non mi degnò di una sola occhiata. Non mi importava, avevo già iniziato ad odiarla ferocemente, e il non vederla era quasi fonte di sollievo, per me. Venni invece affidata al vice capitano di quella nave, una giovane donna di nome O’Rourke D. Hatsumiyo. Era gentile, mi ricordo, e credo che si impietosì quando seppe del modo in cui mia madre mi aveva trattata. Mi chiese se c’era qualcosa che potesse fare per darmi un po’ di conforto, e allora io le chiesi di raccontarmi quello che era accaduto subito dopo la mia nascita. Lei mi accontentò, e così in quell’occasione venni a conoscenza del resto della storia.
Dopo il suo arrivo a Cherry Blossom, Norma Jean era stata aspramente rimproverata per la condotta violenta e sconsiderata che aveva tenuto negli ultimi anni, e soprattutto per la sua scelta di affidarmi alle cure di un’estranea. Norma Jean si sorbì quella ramanzina con aria apparentemente impassibile, ma nella sua mente stava già prendendo forma la sua rivincita, che sarebbe stata destinata a cambiare per sempre le sorti del clan. La Mietitrice di Dei aveva perso per sempre la possibilità di vivere la vita all’insegna dell’avventura che tanto aveva desiderato, e quindi per compensare questa perdita aveva deciso che, se proprio doveva vivere da reclusa, allora avrebbe avuto in cambio il potere. Norma Jean così giurò a sé stessa che non avrebbe avuto pace fino a quando non sarebbe diventata capo del clan, non importava cosa avrebbe dovuto fare per riuscirci.
Di solito il leader della famiglia veniva scelto dalle più anziane, ma c’era anche un altro sistema per arrivare al potere: sfidare la capo clan in carica in un duello all’ultimo sangue, ed uscirne vincitrice. Tuttavia era una strada che raramente una contendente sceglieva, poiché le donne O’Rourke era sempre state legate fra loro da un profondo sentimento di lealtà, simile a quello che su questa nave proviamo l’uno per l’altro, e mai nessuna di loro si sarebbe mai sognata di rivolgere le armi contro un’altra, nemmeno per arrivare ad assumere la guida del clan. Norma Jean però aveva sempre provato un forte astio nei confronti delle più anziane del clan, poiché vedeva in loro le responsabili di molti dei guai che aveva avuto nella vita, loro che con la loro prudenza aveva cercato di reprimere la sua natura vulcanica e impulsiva, e perciò non ebbe alcuno scrupolo a fare ciò che era necessario per raggiungere il proprio obbiettivo. In quel periodo in carica c’era una vecchia prozia di Norma Jean, che ormai aveva superato gli ottant’anni d’età, e che non aveva mai maneggiato nemmeno un coltello in vita sua se non per tagliare la carne a tavola. Per Norma Jean fu meno di uno scherzo ucciderla, e arrivare così ai vertici del clan. Il consiglio delle anziane per ovvie ragioni inizialmente non approvò, ma alla fine si decise di lasciarla comunque al posto che aveva appena ottenuto, se non altro perché effettivamente Norma Jean era una guerriera eccezionale, che avrebbe potuto proteggere l’isola da attacchi esterni, se mai un giorno si fosse reso necessario.
Ma Norma Jean non si accontentò di quello che aveva appena ottenuto. Non voleva essere a capo di una famiglia di donne deboli, voleva essere a capo di un esercito. Il clan O’Rourke da sempre si nascondeva per evitare la cattura o la morte, ma Norma Jean sognava un clan diverso. Tutte conoscevano la storia delle nostre origini, compresa Norma Jean, e tutte sapevano che, a dispetto dello stile di vita che avevano condotto negli ultimi secoli, nascondersi e accettare passivamente l’isolamento andava contro la nostra natura: le donne O’Rourke erano nate per essere libere, per combattere contro le avversità, e per portare con orgoglio il proprio nome. Norma Jean di questo era consapevole più di chiunque altro, e per questo scelse di dedicare la propria vita alla completa trasformazione del clan.
Iniziò così ad addestrare personalmente le sue parenti per creare una milizia potentissima, che potesse proteggere sia l’isola che lei stessa. Norma Jean infatti non agiva solo per riportare il clan alla gloria di cui aveva goduto la capostipite, ma agiva soprattutto pensando a sé stessa: anche se si era ritirata a Cherry Blossom mia madre era infatti ancora un obbiettivo della Flotta dei Sette, e se mai un giorno gli Shichibukai avessero deciso di attaccare l’isola pur di catturarla, allora Norma Jean avrebbe avuto un intero esercito a proteggerla. Ora capisci cosa intendevo quando dicevo che anche se ha fatto qualcosa di buono mia madre non merita alcun rispetto? Di solito si dice che il fine giustifica i mezzi, ma lei ha fatto l’esatto contrario: ha insegnato al clan come proteggersi e l’ha aiutato ad uscire dall’isolamento, ma non l’ha fatto per altruismo. L’ha fatto pensando a ciò che le conveniva di più, come ogni altra cosa che ha fatto in vita sua.
Gli ultimi nove anni per lei erano trascorsi così, tra allenamenti e giochi di potere. In tutto quel tempo lei non aveva mai pensato a me, neanche per un istante, o almeno non fino a quando non ha visto in me un’occasione di utilità.
A quel punto della storia ero piuttosto perplessa: perché all’improvviso a Cherry Blossom serviva il mio supporto medico? Lo chiesi ad Hatsumiyo, e lei mi spiegò che la questione aveva a che fare con le Amazzoni, e con una richiesta di aiuto che il clan aveva ricevuto da loro, e in particolare da Boa Hancock.
Devi sapere infatti che all'età di dodici anni quella che oggi è l’imperatrice di Amazon Lily era stata rapita dalla nave delle Piratesse Kuja, e poi venduta come schiava insieme con le due sorelle Sandersonia e Marigold ai Nobili Mondiali; per causa loro aveva sofferto orribili torture per quattro anni, fino al giorno in cui Fisher Tiger si era intrufolato a Marijoa e aveva liberato tutti gli schiavi, permettendo così alle tre sorelle di fuggire da quel luogo orribile.
Sembrava la fine dei loro guai, ma purtroppo i Nobili Mondiali non erano disposti a rinunciare a loro tanto facilmente, e così decisero di affidare il compito di riportarle indietro ad uno dei membri più potenti della Flotta dei Sette: Don Quijote Do Flamingo. Fu chiaro sin da subito che le Kuja non avevano speranze di farcela: Do Flamingo riuscì a raggiungerle prima alle Sabaody, e in quell’occasione le Kuja riuscirono a sfuggirgli solo per merito del Re Oscuro, di Gloriosa e di Shakky, e poi in seguito anche un su un isolotto su cui si erano rifugiate insieme a Gloriosa, troppo stremate dalla fatica e dalle privazioni per poter continuare a scappare. Sembrava essere la fine per loro…fino a quando all’orizzonte non comparve una nave. Erano le piratesse O’Rourke, che avevano risposto alla richiesta d’aiuto delle Kuja, e si erano precipitate lì per aiutarle. Norma Jean non aveva esitato un istante e si era lanciata subito contro Do Flamingo, mentre le altre piratesse approfittavano della distrazione dello Shichibukai per recuperare Hancock e le altre. Il duello tra Norma Jean e Do Flamingo fu terribile, così tanto che l’isola su cui si svolse venne completamente rasa al suolo; alla fine però le piratesse O’Rourke riuscirono a fuggire portando con loro le Amazzoni, anche se non prima che Norma Jean riuscisse a danneggiare gravemente la nave dei Pirati di Don Quijote, impedendo così a Do Flamingo di inseguirle. Ora le Amazzoni erano al sicuro ad Amazon Lily, ma le loro condizioni erano troppo gravi, ed era per questo che Norma Jean era venuta a cercarmi, nella speranza che con l’addestramento che avevo ricevuto a Drum io potessi salvare loro la vita.
Non voglio dilungarmi in dettagli sulla mia esperienza ad Amazon Lily. Fu un anno lungo, faticoso e umiliante, che richiese tutto il mio impegno e le mie conoscenze per poter salvare la vita delle Amazzoni, e tutta la mia pazienza per sopportare la presenza di mia madre nella mia vita. Norma Jean mi trattava alla stregua di una serva, dandomi ordini in continuazione e trattandomi con scherno e disprezzo; io facevo del mio meglio per ignorarla e non darle soddisfazione, ma nel mio cuore sentivo montare sempre di più la rabbia e il rancore. Le uniche consolazioni di cui potevo godere in quel periodo era l’amicizia con le Kuja, che mi mostravano costantemente affetto e gratitudine per il mio impegno nell’aiutarle, e la compagnia di Hatsumiyo, che per distogliermi dai miei problemi mi raccontava le antiche storie del clan e del loro nuovo stile di vita, che permetteva loro di essere finalmente libere di viaggiare per il mondo senza timore, e di rompere l’isolamento a cui per tanti anni erano state condannate. Mi faceva piacere sentire di quanto la loro nuova vita rendesse felici le donne O’Rourke, ma al contempo non riuscivo a liberarmi della convinzione che Norma Jean era un’egoista senza cuore, e che non c’era motivo di esserle grate per quanto aveva fatto, visto che l’aveva fatto solo per gratificare la propria vanità.
Alla fine le Amazzoni si rimisero completamente, e per quanto potesse dispiacermi lasciare l’isola dove avevo trovato tante amiche, io non avrei potuto essere più felice di così: Drum mi mancava terribilmente, e ancora di più mi mancava la dottoressa Kureha, e fremevo al pensiero che finalmente sarei potuta tornare a quella che consideravo la mia vera casa.
Ma Norma Jean non ci mise molto a distruggere le mie speranze: il giorno prima della partenza infatti mi comunicò senza mezzi termini che non avrei mai più rimesso piede a Drum, ma che sarei andata a vivere altrove, e che sarei stata affidata ad un’altra persona. Quando finì di parlare ero così fuori di me che senza pensarci mi lanciai verso di lei, senza sapere nemmeno cosa volevo fare. Lei non si scompose nemmeno, si limitò a spostarsi di lato e a fare un gesto noncurante con la mano, come se fossi stata un insetto da scacciare. Mi centrò in pieno, sulla tempia, e mi fece schiantare contro un gigantesco masso. L’ultima cosa che ricordo fu che rotolai sull’erba per un paio di metri, e che prima di chiudere gli occhi mi chiesi per quale motivo avessi improvvisamente iniziato a vedere rosso. Poi, il buio.
Mi svegliai un paio di giorni dopo. Ero confusa, dolorante e avevo una nausea terribile, complice anche la nave che dondolava sotto di me. Hatsumiyo era accanto a me, pallida e segnata in volto. Lei chiesi allarmata dove fossimo, e lei mi spiegò che eravamo in viaggio verso Foodvalten, dove ci aspettava l’uomo che da quel giorno sarebbe diventato il mio nuovo tutore. Con le lacrime agli occhi chiesi ad Hatsumiyo perché mia madre non voleva permettermi di tornare a Drum, e Hatsu in tutta risposta si cavò di tasca una lettera scritta con la grafia della dottoressa Kureha, che iniziò a leggere ad alta voce per me. Nella lettera, scritta come al solito senza troppi fronzoli, la dottoressa spiegava di come il sovrano dell’isola, Wapol, vedendomi lasciare l’isola con la celebre Mietitrice di Dei, e notando quindi anche la somiglianza che ci accomunava, non ci avesse messo molto a fare due più due e a capire come stavano realmente le cose. La mia identità quindi era ormai compromessa, e se mai fossi tornata a Drum Wapol non avrebbe esitato a consegnarmi al Governo Mondiale, cosa che avrebbe decretato automaticamente la mia condanna a morte. A quel punto non ebbi altra scelta che arrendermi, e con il cuore a pezzi aspettai la fine della traversata, pronta a conoscere il mio nuovo tutore. – Kate si interruppe per un istante e fece un sorriso che era dolce e amaro al tempo stesso – Immagino che tu possa immaginare chi era quell’uomo, e cosa sia accaduto in seguito. Penso ancora spesso a Drum e a Kureha-sensei, ma in fondo credo proprio di essere stata fortunata. Ho trovato una famiglia affettuosa che mi ha accolta e mi ha amata senza riserve, e alla fine è solo questo quello che conta, proprio come diceva Kureha. -
Kate smise finalmente di parlare, lasciandosi sfuggire un sospiro esausto. Ancora non riusciva a credere di aver vuotato il sacco in quel modo; nemmeno Thatch e Marco avevano mai saputo tutto del suo passato, e le sembrava ancora pazzesca la propria scelta di raccontare tutto proprio ad Ace, che tra tutte le persone che vivevano sulla nave era quello che conosceva di meno. Di colpo si sentiva svuotata e priva di forze, ma al tempo stesso si sentiva libera e leggera, come se il suo non fosse stato semplicemente un racconto, ma una catarsi lunga e dolorosa, che però l’aveva liberata di un peso non indifferente.
Kate si riscosse da quelle considerazioni filosofiche, presa alla sprovvista dai suoni che provenivano dalla camera di Ace. La ragazza non ci aveva fatto caso finché era stata impegnata a parlare e a raccontare, ma ora lo sentiva chiaramente: da dietro la porta chiusa si sentivano dei respiri corti e affannati, come se qualcuno stesse tentando di riprendere fiato, oppure…

