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Autore: yonoi    14/11/2017    4 recensioni
Estate 1920: Hansi Wallemberg, cinque anni aggrappati a una grossa cornice col ritratto del padre decorato al valore, arriva dal suo paese di montagna a casa di Iolanda e Arrigo Drusiani. Sarà il loro piccolo affido per questa estate. Arrigo Drusiani ha combattuto nella Grande Guerra, sua moglie Iolanda è esperta nell’arte di riparare le cose. Con i Drusiani, Hansi stabilirà quel rapporto di affetto di cui ha così intensamente bisogno: partito per il fronte, suo padre non è più tornato, e sua madre, che non ha mai smesso di attenderlo, trascorre le giornate sulla soglia di casa.
Col tempo, si prefigurano per Hansi lunghi inverni in collegio, e in seguito l’Accademia militare: qui, si lega sempre più ad un coetaneo che suscita in lui una forte ammirazione, fino ad abbracciarne i valori e ad arruolarsi nelle SS. Sarà l’incontro - fugace e irrepetibile - con il vero amore della sua vita, a provocare in Hans un cambiamento sofferto, eppure definitivo.
Genere: Angst, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Dopo la licenza, breve ed ulteriormente accorciata dagli eventi, rientrando al suo reparto Arrigo aveva sperimentato la sensazione inedita di ritrovarsi a casa in quell’ambiente infernale, nell’aria pestilenziale dei troppi corpi ammassati nei baraccamenti, nelle trincee che puzzavano di tutti i rifiuti umani, del vomito convulso degli avvelenati col gas, della melma del rancio. Quello era il suo posto, e ne aveva avuto conferma nel momento in cui gli erano venuti incontro, silenziosi, i suoi uomini. Il sergente La Valle gli aveva consegnato un pacchetto con qualche sigaretta, e le firme di tutti: un cimitero di croci peggio della Certosa, essendo i più analfabeti, e incapaci di scrivere persino il loro nome. Arrigo si era sentito confortato dalla loro presenza, umile e senza parole: avvertendo il loro calore mentre gli si stringevano intorno timidi e volonterosi, intuì che l’avrebbero abbracciato volentieri ma non osavano farlo, perché lui era il sior tenente, e loro erano rispettosi. La Valle precisò che alcune sigarette erano state inviate da “quelli di là”, e in particolare dallo standschutzen[1]  Halle, insieme con le sue sincere condoglianze. Arrigo non poté fare a meno di pensare che gli Austriaci, il nemico per eccellenza, si erano dimostrati alla fine più comprensivi di sua sorella.
         Con il sottotenente Halle, s’erano conosciuti in un pomeriggio di tregua per seppellire i morti. Dopo l’ennesima avanzata degli Italiani, stroncata a pochi metri dall’uscita della trincea, e dopo l’uguale tentativo di sfondamento da parte del nemico, le due postazioni continuavano a fronteggiarsi identiche, senza aver preso un palmo di terra all’avversario: la situazione di stallo si protraeva da mesi, con variazioni dovute solo al numero dei morti che restavano presi nel fuoco di sbarramento. Si era d’estate e i corpi, già dopo poche ore, iniziavano a gonfiarsi e a odorare di fiori marci.
         -“C’è il rischio di epidemie, e oltretutto il morale della truppa ne risente”- Sull’attenti e impeccabile davanti al colonnello, Arrigo sapeva di poter contare su quest’ultimo argomento, oltre che sull’uniforme stirata per l’occasione, per ottenere un ordine di tregua temporanea: una pausa di sonno, di cibo e di silenzio che avrebbe - quella sì - ristorato il morale, ben più della raccolta pietosa dei morti.
