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Autore: Kesukyou    14/11/2017    0 recensioni
"Lei, bellissima: Cammilia, un’idea che si muove tra i miei pensieri, e incido nel mio intelletto l’eleganza dei suoi passi. Ma dov’è la sua grazia? Questo quesito a lungo ha tormentato la mia esistenza. Fino a pochi giorni fa, quando ne uccisi l’imitazione di carne e ossa."
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Per lei ogni momento che scorre tra le sue dita è sempre percepito così com’è, un solo attimo, perso nell’infinità di quelli che l’hanno preceduto e già dimenticato tra quelli che lo succederanno. Nulla di più.

Lei, bellissima: Cammilia, un’idea che si muove tra i miei pensieri, e incido nel mio intelletto l’eleganza dei suoi passi. Ma dov’è la sua grazia? Questo quesito a lungo ha tormentato la mia esistenza. Fino a pochi giorni fa, quando ne uccisi l’imitazione di carne e ossa.

I battiti del tempo sono uguali per lei, e tutto è scandito da paragrafi uguali. Non vede alcun significato in quello che fa, nè prova gioia o piange delle ingiustizie che osano compierle: i suoi pensieri sono di metrica senz’arte, che tanto mi faceva soffrire! La storia avrebbe dovuto apparirle retta lungo una strada strappata alla giungla, come riesco a vederla io: eppure, immersa nel costrutto del mondo, procede incauta e senz’anima, divaga tra le fronde e non sarebbe mai arrivata alla torre da cui il suo splendore era destinato ad accecare gli inetti, comprimari della sua esistenza.

Il profilo di lei, sottile, riempe gli spazi nella mia testa da quando ne ho memoria. Perseguivo il suo ideale come fosse una tendenza all’onirico. Generata dal sogno, sapevo a un tratto di avere un’idea della sua bellezza, e di essere di indole un artista: ché avrei voluto dare la vita alle mie idee. Chiudevo gli occhi e lei era lì, ovunque pensassi a una storia mia o dell’esterno. Lei era l’azione che muoveva la trama o il fine o lo strumento. Era il mio personaggio. E pure non era nessuno, ed era una donna senza tempo e vuota. La immaginavo salvatrice di mondi o madre, bestia o intellettuale, dannazione o misericordia. E l’idea di lei era l’infinità, e allora tutto era al contempo giusto: pur se il nostro più grande talento non potrebbe raffigurare l’eterno.

Quand’ero ragazzo, ne feci un dipinto. I capelli solari raccolti in boccoli di un’altra epoca, il rosso puro dei suoi vestiti. Ricordo l’appetito che provai, e la mia lingua che assaporava l’intensità della vernice. Ma non seppi tracciare il colore della sua anima. Non ero abbastanza, pensai, e ne squarciai il volto e il cuore con un taglierino. Le mie dita non sapevano quello che volevo realizzare, seguivano mnemoniche i gesti inconvulsi dei lombricali della mano. Per tre anni non feci allora altro che ripetere lo stesso disegno in pose e costumi differenti, e infine realizzai una pittura che reputai: tecnicamente, un capolavoro. Gettai inchiostro sulla tela compiuta, la graffiai con la stilografica di mio padre, e sul tessuto di canapa martoriato scrissi per 127 volte il nome di lei. Anche così non fu abbastanza, e il suo nome non era il suo, ma un insieme ordinato di otto lettere che per coincidenza gli rassomigliava. Scesi nel mio giardino, la misi su una pila di legna secca, e cosparsa di olio le detti fuoco. C’era più verità nella cenere, che nella mia arte. Piansi, urlai e per sfogarmi picchiai con una roccia il cane del mio vicino, meticcio insignificante e fastidioso, che una volta mi morse. Compresi solo allora, quando osservai che non v’era differenza tra l’animale vivo e l’oggetto del suo cadavere, che l’anima non ha forma, e che come Dio è sacrilega e carceraria la sua pittura, e che forse è ella stessa Dio. Capii che il cane non era morto nello spazio, ma in un unico istante del tempo di cui non v’è immagine: e l’unico modo per dare vita alle mie idee era allora nella parola che non è fenomeno,

di pensatori di professione. E la mia arte, fu deciso dal fato, era quella del letterato. Fu questa la mia prima epifania, la prima parte della mia storia in quattro tempi.