Come se qualcuno si stesse sforzando di non piangere.

Kate si allontanò di scatto, orripilata. Che cosa aveva combinato?! Ascoltare quella storia aveva davvero sconvolto Ace fino a quel punto?! Kate si sentì la persona più meschina del mondo. Aveva sperato di riuscire a fargli capire che comprendeva cosa significava odiare il proprio genitore a dispetto dell’opinione che aveva il resto del mondo su di lui, e invece non aveva fatto altro che gettare sale sulle ferite del ragazzo.
Doveva andarsene. Doveva andarsene da lì prima di avere la possibilità di peggiorare ulteriormente le cose… ma non poteva andare via senza prima avergli detto un’ultima cosa.
- Mi dispiace se ascoltare questa storia ti ha turbato. – mormorò Kate, a voce così bassa che probabilmente Ace non l’avrebbe neanche sentita – Ti ho detto tutto questo solo perché volevo farti capire che… ti capisco, e che con me non devi fingere che vada tutto bene solo perché pensi che io non possa capire. Non so quale sia la tua, di storia, ma voglio solo che tu sappia che… se vuoi parlarne con qualcuno, su di me puoi contare. Dico davvero. – Kate si interruppe, e un sorriso triste le comparve sul volto – Forse, se io a mio tempo avessi avuto qualcuno che potesse capire come mi sentivo, e con cui avrei potuto parlare… be’, forse non sarei diventata così pestifera e velenosa.
E questo era quanto. Kate lasciò cadere le spalle, non c’era più niente che potesse fare. La ragazza iniziò ad allontanarsi lungo il corridoio, così stanca e provata da reggersi a malapena in piedi. Accidenti a lei, faceva più danni della tempesta. Era andata lì per scusarsi, e invece tutto quello che era riuscita a fare era rigirare il coltello nella piaga. Forse avrebbero dovuto metterla in quarantena.
- Vale anche per te, sai? – esclamò all’improvviso Kate dal fondo del corridoio senza pensarci, voltandosi di nuovo in direzione della porta. Non sapeva da dove le stessero venendo quelle parole, aveva solo l’urgente sensazione che fossero dannatamente importanti – Il fatto che ad essere importante è trovare qualcuno che ti accolga e che ti ami, intendo. Non puoi permettere al tuo passato o a quello di tuo padre di pregiudicare l’opinione che hai di te stesso, altrimenti non andrai mai da nessuna parte. Puoi farti anche tutti i complessi del mondo, ma è sempre la realtà quella che conta, e la verità è che non siamo soli. Abbiamo una famiglia, persone che ci sostengono e ci apprezzano per quelli che siamo, e che se solo sapessero cosa ci passa per la testa ci prenderebbero sicuramente a calci nel sedere, offesi dal fatto che osiamo dubitare di loro. E che ci capiscono anche, perché puoi metterla come vuoi, ma la verità è che tutti i pirati hanno un passato difficile alle spalle e dei fantasmi con cui fare i conti, altrimenti avrebbero fatto ben altro nella vita che diventare pirati. – affermò convinta Kate – Quindi d’ora in poi fammi il piacere di evitare di piagnucolare come un bambino per queste quisquilie, perché per come la vedo io l’unico problema che hai tu è il tuo continuare a negare che ormai sei parte integrante di questa famiglia. Reagisci, per l’amor del cielo! Sul serio, sarai un Re dei Pirati davvero patetico se non ti libererai di queste fisse strane.
Adesso aveva davvero detto tutto. Kate annuì tra sé e si voltò di nuovo per allontanarsi lungo il corridoio, ma sentì una mano calda prenderle il polso e obbligarla a voltarsi, cogliendola di sorpresa.
- Lo credi davvero? – le chiese Ace a bruciapelo. Non sembrava più arrabbiato, e nemmeno addolorato, sembrava solo scosso, e forse anche vagamente confortato – Credi davvero a tutto quello che hai detto?
Kate sgranò gli occhi, incapace di nascondere il sollievo e la felicità, e si impose di sorridergli con leggerezza – Stufetta a pedali, quand’è che imparerai che io sono sempre straconvinta di quello che dico?
- E quindi tu pensi che io… sbagli a pensare che qualcuno qui mi giudicherà quando sapranno chi è mio padre?
- Ma certo che sbagli! Stupido baka! Cosa vuoi che importi ai membri di questa famiglia di un uomo morto e sepolto?! – Kate si portò le mani ai fianchi e alzò un sopracciglio – Ma si può sapere perché la cosa ti preoccupa tanto?!
- Be’, ecco… - mormorò Ace, improvvisamente di nuovo evasivo – Sai, Barbabianca mi ha proposto di diventare il Comandante della Seconda Divisione, e così…
- CHE COSA?! – strillò incredula Kate, afferrandolo istintivamente per la collana – Stai dicendo sul serio?!
- Sì, ma…
- Ma cosa?! – strillò ancora Kate, che cominciava ad intuire cosa stesse passando per la testa del ragazzo, e di conseguenza stava già perdendo la pazienza – Non mi dirai che è questo il tuo problema! Non starai pensando di rifiutare solo perché non ti senti all’altezza per via del tuo passato, spero!
Il silenzio di Ace fu una risposta più che eloquente.
- Stupido scaldino! – esplose allora Katherine, dandogli un pugno in testa – Che non ti salti in mente di fare davvero una cosa così stupida! Guai a te se ci provi!
Ace spalancò gli occhi, sorpreso dall’irruenza della ragazza – Ma…
- Niente ma! Tu devi dire di sì! Hai capito?! Devi farlo!
- Ma Kate! Barbabianca non sa nulla di mio padre! Se sapesse, di sicuro non vorrebbe più che io…
- Ma smettila, testa di rapa che non sei altro! – lo interruppe Katherine, dandogli un altro pugno in testa – Ma cosa vuoi che importi a mio padre di Gol D. Roger? Ormai è Barbabianca tuo padre, e il resto non conta più un accidente, ficcatelo bene in quella testa!
Ace spalancò ancora di più gli occhi, profondamente colpito da quelle parole. Kate sembrava davvero molto convinta di quello che aveva detto… ed ora che conosceva la sua storia Ace poteva immaginare quanto potesse essere stato difficile a suo tempo per lei integrarsi in quell’equipaggio, lei che era sempre così orgogliosa e non accettava mai l’aiuto di nessuno. Eppure ce l’aveva fatta, si era integrata, e adesso non solo era un membro effettivo di quella famiglia, ma ne era diventata addirittura una delle colonne portanti.
A quel pensiero, per la prima volta in diciassette anni, Ace sentì nascere la speranza nascergli nel petto. Possibile che avesse davvero trovato, se non la risposta, quantomeno un’occasione per trovare una risposta alla domanda che tanto l’aveva assillato per tutta la vita?
Ace abbassò lo sguardo verso la ragazzina impetuosa e caparbia che gli stava di fronte, e sentì un’ondata di calore misto a gratitudine… mista a qualcos’altro invaderlo, e un sorriso spontaneo gli incurvò le labbra.
- Ti avverto, giuro che se non accetti quella proposta ti metterò a lavare le latrine per i prossimi dieci anni. – lo minacciò Katherine puntandogli un dito in faccia – Tanto se rifiuti l’offerta di papà sarai ancora un mio sottoposto, e allora rimpiangerai di aver lasciato andare questa occasione!
- Va bene, va bene! Andrò a parlare con Barbabianca… cioè, con papà, e gli racconterò tutto, e se dopo che avrà saputo la verità la sua offerta sarà ancora valida, allora l’accetterò.
Kate lanciò un gridolino felice e gli gettò con foga le braccia al collo – Evviva, è fantastico!
Ace rise dell’entusiasmo della ragazza e barcollò sotto il suo assalto, e le circondò istintivamente il busto con le braccia, stringendola forte a sé. La ragazza era piccola e fragile nel suo abbraccio, e molto più calda di quanto avrebbe immaginato. Qualcosa di strano di agitò nel petto di Ace, e improvvisamente il ragazzo desiderò ardentemente allontanarla da sé quanto sarebbe bastato per guardarla negli occhi e sfiorarle il volto. Magari anche baciarla…
Ace trasalì, sconvolto dai suoi stessi pensieri. Da dove gli venivano certe idee? Prima di avere il tempo di darsi una risposta Kate sciolse l’abbraccio e si allontanò, rivolgendogli un sorriso dolce e vagamente colpevole – Tutto questo significa che sono perdonata?
- Oh, non saprei… - finse di tentennare Ace – Se te la lascio passare così te la caveresti un po’ troppo a buon mercato…
Kate ridacchiò a quelle parole, ma i suoi occhi erano seri – Mi dispiace davvero per prima. Ho sempre avuto la brutta abitudine di parlare a sproposito, ma questa non è una scusa…
- Lascia stare, Kate. Ti perdono. – la interruppe Ace con un sorriso – Avevi ragione tu. Non avevo il diritto di farti pressione quando io per primo trovo difficile parlare dei miei problemi.
- Non pensiamoci più, ok? – propose Kate sorridendogli a propria volta, anche se con aria più tirata – Ora muoviti e vai da papà, o ti costringerò davvero a pulire le latrine per i prossimi dieci anni!
Detto questo gli voltò le spalle e si allontanò di gran fretta, neanche avesse avuto i Quattro Cavalieri dell’Apocalisse alle calcagna, lasciando un Ace molto perplesso solo nel corridoio. Ma se il ragazzo avesse potuto vederla in faccia in quel momento non avrebbe avuto alcuna ragione di essere perplesso, perché avrebbe notato il colorito paonazzo di Katherine, e non ci avrebbe messo molto a capire cosa avesse tanto imbarazzato tanto l’amica.
Spesso la gente non immagina nemmeno quanto i propri desideri possano essere simili a quelli delle persone che stanno loro vicino.