         Il colonnello Riccadonna, per una volta, acconsentì: -“Provveda lei stesso a stabilire i termini della tregua. Temporanea, s’intende. Stanotte stessa riceverete gli ordini per la nuova offensiva”- 
         Di questo passo, non avremo finito di cavar fuori i morti - pensò Arrigo tra sé - che già ci toccherà di raccattarne dei nuovi. Con una pezza bianca, gli Italiani approntarono una sorta di bandiera, che fece capolino sul vallo della trincea. Subito si aprì il fuoco dalla postazione di fronte: della pezza rimasero più buchi che stoffa, in più punti restando addirittura bruciata. Gli Italiani ridevano, la prospettiva della tregua rendeva il clima disteso, da gita fuori porta:
         -“Fritz non ha mica capito”- sghignazzava La Valle -“colpa della tua mutanda, che è tutto fuorché bianca. Sei abituato a fartela sotto, a quanto pare ”-
         La recluta che aveva offerto la pezza arrossì con violenza, mentre Arrigo ordinava di tornare ad esporre quel cencio miserando:
         -“Sergente, lasci a Fritz il tempo di capire che chiediamo una tregua. Senza tanti commenti”-
         -“Quelli, sior tenente, capiscono solo gli ordini, e sparano su tutto ciò che si muove. Sono una brutta razza”-
         -“Per l’appunto, sergente, la tenga su ben ferma, questa bandiera della miseria, e lasci a Fritz il tempo di vederla. E già che siamo in argomento, veda di curare di più la pulizia dei suoi uomini”- 
         Di nuovo, la bandiera fu centrata da un tiro di tale precisione da spezzarla di netto tra le mani del sergente. La Valle restò cupo a fissare il bacchetto che gli era rimasto in mano per miracolo:
         -“Hanno ottimi cecchini”- si preoccupò il ragazzo della pezza.
         -“Soprattutto, ho il sospetto che non abbiano interesse ad un cessate il fuoco”-
         -“Non è il caso di esporsi oltre. Va bene, rinunciamo”- In quel momento, Arrigo notò del movimento dalle postazioni austriache. Un drappo chiaro si allungava fuori dal vallo, simile al loro per il numero di macchie: c’erano addirittura delle croste attaccate, tracce nere di sangue.
         -“A ripensarci bene, preferisco la tua mutanda”- osservò il sergente, tetro -“ Meglio quello che uno si fa addosso da vivo, che le pezze dei morti”-
         In breve, s’erano sparpagliati a gruppi silenziosi per recuperare i corpi, che erano talmente prosciugati dal sole da essere senza odore, e quasi senza peso come ossi di seppia: o al contrario talmente impregnati di pioggia, che occorreva scavare in profondità per sviscerarli dal fango, dove si disfacevano solamente a toccarli. In questo caso, il tanfo era insopportabile.
         Si frugava in quel carnaio cercando le piastrine di riconoscimento: si provava a dare un nome a spoglie così consunte che persino le uniformi risultavano ignote, e non si capiva a quale dei due eserciti appartenevano. A volte era il brandello bluastro di una giubba, gusci di munizioni, e allora il gruppo degli Italiani si sbracciava: -“Fritz! Komme hier, da questa parte, Fritz!”- oppure erano gli Austriaci ad agitare le mani: -“Italiani! Italiani!”- 
         Al riparo dei morti, spesso si ritrovavano dei feriti da giorni, con i visceri bianchi raccolti nelle mani, e con gli occhi che scintillavano di febbre. Anche in questi casi, l’azione delle intemperie, unita a ciò ch’era stato spremuto fuori dai corpi, rendeva irriconoscibili le uniformi, creando non pochi problemi di identificazione: né altro si poteva cavare dai feriti, che avevano ormai perso nel delirio dell’infezione persino la memoria ultima del loro nome. 
         Scoprire una traccia di vita anche minima in quel regno dei morti, provocava l’effetto di un improvviso risveglio: Italiani ed Austriaci s’affannavano insieme per i feriti ch’erano, fino a prova contraria, di tutti. Approntavano fasciature con pezze di ogni sorta, anche tolte ai cadaveri, dai mucchi di macerie cavavano le stecche per gambe e braccia rotte. Gli stessi defunti venivano cacciati dalle lettighe, per fare spazio ai vivi.