Tornai a studiare, e lessi dei grandi affrescatori del verbo: mi persi in Inferni di versetti e nelle lande della Rivoluzione partigiana, e lottai contro il colera e la Storia stessa, e amai molte donne d’inchiostro. Passarono così degli anni, e dovetti ringraziare le fortune della mia famiglia se non dovetti mai abbassarmi a un'occupazione becera per soddisfare i miei bisogni carnali. Tornai dai miei studi consapevole della molteplicità del reale, ma anche della limitazione: e compresi che furono scorrette le mie idee di ragazzo. Cammilia era l’eterno, ma sarebbe d’altronde disumano vivere più esistenze al medesimo istante, e vita di bestia ciò che non è vita d’uomo. Il personaggio è vasto quanto le possibilità del cambiamento nel bianco della pagina, e ogni parola muta se solo si increspa di poco la carta su cui è scritta: ma scandita dai battiti del tempo e delle lettere, durerebbe più la stesura delle sue possibile, o la mia stessa vita? Fu tra le sudate carte che capii che il tempo dentro di me rendeva immortali le mie idee, ma il suo scorrere fuori dai miei cardini era la logorazione, e il portatore del limite e della scelta: la mia figlia sarebbe nata mutila o morta prematura, perché non potevo rappresentare l'infinito, ma solo una sua ponderata troncatura. Fu questa la mia seconda epifania. Non potevo sopportarlo, e giurai che non avrei mai più bestemmiato, pronunciando le otto lettere di Cammilia con le mie mani. Scelsi invece di parlare di lei: la storpia Camilia, che ne sarebbe stata una pallida imitazione, di sole sette lettere; ma, forse, avrebbe potuto avere una vita. Seppur insignificante non lo sarebbe stata più della mia, artista incapace di fare arte.

Non conoscevo ancora questo nuovo personaggio, che si era fatto esponente delle mie fantasie. Camilia era debole, imperfetta. Trovai in un cassetto la stilografica di mio padre, la stessa della mia prima epifania, e la nutrii con l’inchiostro rosso di una boccetta di vetro.

Da allora non me ne sono mai più separato. Scrivo queste parole con quella stessa penna, dopo così tanto tempo: sento che mancano ancora poche righe prima che spanda le sue ultime parole, e confesso che un po’ mi dispiace. Ma ormai, poco importa.

Per prima cosa dovevo esaminare il tangibile della mia nuova figlia, fu questo quello che mi proposi di fare. Misi Camilia in storie di orrore e di lame seghettate, i suoi unici compagni furono affamati o violenti. Le staccai un occhio con un coltello arruginito, per studiarne l’iride. Non era un lapislazzulo eterno, ma di un banale celestino. Oh, quanto ne soffrì il mio cuore! Dall’altro occhio le feci colare lacrime di dolore, e scorrevano non sulla porcellana di un volto divino, ma su una guancia sporca e una pelle chiara e null’altro. Scivolavano su labbra appena accennate, descritte con parole di uso comune. Le ruppi le ossa delle gambe, ma la frattura si estendeva alla tibia o al perone? Le staccai con una pinza i capelli di sola paglia gialla, e le martellai un piccolo chiodo attraverso l’orecchio troppo grande: morì subito o soffrì, fu lobotomizzata dai gesti del suo folle antagonista, o le ruppi solo un timpano? Non seppi dirlo con certezza, e allora si limitò a urlare. La stordii con un pugno, e le divorai i seni e la lingua: scoprii allora che il sangue sapeva solo di calore e metallo. La sgozzai perché​ ormai annoiato, e nella stanza fu solo silenzio.