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Ma guardatelo. Pensò Katherine con una fitta acuta di irritazione. E io che temevo che gli fosse accaduto qualcosa.

La ragazza, appoggiandosi con la spalla allo stipite della porta, ripensò agli avvenimenti di un paio d’ore prima. Erano attraccati da un paio di giorni a Water Seven per fare rifornimento di provviste, e quella mattina Marco era sbarcato a terra con Thatch, Izou ed Ace per andare a farsi un giro. Tutto normale fino a quel momento, ma quando Marco era piombato sulla nave in preda all’agitazione annunciando che Ace era scomparso da un’istante all’altro mentre facevano un giro tra i negozi, allora sì che il panico si era diffuso per la nave! Non che qualcuno temesse che Ace non fosse in grado di badare a sé stesso, sia chiaro… no, non era un attacco da parte di Marine o di chicchessia che i pirati di Barbabianca temevano, bensì che il ragazzo finisse per annegare in uno dei millemila canali dell’isola per colpa dell’ennesimo attacco narcolettico!
Così si erano mobilitati per cercarlo. Oltre ovviamente a Marco, Izou e Thatch, Barbabianca aveva incaricato di perlustrare l’isola anche Teach, Fossa e Haruta. Katherine, manco a dirlo, ovviamente non era stata neanche presa in considerazione...e così, per protesta, approfittando di un momento di distrazione del padre, la dottoressa aveva deciso di filarsela alla chetichella, decisa a partecipare anche lei alla ricerca.
Tecnicamente non ho disubbidito, visto che nessuno mi ha vietato di scendere. E non vedo proprio cosa ci sia di male se scendo a terra da sola…ho sedici anni ormai, non mi serve la baby-sitter. Aveva considerato Katherine nella propria testa; e così, armata di una cartina topografica della città e del proprio istinto – più un paio di bisturi nascosti per sicurezza nella manica della camicia - si era messa alla ricerca del ragazzo, emozionata all’idea di poter fare qualcosa di diverso, per una volta.
Non aveva alcun motivo di preoccuparsi della propria sicurezza, aveva riflettuto: non aveva una taglia, si era tolta l’anello con il Jolly Roger di Barbabianca, non aveva strani tatuaggi che potessero tradire la sua vera identità, e non era conosciuta praticamente da nessuno, visto che quando i suoi fratelli andavano all’arrembaggio lei se ne stava sempre rintanata in infermeria a lavorare. Agli occhi del mondo quel giorno lei era una normalissima adolescente come le altre che faceva una passeggiata in giro per Water Seven, e quindi non c’era motivo di temere un attacco, da parte di nessuno.
Per prima cosa la ragazza aveva puntato dritto all’ospedale della città, per verificare se Ace fosse stato ricoverato lì in seguito ad un rischio di annegamento. Fortunatamente lì non l’aveva trovato, e così aveva iniziato a controllare ogni locanda di Water Seven che incontrava lungo la strada, tenendo nel frattempo d’occhio anche i canali e stando bene attenta ad evitare la zona in cui Marco aveva detto che Ace era scomparso, consapevole del fatto che in quel punto della città si sarebbero di certo concentrate le ricerche degli altri.
Seguendo quella strategia aveva girato a vuoto per più di ore, e dopo un po’ aveva cominciato seriamente a preoccuparsi… fino a quando non si era affacciata nella locanda in cui si trovava adesso, e aveva percepito tutta l’ansia che aveva provato trasformarsi prima in sollievo, poi in sconcerto, e infine in una profonda irritazione.
All’inizio non l’aveva visto neanche, tanto che era stata sul punto di girarsi e uscire dal locale, demoralizzata dall’ennesimo buco nell’acqua. Poi, proprio nel momento in cui si stava voltando in direzione dell’uscita, aveva notato con la coda dell’occhio un cappello arancione con due faccine, una triste e l'altra sorridente, e un’ondata di sollievo l’aveva invasa; poi però si era accorta anche del resto, e a quel punto non era riuscita ad impedirsi di sgranare gli occhi per lo stupore.
Ace era seduto ad un tavolo sul fondo del locale, ma Kate riusciva comunque a sentire molto chiaramente le sue risate.  Aveva diversi bicchieri e una bottiglia di rum sistemati davanti, e intorno a lui c’erano tre donne alte, formose e con fior di calze a rete che lo coccolavano e cercavano le sue attenzioni, ammiccandogli continuamente e strusciandosi contro di lui, neanche fosse stato un’asta da pole dance. Lui ovviamente non stava facendo nulla per fermarle, ma Kate non riusciva a capire se fosse perché il deficiente non avesse capito niente delle loro intenzioni, o perché era semplicemente un cascamorto inconsapevole, ma francamente era troppo incazzata per darsi la pena di stabilire quale ipotesi fosse quella giusta.
Che razza di idiota… e pensare che lei si era pure preoccupata per lui! Kate le aveva immaginate tutte mentre girovagava come un’anima in pena per Water Sever: Marines, Ammiragli, pirati rivali, contrabbandieri, terremoti, sgambetti, attacchi narcolettici, sbornia, soffocamento con il cibo, avvelenamenti, epidemie di antrace… e invece lui era stato lì per tutto il tempo, per tutto il fottuto tempo a bere e a fare da tiragraffi a quelle tre gatte morte! Kate digrignò i denti e attraversò il locale a grandi falcate, considerando nel frattempo l’idea di svuotare quella dannata bottiglia di rum in testa a tutti e quattro e di dare loro fuoco come avevano fatto le femministe negli anni sessanta con i propri reggiseni, e magari di approfittare del falò di pirata e smorfiose per arrostire qualche marshmallow.
- A-hem! – si schiarì la voce Kate quando fu abbastanza vicina – Finalmente ti ho trovato! Cominciavo a credere che fossi finito nell’iperspazio, a far compagnia ai personaggi di Star Wars.
Le tre donne al suo della sua voce si voltarono di scatto a guardarla, e dopo averla squadrata da capo a piedi la fissarono con un misto di derisione e disprezzo. Ace invece reagì con un secondo di ritardo, e quando si accorse che lei era lì che lo fissava furibonda le rivolse uno dei suoi sorrisi mozzafiato, senza ovviamente accorgersi dell’aura nefasta che Kate stava emanando. Voltandosi verso di lei qualche ciocca di capelli scuri gli era caduta davanti agli occhi dandogli un'aria imbambolata, pensò Kate poco gentilmente, come se qualcuno gli avesse tirato una bastonata alla nuca.
- Se disturbo torno più tardi... – cinguettò melliflua Kate, rivolgendo alle ragazze un sorriso amabile più falso dei soldi del Monopoli, che le ragazze ricambiarono con un sorriso altrettanto velenoso.
- Ma no, figurati! Sono contento di vederti, Kate. Cosa ci fai qui? – chiese Ace continuando a sorridere, completamente ignaro del massacro a livello mentale che si stava consumando sotto i suoi occhi – Pensavo fossi rimasta sulla nave con gli altri…
- Ero lì, infatti. Poi però Marco ha messo tutti in allarme perché temeva che tu fossi finito in qualche canale destinato a far compagnia ai pesci nelle reti dei pescatori, per cui papà ha mobilitato un po’ di gente per cercarti. – spiegò Kate. Non aveva ammesso che lei non era stata compresa nel gruppo, ma in fondo non era necessario che Ace lo sapesse. – Un vero peccato, quando scoprirà che ti ha involontariamente rovinato la festa ci rimarrà malissimo.
- Ah! – esclamò Ace, ignorando l’ultimo commento acido della dottoressa – Ma io avevo avvisato che mi sarei allontanato a fare un giro per conto mio! Ora che ci penso però Izou non deve avermi sentito, forse era troppo preso a tessere le lodi del fondoschiena di…
- Alt! – lo fermò Kate – Ti prego, non dirmelo! Non voglio saperlo. – Ace rise della sua espressione esasperata, e la ragazza sentì lo sdegno rimontarle nel petto.
- Be’, me ne posso anche andare ora che sono sicura del fatto che non hai fatto la fine delle acciughe in salamoia. – dichiarò Kate con tono pungente – Ti lascio in buona compagnia, allora… a più tardi!
Detto questo la ragazza si voltò con calma e si avviò verso l’uscita, la schiena rigida come un manico di scopa. Con la coda nell’occhio vide però che le tre mogli di Dracula la stavano salutando sorridendole con aria perfida e agitando la mano con un’alterigia degna di Elisabetta II del Regno Unito, e non riuscì a trattenersi. Roteò rapida su sé stessa e con un sorriso sulfureo si rivolse ad Ace – A proposito, se hai intenzioni di farti una di loro o tutte quante, ti converrebbe usare il preservativo. Dio solo sa quali razza di malattie circolano nel postribolo da cui sono fuggite!
A quelle parole Ace sgranò gli occhi, e le tre meretrici emisero un roco verso indignato e scattarono in piedi. Kate si limitò a fare loro un sorriso angelico e ricominciare la propria marcia verso l’uscita.
- Kate, aspetta un momento. Vengo con te.
Sentendosi chiamare Kate si fermò e si voltò di nuovo in direzione del tavolo, e vide che Ace si era alzato e stava camminando nella sua direzione, intralciato però dalle tre peripatetiche d’alto bordo.
- Non vorrai andar via così presto, Ace! – miagolò la prima con voce civettuola.
- Sì, perché non ti fermi ancora un po’? Potremmo… - supportò l’altra, ma Ace non la lasciò finire.
- Scusatemi signorine, ma adesso devo proprio andare. – le frena Ace con un sorriso gentile, inchinandosi galantemente per salutarle – Voglio accompagnare la mia amica, non credo sia sicuro farla tornare alla nostra nave da sola.
A quelle parole i loro visi si contrassero visibilmente, e le tre donne iniziarono a fumare di rabbia, disintegrando Kate con lo sguardo. La ragazza neanche se ne accorse, impegnata com’era a ringhiare contro il povero Ace – Razza di fanfarone, ma chi cazzo ti ha chiesto niente?! Rimani pure dove sei, io conosco benissimo la strada, non mi serve un cicisbeo che mi scorti fino a casa!
Detto questo gli voltò le spalle, con così tanta veemenza da colpirlo in faccia con i lunghi capelli, e corse fuori lasciandolo là come un palo, a bocca aperta nel vano tentativo di discolparsi.
Sul serio, quella di piantarlo in asso stava diventando davvero una pessima abitudine. Meno male che Kate non si girò di nuovo a guardarlo, sennò si sarebbe accorta che, superata la sorpresa iniziale, sul volto di Ace era comparso un sorriso a dir poco raggiante, dimostrazione che quel benedetto ragazzo tutto sommato aveva abbastanza sale in zucca da riuscire a capire una buona volta cosa passava per la testa di O’Rourke D. Katherine, e probabilmente si sarebbe sentita anche peggio.
Appena fuori dal locale Kate si infilò nel primo vicolo che trovò, così incazzata e fuori di sé da sentire lo stridio dei propri denti digrignati risuonarle nelle orecchie.