         Anche Arrigo a un certo punto, mentre veniva sera e ormai scadeva il termine del silenzio e della tregua, si ritrovò chinato, con lo stomaco contratto, sulla poltiglia di carni e ossa di un ferito. Cavò fuori il suo pacchetto di medicazione, affondando le bende e le mani in quel disastro:  le garze s’intridevano, subito si perdevano in quella materia nera, calda, che scricchiolava. Si sentì letteralmente cadere il sangue dalla testa quando avvertì il contatto con una sporgenza rotonda, molto probabilmente un osso di quell’uomo:
         -“Non voglio vederlo”- pensò rapidamente -“non fatemelo vedere”-
         In quell’attimo di nebbia, mentre la vista si scomponeva in macchie scure, si sentì sostenere le spalle da qualcuno. Avvertì la fermezza, la forza di quel sostegno che gli impediva di cadere, e a cui, per un istante, poteva abbandonarsi. C’era una voce incognita che veniva da lontano, e aveva una cadenza straniera eppure nota: -“Alles gut, tutto bene, italiano?”-
         E Arrigo rispondeva alles gut, come in sogno.
         Poi vide accanto a sé altre mani affaccendate, ed erano lunghe e abili, esperte nell’avvolgere bende e compresse di garze. Come già era accaduto, le garze si disfavano, una volta imbevute sparivano in quello squarcio che pareva senza fondo, senza fine, senza rimedio. Arrigo recuperò il pacchetto di medicazione del ferito, tagliò brandelli di stoffa e cominciò a passarli all’altro soccorritore, che avvolgeva e fasciava senza perdersi d’animo, né prestargli attenzione. A un certo punto il flusso di sangue si arrestò, si allentò la premura delle lunghe mani abili, e il loro proprietario sorrise incoraggiante. Pareva giovanissimo, adesso, e un po’ turbato. Un viso magro e serio, occhiali di metallo rotondi, da studente. Per la tensione le mani, che andava ripulendo sopra una zolla d’erba, iniziarono a tremare.  
         Arrigo guardò il ferito, notò il colore trapassato del volto, il naso che si affilava, gli occhi già spenti e molli: fece un cenno col capo all’altro soccorritore, che si allungò a guardar meglio, e le braccia gli caddero, le spalle si piegarono sotto il peso della stanchezza. Soltanto il ventre del ferito sussultava ed emetteva un rantolo come di cose rotte, e carico di tutto lo sfacelo del mondo.
          Si appoggiarono un istante per riposare, uno di fianco all’altro, e il morente tra loro. Soltanto allora, Arrigo notò che si trovavano in un avvallamento, in una fossa simile a una ferita aperta nel ventre della terra. Sopra di loro, il cielo già tendeva al tramonto, e un pulviscolo caldo si posava sulle cose: ovunque era silenzio, un silenzio che si allungava tra le pause, ormai sempre più lunghe, del respiro dell’uomo. Arrigo cercava scampo, qua e là, con lo sguardo: non riusciva a guardare in faccia il soccorritore, perché a quel punto pensava che la cosa più ovvia era piantare una pallottola in testa a quel disgraziato, e aveva paura di leggere, nello sguardo dell’altro, la stessa convinzione. Di sfuggita, notò che sia il soccorritore, che aveva gli occhi rossi e il viso tirato, sia il ferito a terra, che si sfiniva con quel rumore di sfasciume, portavano l’uniforme bluastra degli standschutzen austriaci:
         -“Tocca a te”- pensò allora sentendosi subito sollevato -“tocca a te, mi dispiace” - Qualsiasi cosa fosse, decidere o eseguire. Non lo sfiorava affatto il pensiero che forse toccava proprio a lui, perché era lui il nemico. Osservò ancora l’Austriaco mentre si prendeva il viso tra le mani, quelle sue mani abili che non erano riuscite a salvare nessuno: 
         -“Idiota”- pensò, e di nuovo gli si strinse lo stomaco -“sai quanti ce n’è, da piangere?”-
         Pensò alla stranezza della morte in tempo di pace, quando si piange tanto per la perdita di uno solo, mentre qui erano in tanti, e non piangeva nessuno. E questo lo pensava soprattutto per se stesso, perché lui si sentiva gli occhi inariditi, e l’anima così secca che neppure quando i morti erano stati amici, gli riusciva di spremere un po’ di dispiacere. Poi rifletté sul potere salvifico dell’abitudine, e concluse che quel dolore moltiplicato per gli infiniti chilometri del fronte, li avrebbe distrutti tutti centinaia di volte, se non vi fosse stata quella beata indifferenza. Forse proprio il distacco, quell’apatia che pareva un’assenza dell’anima, aveva il compito di conservarla integra nel disastro.