Mi alzai dalla scrivania in lacrime, e lanciai via il mio quaderno. Non era così che doveva andare. Avrebbe dovuto soffrire davvero, ma quello che avevo ottenuto era un dolore grossolano e privo di vita. Era questo il limite dell’arte? Una condanna alla solitudine, e mai avrebbe incontrato la realtà. Per sbaglio mi capitò tuttavia di gettare l’occhio sul quaderno rovesciato. Mi soffermarmi sui morsi che le diedi: mi sembrò ben fatta la descrizione dei denti che ne laceravano la cute, e più lei si dimenava, più grave era la lacerazione. Più a fondo scendevo, meno le faceva male, poiché a un tratto era solita al dolore. Mi leccai le labbra, e pensai che sul serio avevo dato vita a un morso, e la cosa mi compiacque. Ricordai allora del cane del mio vicino, e che una volta mi morse: e capii che v’era vita nel morso perché una volta fu vivo in me.

La mia terza epifania ancora abbassò di più la mia arte, che per questo ne fu rinnovata: era infinito e fu delimitazione consapevole, ma capii allora che doveva diventare imitazione. Non più libera scelta su una pagina bianca, ma opera di selezione delle parole, tra quelle che già avevano composto la mia vita. Dovevo allora dare alla mia Camilia un volto che fosse reale nella mia memoria, e per donarle il tempo avrei dovuto prima ricordare come fosse da viva.

Fu un’opera di genio il mio successivo progetto, e forse scrivo queste memorie soprattutto per vanagloria. Lanciai tre dadi, e mi dissero un luogo, una data, un’ora. Nessuno avrebbe mai potuto leggere dei piani inscritti nel caso. Preparai tutto il necessario. Attesi fin quando non passò quella giusta. Giovane, ne vidi i capelli ed erano di tredici sfumature diverse del colore del legno giovane, e del grano, e delle lampade a incandescenza. La avvicinai con facilità: bastò dire la verità, che ero un artista e la sua bellezza era mia musa. Le feci un ritratto, dopo tempo che non disegnavo, e glielo donai. Era disgustoso e solo una sua pallida imitazione. Ma le arti visive sono sempre state le più veloci a scavare nei sentimenti, e i suoi occhi certo non potevano scorgere il tormento dietro il mio tratto. Nessuno poteva. Mi contattò lei su un profilo falso, che previdente avevo creato e da cui era impossibile risalire alla mia vera identità. Non ricordo il vecchio nome di quella ragazza, poiché per me fu da allora Camilia. Dopo una settimana sapevo dove abitava. Dopo un mese era la mia amante, ed ogni giorno io annotavo i suoi gesti più minuti, e il volteggiare delle sue emozioni. Le chiesi una notte se sentisse il tempo: che scorreva tra le sue dita, inesorabile. Mi disse che il tempo era una convenzione della mente, e che il suo era immobile nel suo amore per me, e non esisteva che fuori del suo cuore. Capii allora che era viva, e mi sembrò necessario ucciderla, per dar senso alla sua opera. Dopo quattro mesi da che l'avevo incontrata, era legata al capanno di una proprietà abbandonata, che avevo trovato con un altro lancio di dadi. Fu difficile tenerla in vita. Già da tempo dedicavo ogni mio istante libero allo studio dell’anatomia, e procedevo nella mia vivisezione solo piccoli pezzi per volta, senza mai osare troppo. Dopo le mie analisi, gettavo gli scarti alle colonie di gatti randagi. Comprai i medicinali solo da farmacie molto distanti, in lotti piccoli. Mi aiutarono a tenere lontane le malattie più fastidiose, per quanto mi fu possibile. Annotavo ancora le sue preghiere con minuzia, e capii quanto e quale dolore arrestasse i battiti del suo orologio. Fu interessante scoprire tra le sue lacrime, quando cominciai col terzo dito della mano destra, che nonostante una lacerazione fosse dimenticata dopo poche settimane, a distanza di quasi un anno ancora soffrisse per il mio tradimento. Studiai anche un po’ di chimica, e provai a comporre una soluzione che riducesse il rumore dei suoi lamenti, per permettermi di pensare meglio. La uccisi per sbaglio, dosando male l’acido solforico nella mia formula per un etere anestetizzante. Vidi le forme affilate delle sue ossa spuntare fuori da quello che rimaneva della cute, e il suo volto che colava via. Credo ne rimase anche danneggiato il massetere, o forse il pterigoideo, non avevo bene in memoria i nomi d'ogni muscolo. Ricordo però che non riuscì più a muovere la mandibola, e da quel teschio bruciato non vennero da quel momento che lamenti inarticolati e poco interessanti. Morì di infezione nel giro di qualche ora, e non mi curai troppo di provare a salvarla. Sperai di vedere quello che vidi da piccolo, quell’unico istante eterno che era la sola differenza tra la vita e la morte: ma non vidi nulla. E allora capii ancora una nuova verità, e fu la mia quarta epifania: che l’anima non esiste. Carbonizzai quegli ultimi trenta chili di corpo, e seppellii le ceneri in cinque lochi. Ero felice, e camminando per strada mi capitò di cantare inni e filastrocche. Per la prima volta nella mia esistenza, ero fiero di me. Mi sentivo realizzato, finalmente capii quale fosse il mio scopo ultimo. Corsi a casa e scrissi un racconto: una storia d’amore, e Camilia era la donna che avevo amato e ucciso. Ne conoscevo ogni lembo di pelle, ogni capello, ognuna delle sfaccettature delle sue iridi, ogni suo piccolo intercalare. Le parole mi fluivano come ispirazione divina. Io, profeta di un’esistenza che fu. Ed era bello: fui soddisfatto. Camilia non provava gioia e non sentiva il tempo incedere in modo diverso che di un carattere per volta. Ed era allora il perfetto specchio della sua controparte reale, che non era però meno viva di lei!