Ma tu guarda che razza di…

- Che scenata di gelosia magistrale, sorellina! – si complimentò con una risata maliziosa una voce femminile alle sue spalle – Sul serio, non avrei mai immaginato che tu potessi diventare così…melodrammatica!

…deficiente. Dannazione, solo lei ci mancava!

- Tappati quella boccaccia, Haruta!
- Se può consolarti credo che nessuna di quelle ragazze gli interessasse. – continuò Haruta imperterrita – Quelle erano alte, formose e svenevoli, a lui piacciono basse, acerbe e aggressive!
- E dovrebbe importarmi?! – ringhiò Kate, ignorando i velati insulti nascosti nelle parole dell’altra.
- So che è così, sorellina.
- Guai a te se dici a qualcuno quello che hai visto, Haruta. – sibilò Kate senza nemmeno sforzarsi di negare. Tanto con Haruta sarebbe stato inutile anche solo provarci, non le avrebbe creduto comunque. – Sul serio, guai a te se ti fai scappare una parola di questo con qualcuno.
In tutta risposta Haruta rise ancora più forte, e allora Kate la superò alzando esasperata le braccia al cielo, avviandosi verso la via del ritorno con le guance paonazze per la vergogna e il portamento impettito, nel tentativo alquanto vano di recuperare un po’ di dignità. Sicuramente Haruta avrebbe mantenuto il segreto, ma di certo questo non le avrebbe comunque impedito di prendersi gioco di lei fino alla fine dei suoi giorni.

Perché, perché, perché capitano tutte a me?!

🔥

Toc, toc.

Kate tirò su col naso e rantolò – Avandi!
La porta della cabina si aprì appena, e dallo spiraglio fece capolino la testa di Ace – Ehi. Allora, come ti senti oggi?
- G’è la domanda di rizerva?
- Capisco. Sei ancora in fin di vita. – constatò Ace aprendo un po’ di più la porta e facendo un passo dentro la stanza – Ma si può sapere come hai fatto a ridurti così?
Kate si strinse nel piumone nel tentativo di farsi passare la tremarella – Sdufetta, non è ghe solo berghè sono un doddore non posso ammalarbi angh’io…
- No, è ovvio, ma io volevo sapere come è successo!
- Bah, golba di guell’imbegille di Deach… l’aldro giorno ber vendigarsi di uno sgherzo ghe gli avevo faddo mi ha ghiuso in una gella frigorifera ber un guardo d’ora… non abbasdanza ber farmi grepare, ma g’è andado gomungue vigino, gome buoi vedere.
Ace soffocò una risata, e Kate gli lanciò uno sguardo truce – Oh sì, diverdidi bure…
- Scusa, hai ragione. Vuoi che lo sfidi a singolar tenzone? – scherzò Ace.
- Nah, lascia sdare. Guando sarò guarida mi ogguperò perzonalmende di dargli una lezione. – dichiarò Katherine affondando la testa nel cuscino. Ormai era da due giorni che stava a riposo nel proprio letto e prendeva le medicine, ma quella dannata influenza non accennava ancora ad andarsene. Tra sé e sé Kate augurò a Teach le più crudeli e sanguinarie pene dell’inferno.
Ace rise della voce minacciosa di Kate distorta dall’apnea del raffreddore, e si avvicinò al letto – Tieni, ti ho portato una tisana. Te la mandano Thatch e Beatrix, Bea ha detto di averci messo dentro anche un mucolitico per aprirti un po’ le vie respiratorie.
- Grazie. – rantolò Kate, facendo scivolare una mano fuori dal piumone per prendere la tazza che Ace le stava porgendo – Forse un langiafiamme sarebbe sdado biù indicado, ma vedrò di aggondendarmi.
Ace ridacchiò e le sistemò in mano la tazza – Fa piacere vedere che nemmeno la tosse o il raffreddore sono in grado di abbattere il tuo senso dell’umorismo.
- Nemmeno i marziani bodrebbero abbaddere il mio senso dell’umorismo! – affermò fieramente Kate portando la tazza alle labbra e bevendone il contenuto in un solo sorso, impaziente di godere dei suoi effetti curativi. Ace le dedicò uno dei suoi sorrisi mozzafiato, che Kate ricambiò, anche se un po’ imbarazzata. Sul serio, non riusciva a capire come potesse Ace starsene lì a guardarla come se niente fosse senza provare neanche la tentazione di scappare a gambe levate per l’orrore. Con gli occhi gonfi, febbricitante e con la faccia congestionata, in quei giorni Kate sembrava un bizzarro e terrificante incrocio tra un’aragosta, un rospo e una lumaca. Quella mattina era andata in bagno per sciacquarsi almeno la faccia, e il riflesso che le aveva restituito lo specchio era stato a dir poco inquietante. Sembrava quasi che l’avesse masticata e risputata un mastino senza denti!
- Stai tremando…
Kate si riscosse dai propri pensieri autolesionisti – Gosa?
- Ho detto, stai tremando!
Kate si strinse ancora di più nel piumone – Sì, sdo morendo di freddo… forse mi sda aumendando la febbre…
- Su, fammi un po’ di posto.
Kate si interruppe e lo fissò nervosamente – Ghe vorresdi fare?
- Riscaldarti, mi sembra ovvio…
Kate lo guardò scandalizzata – Ghe ti sei messo in desda, scaldino?!
- Ho detto che voglio…
- Ho sentito cosa hai detto! – esclamò Katherine, la voce finalmente migliorata grazie all’effetto del mucolitico – Ma sei pazzo se pensi che io possa lasciarti entrare nel mio letto!
Ace sospirò esasperato – Guardati, tremi sempre di più. Non fare la stupida, fammi un po’ di spazio.
E senza aspettare una risposta si tolse gli stivaletti con un calcio, scostò il piumone si infilò sotto le coperte insieme a lei. La ragazza emise un verso roco di protesta e tentò spingerlo via, ma quando le sue mani sfiorarono il petto nudo e tonico del ragazzo e il suo calore le si propagò in tutto in corpo le forze per lottare le vennero meno. Ace reagì immediatamente a quella tacita resa e le strinse le braccia intorno al corpo, premendosela con decisione al petto.
- Caspita, sei calda quasi quanto me, Kate. – si lamentò.
- Scusa… - sussurrò Kate affondando il viso nella sua spalla. Il calore che emanava il ragazzo era irresistibile, dava quasi alla testa.
- Cerca di rilassarti. – suggerì Ace accarezzandole delicatamente la schiena – Vedrai che presto ti sentirai meglio.
Kate sussultò nel sentire le mani del ragazzo toccarla in quel modo, e tentò istintivamente di allontanarsi, imbarazzata a morte – Non penso che…
- Oh dai, non fare la pudica! – la riprese esasperato Ace – Non hai motivo di preoccuparti, non è mia abitudine approfittare delle signorine ammalate.
- Ti attaccherò l’influenza… - gli fece notare Kate, tentando di salvarsi.
- Non ci pensare. Ora sta’ ferma e zitta. Sul serio, per una che dovrebbe avere mezzo piede nella fossa sei un po’ troppo vivace.
Kate gli lanciò un’occhiataccia, ma non trovò la forza di rispondergli a tono. Era davvero troppo stanca per pensare... stanca dopo essere rimasta sveglia così a lungo, e afflitta dalla mancanza di aria causata dall’apnea tipica del raffreddore. Il corpo le si rilassò lentamente e si fece inerte, l’imbarazzo un po’ alla volta dimenticato, anche se non del tutto.
- Forse dovresti cercare di dormire. – provò a suggerire Ace.

Sì, come no. Come se potessi dormire con una tale montagna di muscoli nel mio letto. Per non parlare del resto.

– Non credo che ci riuscirei.
- Ho un’idea! Ti racconto la storia della buonanotte. – propose Ace entusiasta – Se non ricordo male te ne dovevo una… ti va?
Kate lo guardò scettica – Tu vorresti raccontare una storia a me?
Ace la guardò perplesso – Certo, perché?
Un ghigno cattivo curvò le labbra della ragazza - Portgas, devo forse ricordarti che ogni volta che hai provato a raccontarmi di un arrembaggio, o anche solo di cosa avevi fatto il giorno prima, sei crollato addormentato sulla mia spalla prima ancora di avere il tempo di finire la storia? Una volta sei addirittura finito in mare, m’è toccato pure venirti a ripescare…
Ace arrossì – Oh, ma dai, non è successo così tante volte! Al massimo una o due…
Kate alzò un sopracciglio.
- O forse tre o quattro… - farfugliò Ace, indietreggiando istintivamente sotto il peso di quei cupi occhi verdi.
Kate alzò ancora di più il sopracciglio.
- Va bene, lo ammetto, è successo ogni volta che ci ho provato! Sei contenta?!
- Molto. – annuì Kate con un ghigno compiaciuto – Qualcuno doveva fartelo ammettere, dopotutto.
- Brava, e ora come la mettiamo? – chiese imbronciato Ace – Se non posso raccontarti una storia…
- Senti, te ne racconto una io. – sbuffò Kate – Ho notato che se ti racconto una storia te ne stai insolitamente zitto, e non puoi immaginare quanto io abbia bisogno di silenzio in questo momento.
- E va bene. – sbuffò a propria volta un immusonito Ace – Ma sei una vera guastafeste, sappilo.
Kate sogghignò e si mise più comoda, allontanandosi leggermente da Ace – Allora, c’era una volta, in un regno tanto lontano, una principessa…
Ace si voltò a guardarla allibito – Una principessa? Sul serio?!
- Certo! Zitto, e presta attenzione. – lo rimproverò Kate dandogli un buffetto in testa -  Dicevo, c’era una volta una principessa di nome Elisabeth che era pronta a sposare l'amato principe e vivere insieme a lui nel suo sfarzoso castello. Sembrava tutto perfetto, la principessa era innamorata e felice, quando ad un certo punto, proprio nel giorno delle loro nozze, arrivò un enorme drago che incenerì ogni cosa, compresi i vestiti della stessa Elisabeth, e rapì il principe Ronald. I sogni della principessa Elisabeth andarono così letteralmente in fumo, e dalle ceneri non rimase altro che un sacchetto di carta con cui la principessa si coprì...
- Il drago rapì lui e non lei? – la interruppe diffidente Ace.
- Proprio così! Ora stai zitto e lasciami continuare. – lo rimbecco di nuovo Katherine – Allora, dicevo… dalle ceneri del castello Elisabeth riuscì a recuperare solo un sacchetto di carta, e così, con quell'unico indumento indosso, la principessa decise di prendere in mano la situazione e di andare lei stessa all'inseguimento del drago.
Kate si interruppe, notando che Ace la stava fissando sempre meno convinto. La ragazza sogghignò, divertita da quella reazione, e continuò – Dopo molte ricerche Elisabeth raggiunse finalmente la porta della caverna dove il drago abitava. Alla fanciulla che bussava alla sua porta il drago però rispose dichiarandosi troppo indaffarato per darle retta, e le chiese di tornare più tardi per farsi sgranocchiare. Elisabeth, accorgendosi di quanto il drago fosse superbo e vanitoso, decise di giocare d’astuzia: solleticandone l’ego, lo provocò per spingerlo a mostrarle le abilità di cui tanto si faceva vanto. Il drago, incapace di resistere alla provocazione, cominciò a sputare fuoco su fuoco, fino a quando non fu così sfiancato dallo sforzo da stramazzare a terra esausto e senza forze. Così, una volta che il drago fu finalmente fuori combattimento, la principessa poté finalmente raggiungere il principe Ronald…ma questo si mostrò ancora più presuntuoso del drago! Invece di ringraziarla quel bamboccio viziato pensò bene di rimproverarla per l'aspetto poco presentabile che Elisabeth, sporca di cenere e fuliggine, puzzolente di fumo e vestita solo di carta, aveva. La principessa, allibita, capì dalle superficiali e sciocche osservazioni del principe di meritare di meglio di quel fatuo ed antipatico bellimbusto, e così gli dette così il benservito e fuggì felice verso il tramonto. Fine.
L’ultima parola uscì a fatica dalla bocca di Kate, impegnata com’era la ragazza a sghignazzare. Ace infatti, che aveva ascoltato la storia con aria sempre meno convinta, ora la stava fissando con stampata in faccia un’espressione così cupa che Kate non poté trattenersi e scoppiò a ridergli in faccia, rovinando in parte l’effetto di tutta quella sceneggiata.
- Mi stai prendendo in giro un’altra volta, vero? – chiese accigliato il ragazzo.
 - Oh sì, ci puoi giurare! – riuscì a farfugliare Kate tra un singhiozzo e l’altro – Oh, se tu potessi vedere la tua faccia in questo momento!
- Ottimo. Sono contento di vedere che, a dispetto del tempo che passa, certe cose non cambiano mai. – borbottò infastidito il ragazzo.
- Oh, sii buono! Sono malata, mi sento meglio che riesco a svagarmi!
Ace borbottò tra i denti qualcosa di sgradevole e si voltò dall’altra parte, ignorando le risate sempre più rumorose della ragazza. Nel suo petto si agitavano sollievo misto a delusione, poiché, per quanto fosse irritante farsi prendere continuamente in giro da quella peste, almeno quello scherzo era riuscito a spezzare l’eccitazione che l’aveva colpito dal momento in cui si era infilato in quel letto insieme a lei, e che fino a quel momento era riuscito a malapena a nascondere, consapevole che con ogni probabilità Kate non l’avrebbe affatto gradita.
E dire che fino a quel momento Ace non aveva mai neanche immaginato di potersi sentire fisicamente attratto da Kate: certo, era una ragazza carina e tutto il resto, niente da dire… ma era pur sempre Kate, cavoli! Si conoscevano ancora da poco, ma da allora non avevano mai fatto altro che litigare e picchiarsi, picchiarsi e litigare, sebbene in fondo fossero anche buoni amici. Perché avrebbe dovuto sentirsi attratto da una persona che ufficialmente a malapena sopportava, visto che non faceva altro che prendersi gioco di lui o aggredirlo e rimproverarlo per i motivi più strani?!
Eppure era così, realizzò Ace. Stranamente la cosa non lo sconvolse più tanto… fu un po’ come quando ti rendi conto di essere diventato maggiorenne: magari hai passato mesi e mesi ad aspettare l’arrivo di quel momento, e quando finalmente arriva, una volta passata l’euforia iniziale, ti senti un po’ strano, quasi perplesso, o deluso.
“E quindi? Doveva succedere qualcosa?”. No, che vuoi che debba succedere?! Non è che quando diventi maggiorenne ti spuntano due ali da arcangelo, o ti aumenta di botto il quoziente intellettivo. No, sei sempre tu, stupido. E in più adesso puoi finire dritto dritto in galera se combini qualche casino. Pensa che bello…
Sì, ammettiamolo, tutti quando siamo diventati maggiorenni ci siamo rimasti un pochino male. Chissà che ci aspettavamo…
Vabbè, torniamo a noi. Come dicevo, Ace non si era impressionato più di tanto, scoprendo quella verità. Diciamo che si era limitato a prendere atto di una cosa di cui, sotto sotto, era a conoscenza praticamente sin dal primo giorno. Decisamente lo avrebbe sconvolto di più, e per molto tempo a venire, ciò che sarebbe accaduto dopo.
Per un minuto buono non successe più niente. Ace non si voltò più, e Kate non aveva più parlato, tanto che il ragazzo credeva si fosse addormentata e stava per filarsela alla chetichella…
Ma come al solito Kate lo aveva prevenuto, spiazzandolo per l’ennesima volta. Era la cosa che le riusciva meglio, l’essere imprevedibile… Ace non sarebbe mai riuscito ad abituarcisi, lo sapeva.
All’improvviso il pirata si sentì abbracciare da dietro, con le mani della ragazza che gli sfioravano inconsapevolmente gli addominali, e le sue labbra vicino al suo orecchio.
- Piantala di ignorarmi, stufetta. Sai che è una cosa che non sopporto. – gli alitò Kate sul collo.
Ace sobbalzò, incredulo, mentre il battito cardiaco accelerava bruscamente, e il sangue cominciava a ribollirgli nelle vene, e di nuovo la sua eccitazione si faceva risentire, più sveglia e tesa che mai. 
Kate non lo abbracciava quasi mai. Non era tanto per freddezza, quanto più per orgoglio, ormai Ace lo aveva capito, sin da quando la ragazza gli aveva raccontato la storia di sua madre. Gli eventi del passato dovevano aver segnato Kate molto più di quanto la ragazza sarebbe stata disposta ad ammettere, e probabilmente in parte avevano compromesso anche la sua capacità di dare o ricevere affetto. Forse era per questo che spesso appariva tanto fredda, ma Ace non gliene avrebbe mai potuto fare una colpa, non dopo quello che lei gli aveva raccontato.
Eppure quell’abbraccio non sapeva di affetto, o di preoccupazione, o di qualsiasi altro sentimento innocente che si sarebbe potuto aspettare da Kate. Quell’abbraccio era così caldo, languido… così come la sua voce era suadente, sensuale…

Provocante.

Ace non sapeva se la ragazza lo stesse facendo apposta o se fosse stata la febbre a farla sragionare all’improvviso, ma in quel momento non aveva né la voglia né la concentrazione per ragionarci su. Gli sembrò invece naturale, giusto come respirare, voltarsi di nuovo verso di lei e premere le labbra contro le sue, assecondando quel desiderio inconscio che lo stava torturando da troppo tempo.
La ragazza trasalì contro di lui, ma non lo respinse, e quello fu il permesso che Ace aspettava. Il ragazzo assaggiò il dolce sapore della sua bocca, che sapeva di limone e mela, ed esplorò quella bocca così calda e invitante che tante volte aveva desiderato, non sentendosi però in diritto di farlo.
Inaspettatamente lei non solo non lo respinse come aveva temuto, ma addirittura lo ricambiò. Muovendosi con studiata e crudele lentezza, la ragazza lo esplorò a propria volta, baciandolo con una passione di cui Ace mai e poi mai l’avrebbe sospettata capace, saggiando la sua pelle sia con le labbra sia con le mani, e tracciando le linee dei muscoli del petto, tenendoselo il più vicino possibile. Ace si sentì quasi morire sotto quell’assalto spregiudicato, e le afferrò con decisione i fianchi, portandosi con il corpo sopra di lei.
- Katie… - sussurrò il ragazzo, la testa che gli girava per l’emozione. Si chinò per baciarla ancora… ma la coscienza lo abbandonò a tradimento per l’ennesima volta, e tutto intorno a lui diventò nero.


Non posso crederci. Ditemi che è uno scherzo. ­Pensò incredula Kate, portando le mani alla vita del ragazzo che le stava sdraiato sopra, e facendo forza per farlo rotolare al fianco libero del letto. Ace crollò a peso morto sul materasso senza fare alcun resistenza, respirando regolarmente e con un sorriso beato stampato in faccia.
Non era possibile! Quella stufetta a pedali si era addormentata sul più bello!
Kate immaginò che a quel punto avrebbe dovuto infuriarsi, che avrebbe dovuto buttarlo fuori dal proprio letto a calci… e invece le veniva soltanto da ridere, come succede quando guardi un cane che cerca di mordersi la coda, e che pur riuscirci ribalta sedie, tavoli e cuscini.

E meno male che non era sua abitudine approfittare delle signorine ammalate!

🔥

- Ehi sorellina, cosa ti prende negli ultimi giorni? Hai perso il tuo adorato cucciolo, per caso?
Katherine alzò infastidita gli occhi al cielo, e a malincuore interruppe il corso dei propri pensieri per voltarsi verso la sorella maggiore, senza però alzarsi dal lettino. Haruta se ne stava appollaiata alle sue spalle con le braccia appoggiate allo schienale del lettino in stile avvoltoio, e la stava guardando come una iena guarda un cadavere ancora caldo, con i denti scoperti in un sorriso da brividi e lo sguardo affamato, in questo caso di pettegolezzi.

Figuriamoci. Brontolò nella propria testa Katherine. Prima quella scena fuori dalla locanda, e ora questo. E poi dicono a me che sono una carogna.