Avevo capito! Ed era eppure così ovvio! Mentre mi amava e odiava, la Camilia che uccisi sentiva i battiti lenti e veloci e incostanti. Ma non io! Io la studiavo, e la guardavo, e non capivo che ero allora lo scienziato col cronometro, e mentre lei celebrava gli sfasamenti del tempo, io appuravo le sue menzogne, i miei dati non quadravano. Ma non erano bugie, affatto! Ma era com’era da sempre stato: ovvero che io ero lo scrittore e lei la mia lettrice. E non v’è sentimento senza la contemplazione di un punto fisso: il fiore non sà d’essere bello, ma quante volte ho tastato l’estasi della contemplazione in un campo di tulipani! E io nell'estasi ero il consumatore d’arte, e la natura l’artista; ed era lei allora lo scienziato col cronometro, che valuta e studia i sentimenti del topo che scorre tra le sue pagine. Non era Camilia, non lo era mai stata: non era lei a doversi emozionare, ma doveva far emozionare. L’anima non esiste, e tuttavia l'opera d'arte è riuscita se ti lascia credere che ne abbia una. Lessi il mio racconto, ed io ero il lettore e il mio personaggio l’arte: piansi, perché ero finalmente divenuto padre di qualcosa di vivo. Non era Camilla a sentire il tempo che si fermava, ma io mi commossi tra le mie pagine, e mi sembrò, mentre leggevo, il mondo congelato.

L’altro giorno cominciai la stesura di un secondo racconto, che ho concluso poche ore fa. Una mia autobiografia: sono sicuro che piacerà a molti, e mi loderanno come un grande letterato, com’è ovvio ch’io sia stato fin dal principio. Il mio solo errore fu di pretendere dai miei scritti qualcosa che neppure esiste: e l’anima e la realtà. L’ho appena riletta, apportando le dovute correzioni a pochi refusi. Ed è bella. Scrivo queste parole non come giustificazione, ma per rassicurarvi. A chiunque busserà alla mia porta, non spaventatevi! Perché non vi sarà differenza alcuna tra il mio cadavere impiccato e l’uomo che ancora vive nelle mie pagine. Le trovate nel secondo cassetto della mia scrivania.

Buona lettura!

 
 
  
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