-  Lasciami in pace, Haruta. Non è aria.
Haruta sbuffò - Vorrei capire perché quando cerco di indagare sui fatti tuoi mi rispondi sempre così!
- Già, chissà perché… - replicò annoiata Kate, rimettendosi comoda sul lettino e chiudendo gli occhi. Facendo così sperava di scoraggiare la determinazione della sorella e di mandarla via, ma non fu tanto fortunata.
- Oh dai, non puoi liquidarmi in questo modo, non stavolta! Non è leale… voglio sapere che sta succedendo! - protestò capricciosa Haruta, portandosi davanti a lei e mettendosi a sedere sul bordo del lettino.
Kate sospirò esasperata e aprì gli occhi – Perché, cosa c’è di così divertente stavolta?
- E lo chiedi anche? Sei qui in infermeria, tutta sola, languidamente sdraiata sul letto a fissare il vuoto in stile signora delle camelie, pensando a chissà cosa… dì la verità, stai aspettando che il nostro caro Pugno di Fuoco ritorni dalla missione e ti trascini in un'incontenibile spirale di lussuria e perdizione!
Kate richiuse gli occhi – Tu vaneggi, cara mia. A dispetto delle voci poco lusinghiere che circolano su questa nave, e con le quali sono sicura tu c’entri qualcosa, non c’è niente tra me ed Ace. E a questo proposito, sarai contenta di sapere che è per colpa tua se Thatch è in quello stato!
Haruta la guardò senza capire, e Kate in tutta risposta puntò il pollice verso il fondo della stanza. Haruta seguì con lo sguardo la direzione indicata dalla sorella, e dopo un attimo individuò il fratello sdraiato su un letto vicino ad una finestra. L’uomo era pallido e aveva gli occhi chiusi, ma soprattutto appariva alquanto sofferente, e ogni tanto emetteva un roco lamento straziante da malato terminale. No, forse somigliava più al rantolo di uno zombie.
- Oddio, ma che gli è successo?! – chiese spaventata Haruta, avvicinandoglisi in fretta.
- A quanto pare shock neurogeno, cioè gli è praticamente venuto un colpo quando stamattina Izou gli ha riferito che io e Ace avevamo fatto sesso, che io ero incinta di tre gemelli, e che lui in realtà è scappato per sfuggire ad un eventuale matrimonio riparatore con l’implicita approvazione di nostro padre, che a quanto pare mi ha destinata ad un convento di clausura, dove sarò condannata a ricamare centrini a punto croce per il resto della mia vita. - snocciolò Katherine con aria annoiata – O almeno questo è quello che mi ha detto lui quando gli ho chiesto cosa l’avesse sconvolto tanto. Andiamo, sul serio hai messo in giro queste voci così ridicole?
- Certo che no, ma per chi mi prendi? – saltò su indignata Haruta, ma il suo sguardo diceva altro.
- Per la pettegola che sei, cara sorella. – replicò lapidaria Kate, per poi voltarsi su un fianco – E ora lasciami in pace, devo riflettere.
- Ah sì? E su cosa? – chiese interessata Haruta – Allora ammetti che tu e Ace avete una storia!
- Io non ammetto proprio nulla, Haruta. E in ogni caso non è comunque una cosa di cui tu debba occuparti. – ribatté dura Kate, che ormai ne aveva le tasche piene di quell’interrogatorio. Certo, di norma riusciva a sopportare abbastanza tranquillamente il carattere invadente della sorella, ma c’erano momenti come quelli – che, per la cronaca, si stavano verificando un po’ troppo spesso negli ultimi tempi – in cui l’inquietudine costante che l’affliggeva da un paio d’anni a quella parte aumentava fino a renderla troppo impaziente e nervosa per permetterle mostrare una faccia da poker anche solo decente… e se ci si metteva anche Haruta con la sua dannata curiosità, su quella nave si rischiava un massacro. Haruta avrebbe fatto molto meglio a togliersi dai piedi, sul serio.
Haruta si imbronciò – Non vuoi proprio confessare, vero? Allora che dovrei pensare? Che le voci che girano sulla nave non sono poi così distanti dalla realtà?
Era troppo. Stringendo i pugni per lo sdegno Kate saltò giù dal lettino con un balzo e, senza troppi complimenti, iniziò a spingere la sorella fuori dalla porta. In quel momento aveva una gran voglia di far del male a qualcuno, e aveva paura di come sarebbe andata a finire se Haruta fosse rimasta davanti a lei. - Fuori dalle palle, Ruthie. Va' fuori dalle palle e lasciami in pace, ok?
La ragazza non attese la risposta della più grande; non appena Haruta fu oltre la soglia della stanza Kate le sbatté senza alcuna gentilezza la porta in faccia, e per sicurezza chiuse anche a chiave.

Dannata impicciona. Ma tu guarda cosa mi tocca sopportare.

Kate non ce la faceva più: erano da giorni che si macerava nell’incertezza e nell’ansia, e ormai aveva praticamente raggiunto il punto critico… se non si fosse data una calmata entro quella sera Ace avrebbe di certo capito tutto non appena sarebbe tornato, e allora sarebbe stata la fine.
Qual era il problema? Non lo immaginate? Era Ace il problema. O meglio, quello che Ace rappresentava. Quello che rappresentava per lei.
Erano passate quasi due settimane da quel giorno in camera sua, e Kate non riusciva ancora a credere che quel giorno Ace l’avesse baciata. Gli avvenimenti degli ultimi giorni le sembravano ancora un sogno… un sogno bellissimo, peccato che quel baka l’avesse interrotto in barbaro modo partendo in missione nemmeno una settimana dopo. Kate sapeva di non potergliene fare una colpa, era stato il padre a farlo andare, ma non poteva fare comunque a meno di sentirsi frustrata e sulle spine. Dannazione, quella dannata stufetta stava uccidendo quelli che avrebbero dovuto essere i giorni più romantici della sua vita…o almeno, questo era ciò che aveva pensato per la prima settimana; poi l’entusiasmo aveva iniziato a scemare, complice anche l’assenza di Ace, ma in compenso avevano cominciato ad emergere i dubbi, e poi a seguire il panico.
Quando quel giorno l’aveva abbracciato da dietro era stato come se si fosse dissociata da sé stessa, e quando gli aveva bisbigliato all’orecchio con quella voce così roca e voluttuosa era rimasta a dir poco sconcertata dalla propria audacia. Certo, lei era sempre stata piuttosto sfacciata, ma non avrebbe mai immaginato di poter diventare così tanto sfacciata! Si era sentita così diversa, così lontana dalla persona che era stata fino a quel giorno… ed era stato fantastico. Non riusciva ancora a capacitarsene, e non riusciva a credere che quello strano sentimento che tutti chiamavano amore, e che per lei si traduceva in un continuo svolazzare di farfalle nello stomaco misto a febbre, avesse messo radici dentro di lei e che fosse ricambiato. Perché Kate non aveva dubbi su questo, era sicura che Ace provasse le stesse cose che provava lei, se non in misura maggiore. Non sapeva come e perché ne era sicura, lo era e basta, e non le serviva altro.
I primi due giorni era trascorsi così, con lei che si aggirava per la nave a cavallo di una nuvoletta rosa con un sorriso ebete stampato in faccia, e una schiera di angioletti che le svolazzava intorno suonando le sue canzoni preferite in modalità “ripetizione continua”. Lei ed Ace non avevano parlato affatto di ciò che era accaduto in cabina, poiché entrambi troppo imbarazzati per avere il coraggio anche solo di pensarci quando l’altro era nei paraggi, ma alla fine non si era reso necessario, come aveva avuto modo di appurare Kate un paio di giorni dopo. Alla fine, dopo due giorni trascorsi ad evitarsi accuratamente, i due comandanti erano finiti a sbaciucchiarsi nascosti sulla coffa della nave, con lui che le sussurrava parole dolci nell’orecchio e la chiamava “Katie”, e lei che si stringeva a lui come se ne valesse della propria vita, cercando nel frattempo di non farsi venire un infarto per la felicità.
Ma lei non era mai stata il tipo che restava in balia delle emozioni troppo a lungo, e quella volta non fece eccezione: qualche giorno dopo quella “conferma” del fatto che erano stracotti l’una dell’altro, Ace purtroppo era stato costretto ad allontanarsi per andare a proteggere insieme ad altri compagni un’isola dominata da Barbabianca dall’incursione di alcuni pirati rivali. Ace se ne era andato a malincuore, e altrettanto a malincuore Kate l’aveva lasciato andare, e per un paio di giorni Kate era stata così depressa da arrivare addirittura a trascurare il lavoro – cosa che non accadeva da quando Thatch, dietro ordine del padre, per punizione le aveva negato i pancakes con lo zucchero per più di una settimana -. Dopo un paio di giorni Kate però era riuscita finalmente a riscuotersi dal suo stato di profondo scoramento, e aveva ricominciato a comportarsi come una persona normale, o quasi…  almeno fino a quando la sbronza d’amore non si era ufficialmente allentata, e allora in mezzo al turbinio frenetico di emozioni che l’avevano travolta negli ultimi giorni si era fatta largo a gomitate una serie di dubbi, più una quantità allarmante di panico.
Uno autore che adoro una volta ha scritto: Le donne, con rare eccezioni, sono più intelligenti degli uomini, o, perlomeno, più sincere con sé stesse rispetto a ciò che vogliono. Se lasci loro il tempo di pensare, non hai più scampo.
Parole sante, che si adattano perfettamente a questa situazione. A Kate infatti bastarono un paio di minuti perché la nuvoletta rosa su cui aveva viaggiato in quei giorni si bucasse e la facesse piombare con una sonora culata sul grigio pianeta Terra, ricordandole crudelmente cosa aveva desiderato con tutte le proprie forze fino a qualche giorno prima, e ciò che Ace aveva potuto rappresentare per lei se avesse continuato ad inseguire l’ambizione di diventare una potente pirata, un giorno o l’altro.

Un ostacolo.

Kate non riusciva a sopportare quella parola, non riusciva neanche a pensarla, al punto che nel momento stesso in cui le saltava in mente Kate scuoteva convulsamente la testa e si affondava le unghie nella carne per autopunirsi. Ace non era un ostacolo, era il suo ragazzo, e lei lo amava! Lo amava tantissimo, e non poteva tollerare l’eventualità di arrivare a considerarlo d’intralcio per il proprio futuro. Ace l’avrebbe sostenuta di sicuro quando lei gliene avrebbe parlato! Lui non era come gli altri, non avrebbe cercato di soffocarla, non avrebbe tentato di proteggerla a tutti i costi…

Davvero? Sei proprio sicura?

No, non lo era affatto, e ogni volta che la sua ragione la poneva davanti a quella verità Kate si sentiva impazzire sempre di più. Ormai si sentiva sull’orlo di un precipizio, passava il tempo a maledire sé stessa e la sua dannata natura ferocemente razionale che le impediva di vivere l’attimo e di ignorare la realtà, faceva considerazioni contrastanti… c’erano momenti in cui era assolutamente convinta che Ace sarebbe stato al suo fianco e che non aveva motivo di preoccuparsi, momenti in cui Kate giurava a sé stessa che di quelle dannate ambizioni non gliene poteva importare più niente, che era Ace l’unica cosa che contava e che voleva…
E altri in cui si rendeva conto che tutte quelle stupide teorie erano inutili e senza senso, e che era perfettamente inutile cercare di autoconvincersi e torturarsi in quel modo: lei era quello che era, una donna O’Rourke e, malgrado tutto, una figlia di sua madre, e per questo era del tutto incapace di mettere da parte l’ambizione. Nemmeno per la famiglia, e nemmeno per amore.

No! Non può essere, mi rifiuto di crederlo!

Tutto inutile. Non poteva rinnegare ciò che era, l’amore nella vita reale non era come nelle favole, non possedeva un potere così grande. Quel sentimento così intenso poteva scuoterla, poteva confonderla, poteva portarla anche alla pazzia…ma non poteva cambiare la sua indole, né ora né mai.

Non c’è motivo di farsi prendere dal panico. Continuava a ripetersi Kate. Non devo darmi per vinta, devo avere fiducia in Ace! Sono certa che mi aiuterà, che sarà dalla mia parte…

Sì, certo, aveva perfettamente senso…ma se il cuore poteva lasciarsi convincere facilmente da quelle parole, la testa non altrettanto disposta a collaborare.
- Maledizione! – esplose fuori di sé Katherine, lanciandosi fuori dall’infermeria – rischiando anche di sfondare la porta chiusa a chiave nella foga di uscire – e dirigendosi a passo di marcia verso la cambusa. Se la sua mente era davvero decisa a torturarla, allora avrebbe fatto in modo di non essere più in grado di usarla per un bel po’.


- Insomma, è mai possibile che nessuno abbia visto Katherine?! – chiese irritato Ace – Questa è una dannata nave, deve pur essere da qualche parte!
- Mi spiace Ace-sama, ma io non ho proprio idea di dove sia. – si scusò Beatrix – È tutto il giorno che non si vede in infermeria, e nemmeno le altre sanno niente. L’ho cercata anch’io per tutto il pomeriggio, ma non sono riuscita a trovarla da nessuna parte.
Ace emise un gemito di frustrazione e si allontanò lungo il corridoio senza nemmeno ringraziare l’infermiera, così inquieto da dimenticare per una volta le buone maniere a cui di solito teneva così tanto. Aveva chiesto praticamente a tutti su quella nave, ma nessuno sembrava aver visto Katherine dall’ora di pranzo. Adesso era ora di cena e lui era appena tornato, e sarebbe dovuto andare dal padre a fare rapporto, però…

Voglio vederla. Voglio vederla subito.

La cercò in tutta la nave, anche negli angoli più impensabili. Gli era mancata così tanto… non riusciva ad immaginare di aspettare, voleva abbracciarla, voleva baciarla, voleva dirle che l’amava. Non aveva avuto ancora occasione di farlo, e ora quelle parole gli stavano serrando la gola, togliendogli il respiro.
- Aceeeeee…
Ace si riscosse dai propri pensieri da innamorato e si guardò intorno, cercando di capire chi l’avesse chiamato. Quella voce era distante e stranamente cantilenante…
- Aceee, sooonooo quiiiii…
Ace alzò confuso lo sguardo verso l’alto, e ciò che vide gli fece balzare il cuore in gola.
Kate era in piedi sul pennone della nave maestra, a più di cinquanta metri di altezza, e vi camminava sopra mettendo un piede davanti all’altro, come un equilibrista. Aveva le braccia sollevate per tenersi in equilibrio, ma oscillava pericolosamente ad ogni passo, rischiando di sfracellarsi sul ponte.
- Kate! – gridò Ace in preda al panico – Cosa diavolo stai facendo?!
- Non sono bravissima, Ace? – chiese euforica Kate, ondeggiando in avanti. Stava per perdere l’equilibrio, stava per morire, e nemmeno se ne rendeva conto.
- KATE! – urlò Ace, lanciandosi verso di lei. Il piede della ragazza perse lentamente l’appoggio sul pennone, e Kate iniziò a cadere…ma la caduta si bloccò a metà strada quando Ace la afferrò al volo, atterrando leggero sul ponte e stringendosela tra le braccia con tale forza da farle quasi male.
- Kate! Kate, va tutto bene? – chiese Ace atterrito, scostandole i capelli dal volto.
Lei non gli rispose, non sembrava essersi nemmeno spaventata; al contrario, lo abbracciava continuando a ridere con tono stridulo, le guance rubizze e gli occhi scintillanti.
- Sei ubriaca… - constatò ad alta voce Ace, troppo sconvolto perfino per arrabbiarsi.
- Oooh, ma certo che sono ubriaca! – rise acuta Kate – Oooh Ace, come sono contenta di vederti! Non vuoi darmi nemmeno un bacio?
Dopo un attimo Ace si chinò a baciarla, rendendosi a malapena conto di quello che stava facendo.
- Grazie! Ooooh Ace, non sai quanto mi sei mancato…
- Si può sapere cosa ti è saltato in mente di fare?! – esplose finalmente Ace – Potevi morire!
Ancora una volta Kate non rispose, si limitò a ridere sguaiatamente. Ace strinse i denti furibondo, ma disse – D’accordo. Ora ti porto a letto, ma domani dovremo parlare di questa storia!
- Ooooh, mi porti a letto? Non si sembra di correre un po’ troppo!? – chiese Kate senza smettere di ridere, e Ace arrossì a quella chiara allusione.
- Sì, hai ragione. – borbottò il ragazzo. Era inutile discutere con lei in quel momento, per cui tanto valeva assecondarla. – Ora andiamo, però.
- Ooooh, e dove andiamo? A Raftel? Sì, andiamo a Raftel, andiamo a trovare l’One Piece!
Ace la ignorò, limitandosi a trascinarla verso la sua cabina. Non fu un’impresa facile. Kate continuava a ridere e a divincolarsi, urlando cose senza senso, tentando – per fortuna inutilmente - di evocare mostri marini e stampandogli di tanto in tanto baci sulla guancia, sulle spalle, sulla gola e sulla bocca. Ace avrebbe voluto restituire quei baci – fu davvero arduo per lui resistere a quell’assalto -, ma non gli piaceva l’idea di approfittarsi di lei quand’era in quelle condizioni, specie ora che stavano ufficialmente insieme – anche se erano loro due a saperlo -. Senza contare il fatto che le cose avrebbero anche potuto spingersi troppo oltre, soprattutto se si considerava l’attuale mancanza di lucidità della ragazza.
- Katie, siamo arrivati… – mugugnò Ace, riuscendo ad aprire la porta senza mollare la presa su di lei.
- Ooooh, che bello! Ehi Ace, perché non rimani con me stanotte? – sussurrò Kate all’orecchio del ragazzo. Nel sentire il fiato caldo della ragazza sul collo Ace rabbrividì percependo un’ondata di calore colpirgli il basso ventre, e si affrettò a deporla sul letto – Stasera è meglio di no, Katie.
- Uffa, che noioso che sei! – si lamentò Kate imbronciandosi. Ace evitò di rispondere, preferì concentrarsi sul levarle gli scarponcini e i calzini.
- Ecco, ho fatto. – disse Ace coprendola con il lenzuolo e iniziando a rimettersi dritto – Ora vado, tu è meglio se cerchi di dormire…
Non poté finire di parlare. Kate gli aveva afferrato con forza il polso per trattenerlo vicino a lei, e ora lo stava guardando con aria mortalmente seria, l'euforia donata dall' alcol svanita in un istante. - Ace, devo chiederti una cosa.
Ace la guardò confuso. Cosa le era preso all’improvviso? – Dimmi…
- Se io ti dicessi che non voglio più vivere qui e che voglio andarmene per diventare una persona completamente diversa, tu cosa ne penseresti?
Ace strabuzzò gli occhi, chiedendosi se l’alcool non l’avesse fatta impazzire completamente – Katie, ma che dici? E dove vorresti andare? E perché dovresti voler cambiare? Il tuo posto è qui, con me, nostro padre e tutti gli altri. Perché dovresti voler cambiare le cose?
Ace aveva parlato d’istinto, limitandosi a dare voce a quello che pensava… ma Kate sembrò non gradire affatto quelle parole. La ragazza si incupì e mollando la presa gli voltò le spalle, come se improvvisamente non potesse più tollerare la sua vista.
- Kate, che cosa…?
- Lascia perdere. – lo interruppe dura lei – Fai finta che non abbia detto nulla. Dev’essere la stanchezza che mi fa parlare a vanvera.
Ace lasciò cadere le spalle – D’accordo, ma…
- Scusa Ace, ma come ti ho già detto, sono stanca. Magari ne riparliamo domani.
Ace indietreggiò appena, colpito dall’improvvisa freddezza della ragazza. Sembrava irritata per qualcosa, ma Ace non riusciva ad immaginare per che cosa. – V-va bene…allora io vado…
- Buonanotte. – replicò Kate senza voltarsi, e ad Ace non restò altro da fare che uscire ancora confuso dalla stanza. Non si accorse che Kate si era tirata su a sedere nel momento esatto in cui lui si era chiuso la porta alle spalle, non vide che la ragazza si era presa la testa tra le mani… e tantomeno capì cosa fossero gli strani e strazianti singhiozzi che si sentivano dal buco della serratura.
Così la verità era quella, constatò Kate. A quanto pareva il sogno era finito, e le illusioni erano state cancellate per sempre. Restavano solo lei, la sua ambizione e il suo devastante quanto crudele amore.

Non posso avere entrambi. Concluse distrutta Kate. A uno dei due dovrò rinunciare.

🔥

Era tardo pomeriggio sulla Moby Dick. L’aria era arsa da un sole imponente, in mezzo a un cielo privo di nuvole, e l’acqua scintillava come metallo fuso attorno a loro… insomma, era tutto tranquillo, almeno fino a quando il grido della vedetta non mise il ponte in fermento.
- Vela a drittaaa!
Fossa, sul cassero, mise mano al cannocchiale. Thatch, che stava salendo in quel momento, gli si accostò. - La vedi?
Fossa annuì. - A un quarto a babordo.
- Che bandiera battono? - urlò Thatch alla vedetta.
- Sembra una nave del Governo Mondiale. - disse Fossa prima che il ragazzo gridasse la conferma.
- Bene. Non lasciamocelo sfuggire! – tuonò Barbabianca qualche metro più indietro - Manteniamo rotta e velocità. Haruta, ce la fai col timone?
- Certo che sì, papà!
Barbabianca annuì e si rivolse a Marco - Marco, provvedi di persona ad assicurarti che siano pronti polvere, palle, scovoli, cucchiai e calcatoi. Teach, aiutalo. Cannonieri, al vostro posto!
La Fenice annuì e cominciò a incitare gli uomini, dando loro le direttive con il suo solito piglio controllato. Teach invece gridava – Muovetevi, cani! Non avete sentito il capitano? C’è un dannato galeone del Governo che ci aspetta!
Jaws invece imboccò il boccaporto, scese lesto la scaletta fino all’armeria, e con l’aiuto di altri ne cavò moschetti e pistole da distribuire. Fossa non perdeva di vista la preda.
- Ha la poppa ricoperta d’oro. Una meraviglia che mi fa venire l’acquolina in bocca! – esclamò esaltato Fossa, lanciando il cannocchiale a Barbabianca.
- È una bella nave. - ammise egli stesso. - Cerchiamo di prenderla senza danneggiarla troppo. – dichiarò restituendoglielo allo stesso modo, e avviandosi intanto a prua. – Marco, Teach! Timone e alberi. Lasciate intatta la carena. Voglio portarmela via... ci vorrà una giornata di lavoro per spellarla di tutto quel ben di Dio!
Marco annuì, e il vecchio abbaiò gli ordini ai cannonieri… e in quel momento Kate fece la sua comparsa sul castello di poppa, silenziosa e affascinata dall’evidente fermento che si era impossessato della ciurma. Si affiancò a Fossa. - Cosa sta succedendo, Fossa?
Questi biascicò un’oscenità, voltandosi severamente a guardarla. - Torna in infermeria, Kate.
Lei si accigliò. - Perché? Ci sono stata abbastanza.
- Non è il momento di discutere, Kate. Stiamo per abbordare una nave del Governo Mondiale, quindi fai la brava e torna di sotto, prima che nostro padre ti veda!
- Una nave del Governo? – chiese Kate, quasi strozzandosi. Una ridda di emozioni contrastanti la travolsero. Prima sgomento, poi terrore... quindi una rabbia feroce, che la scosse fin nelle viscere, scatenata solo in parte da quella scoperta.
- Mi hai sentito, Kate!? Tra poco ci sarà l’inferno quassù... – minacciò Fossa.
- Non ho intenzione di nascondermi da quella feccia, Fossa. - ringhiò lei, con una tale veemenza che lo colpì.
- Kate, non capisci! Se quei bastardi dovessero capire chi sei…
- E come dovrebbero fare a capirlo, secondo te? – chiese Kate irritata – Non è che me lo porto scritto in fronte…
Fossa imprecò e afferrò la ragazza per il braccio – Kate, per l’amor di Dio, vattene da qui! Se papà si accorge che sei qui…
Non ebbe finito di parlare che la voce tonante del capitano si fece sentire per tutta la nave - Kate! Torna subito di sotto!  
Kate si infuriò, mise le mani sui fianchi, alzò il mento con sfida, e scosse la testa.
 - È un ordine! - tuonò Barbabianca.
 - Non mi farai tornare in cabina! L’incertezza dell’attesa mi ucciderebbe, non posso sopportare l’idea di stare nascosta mentre voi invece rischiate la vita! – urlò inviperita Kate, scrollandosi di dosso la mano di Fossa.
Barbabianca aprì la bocca per parlare, probabilmente per ribadire l’ordine appena dato…ma Kate non riuscì a sentire quello che il padre avrebbe voluto dirle, poiché si sentì afferrare bruscamente per un braccio e trascinare via.
- Me ne occupo io, papà. – assicurò Ace – Voi datevi da fare, io vi raggiungo subito.
- Ace! – esclamò incredula Kate – Ace, che diavolo fai?! Lasciami andare subito!
- Mi dispiace Katie, non posso. Devo portarti al sicuro.
- No! Non voglio! Lasciami andare!
La ragazza lottò come una tigre, contrastandolo in tutti i modi possibili e insultandolo in un modo che riuscì proprio a farlo uscire dai gangheri.
- Razza di incosciente! Credi che mi farebbe piacere se ti beccassi una pallottola in corpo? – esclamò Ace spingendola dentro la propria cabina.
- Qua sotto non mi prenderò nessuna pallottola solo fino a quando non prenderanno la nave! -
Ace la lasciò, fissandola incredulo - Prendere la nave? Non penserai sul serio che quei vili abbiano qualche possibilità di riuscirci!
- Io so solo che non resterò qui ad aspettare che ammazzino qualcuno dei miei cari e che mi facciano prigioniera! Io sono ricercata dalla nascita, ricordi?! E se avessero scoperto in qualche modo la mia identità? – sbraitò Kate. Una parte di lei era consapevole del fatto che il suo ragionamento non aveva molto senso e che si stava comportando da stupida, ma non gliene importava niente. Ormai era al limite della sopportazione, e non poteva più tollerare di restarsene nascosta come una vigliacca mentre gli altri si battevano per difendere quella che era anche la sua casa. Non sarebbe rimasta indietro, non questa volta.
- Ammesso che ci sia una sola probabilità che sia così, restare sul ponte è l’ultima cosa che dovresti fare! – ribatté esasperato Ace, che non capiva cosa fosse preso all’improvviso alla ragazza, e onestamente nemmeno voleva saperlo, in quel momento. Voleva solo che lei si mettesse al sicuro, il resto non era importante. – Non hai niente da temere, io…
- No, non provare a dirmi che dovranno passare sul tuo corpo per arrivare a me! – lo interruppe Kate in un misto di furia e disperazione – Non potrei sopportarlo, preferirei morire adesso piuttosto che permettere che tu…
- Zitta! Non lo dire nemmeno per scherzo! – si infuriò Ace. – Ora basta. Devo andare ad aiutare gli altri…
- No! – gridò Kate, aggrappandosi disperata a lui – No Ace, non andartene. Ti prego, non lasciarmi qui da sola.
Ace sgranò gli occhi e asciugò istintivamente le lacrime che la ragazza aveva versato senza rendersene nemmeno conto, stringendosela al petto per tentare di tranquillizzarla. Sembrava davvero spaventata, e a Ace dispiaceva. Non sopportava di vederla soffrire, non l’aveva mai sopportato, nemmeno agli inizi.
Tuttavia…
- Va bene, ho capito. – sospirò Ace – Non posso permetterti di tornare sul ponte… ma se vuoi posso restare qui con te. Che ne dici?
Kate lo guardò a lungo, indecifrabile. Ace sostenne a fatica il suo sguardo, non l’aveva mai vista così seria. Alla fine la ragazza mollò la presa su di lui e gli rispose – Sì, va bene. Rimani con me.
Ace lasciò andare l’aria che aveva trattenuto e con un dito le sollevò il mento, posandole un casto bacio sulle labbra. Kate però non sembrava disposta ad accontentarsi e posandogli una mano sulla nuca lo attirò più vicino a sé, dischiudendo le labbra per approfondire il bacio. Ace trasalì di fronte a quell’improvvisa intraprendenza ma non si scostò, anzi ne approfittò subito e ricambiò con la stessa foga, nel disperato tentativo di perdersi nel suo profumo e nel suo sapore e di non pensare a ciò che stava per fare.

Non posso farle questo. Non posso ingannarla in questo modo. Non è giusto…

Devi farlo. È per il suo bene.

Non poté tergiversare oltre. Facendo una violenza a sé stesso Ace si staccò bruscamente dalla bocca della ragazza, e muovendosi più rapido di una scheggia schizzò fuori dalla stanza e si chiuse la porta alle spalle, chiudendo dentro la ragazza.
- Ace! – la sentì gridare da dietro la porta.
- Perdonami, Kate… - mormorò Ace, così piano che probabilmente lei non l’avrebbe nemmeno sentito. – Perdonami… ma devo andare a dare una mano agli altri, non posso tirarmi indietro.
- E io invece sì?! – strillò fuori di sé Kate, colpendo con forza la porta.
- Kate, tu sei il medico di bordo, il tuo compito sarà prenderti cura dei feriti quando sarà tutto finito, non mettere inutilmente in pericolo la tua vita. – dichiarò Ace con voce esitante e ferma al tempo stesso – Non puoi esserci quando combatteremo, e non ci sarai. Rimarrai qui perché è più sicuro, non voglio più discuterne.
Detto questo si voltò, afferrò la chiave infilata nella toppa e richiuse la porta a doppia mandata, dietro di sé. Non si fermò lì un momento di più, non voleva sentire le urla di Kate che gli davano del bugiardo e del traditore. Fuggì come il vigliacco che era, come il vigliacco che si sentiva.
- ACE! – urlò fuori di sé Katherine lanciandosi contro la porta. - Aprimi! Non lasciarmi qua sotto. Non ho neppure un’arma! Ace! Fammi uscire... fammi... uscire.
Niente. A risponderle ci fu solo il silenzio. Kate emise un verso di frustrazione e si lasciò scivolare lentamente a terra, toccandosi costernata le labbra che fino ad un attimo prima Ace stava baciando con passione. Era stato un bacio così intenso, così passionale… e amaro, più amaro del veleno. Era stato un bacio di Giuda.
Kate posò la tempia contro lo stipite della porta, stringendo lentamente i pugni mentre il suo viso di adombrava, con l’umiliazione che le avvelenava il sangue. Di norma non si sarebbe arresa, avrebbe lottato per contrastare la volontà delle persone che come sempre volevano controllare la sua vita, soffocandola e imprigionandola proprio come in quel momento… ma quella volta, per la prima volta, non fece nulla. Non prese a calci i mobili, non urlò più, e non tentò nemmeno di scassinare la porta, si limitò a restare seduta sul pavimento, aspettando che tutto finisse, che i cannoni tacessero, le urla finissero, e la calma tornasse. Per la prima volta aspettò e basta… no, non è esatto, non aspettò e basta, fece anche la sua scelta finale, una scelta che sarebbe stata destinata a cambiare la sua vita in un modo che né lei né nessun altro al mondo avrebbe mai potuto anche solo concepire. Una decisione che l’avrebbe portata a fuggire di casa, ad abbandonare l’uomo che amava, a versare il proprio sangue e quello di altri pur di inseguire quell’ambizione che tanto profondamente era radicata in lei, a seguire un uomo che avrebbe odiato e amato al tempo stesso, a diventare il vice capitano di una ciurma che un giorno avrebbe riscritto insieme ad altre la storia della pirateria, e ad affrontare un nemico così potente da non poter mai sperare di poterlo sconfiggere, ma che avrebbe comunque combattuto e vinto, e tutto solo per amore della propria libertà e di quello in cui credeva.
Decise che non avrebbe aspettato mai più. E che non avrebbe amato più alcun uomo, mai più.


Quando diverse ore dopo Ace si decise finalmente ad andare ad aprire la porta, Kate ormai era ad un passo dalla pietrificazione per l’essere rimasta perfettamente immobile nella stessa posizione per così tanto tempo. Il ragazzo si chinò accanto a lei timoroso, quasi fosse convinto che la ragazza potesse sbranarlo da un momento all’altro. Ci sperava, in fondo. Dopotutto se l’era meritato.
- Katie? – chiamò esitante. – Kate, va tutto bene?
Lei non gli rispose. Aveva la testa china e lo sguardo fisso a terra, come se fosse in trance, e non si mosse di un millimetro.
- Katie? – chiamò di nuovo Ace, agitandosi – Kate, cosa c’è che non va?
Ancora nessuna risposta. Ace deglutì, tentando inutilmente di mandar giù il groppo che aveva in gola.
- Kate… ti prego, guardami. Dimmi cosa c’è che non va.
Lei alzò lo sguardo molto lentamente. Lui la guardò negli occhi e indietreggiò inconsapevolmente. C’era qualcosa nei suoi occhi, qualcosa che non c’era quando l’aveva lasciata. Qualcosa di torbido e oscuro, che gli fece istintivamente paura.
- Stai bene, Katie?
Lei lo guardò a lungo con aria assente, poi gli sorrise, Un sorriso apparentemente dolce e affettuoso, ma che in realtà nascondeva amarezza e risentimento, e un oscuro desiderio, come un verme nel torsolo di una mela.
- Ti amo. – gli rispose lei senza smettere di sorridergli. Ace sbatté le palpebre, inspiegabilmente turbato da quelle parole, e lei senza aggiungere altro si alzò, superandolo e uscendo dalla cabina.
Il sorriso era ancora al suo posto. E una nuova storia era appena iniziata.




Angolo autrice:
Ma salve, amici miei! Eccomi qui, dopo quasi un altro mese di attesa! 
Oh, finalmente sono riuscita a pubblicare la seconda parte di questo speciale! Credetemi se vi dico che ho sudato quattordici camicie per arrivare a questo punto... ma sono davvero soddisfatta, non mi sembra ancora vero di avercela fatta!
Dal prossimo capitolo la storia riprenderà il suo normale corso... e credetemi, ora sì che l'azione entrerà davvero nel vivo! Non faccio nessuna anticipazione però stavolta, dovrete leggere per sapere! ;-D
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, e vi ringrazio con tutto il cuore per il sostegno che mi state mostrando. Sul serio, come farei senza di voi?
Baci e abbracci! <3
Tessie
P.S.: La favola che Kate racconta ad Ace non è una mia invenzione, è una storia scritta dal gran maestro Robert Munsch! 


 
   
 
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