         Restarono là ancora per un tempo infinito, con le spalle appoggiate al calore della terra. L’orizzonte era limpido, lunghi stracci di cenere su un cielo di sangue vivo. Persino i loro volti apparivano filtrati da una luce rosata, persino il morto in mezzo pareva recuperato a un’apparenza di vita. Come svegliandosi di soprassalto da un sogno, l’Austriaco si riscosse: 
         -“Alles gut, italiano, sì?”- gli allungò una sigaretta e aveva una voce bianca piena di inflessioni lontane, chissà da dove veniva, in quale remoto paese aveva vissuto la sua infanzia recente. Si avvicinò per accenderla, e aveva occhi limpidi, come Arrigo non ne aveva mai visti. Le sue lunghe mani continuavano a tremare, mentre il respiro sempre più rotto del morente incominciava a diventare insopportabile. Arrigo pensò che ormai la tregua terminava, solo pochi minuti e avrebbero ripreso vigore i doveri e gli ordini, primo tra tutti quello di far prigioniero il nemico: e questo era già un buon motivo per andarsene, per non sentir più il rantolo che scaturiva dal ventre del ferito, come dalle viscere della terra. Oppure c’era sempre quell’altra soluzione, ma bisognava averne il coraggio. L’Austriaco lo guardò, e Arrigo capì che stava pensando la stessa cosa:
         -“Io no”- si affrettò a dire -“Io non sparo a un ferito a terra. Non se ne parla neppure. Non siamo un maledetto plotone di esecuzione”- e di nuovo sapeva che parlava a sé stesso, a quella parte di sé più ragionevole che diceva: qualcuno dovrà farlo. Vuoi farlo fare a un ragazzo? Quasi avesse colto i suoi pensieri interni, anche l’altro parlò:
         -“Fai tu, italiano nemico”-
         -“Io non sono nemico di nessuno”- già deciso ad andarsene, Arrigo si levò e iniziò a raccattare intorno le sue cose, il fucile, l’elmetto. Con la stessa rapidità, lo standschutzen mise una mano nel cinturone. Arrigo si aggrappò al fucile per istinto, iniziò a indietreggiare tenendolo sotto tiro. In quegli ultimi istanti tra il gesto dell’Austriaco e il timore di Arrigo, il ferito morì.
         Senza badare all’arma puntata contro di lui, lo straniero cavò fuori dalla cintura un minuscolo libro: era talmente piccolo che stava tutto nel palmo, tra le sue lunghe dita. Ad Arrigo ricordò il messale di sua madre, le pagine col bordo dorato che tagliavano, i santini dagli occhi tristi, un ciuffo di segnalibri scoloriti. Mentre continuava a tenerlo sotto tiro, vide l’altro raccogliersi in ginocchio e iniziare a pregare ad alta voce dal libro: -“De profundis clamavi ad Te, Domine. Domine, exaudi vocem meam…”-
         Arrigo restò interdetto. Guardò il cielo discendere fino in fondo nel buio, mentre sul corpo a terra si allungava l’ombra china del compagno, come una protezione. La voce dell’Austriaco era ferma e sicura, sembrava aver superato tutta l’angoscia:
         -“Fiat aures tuas intendentes in vocem deprecationis meae…”- 
         Sì, tendi l’orecchio alla sua supplica, ovunque Tu sia, pensò Arrigo. E intendi anche il mio lamento.
         In breve, lasciò l’arma, e s’inginocchiò a sua volta davanti al piccolo libro:
         -“Si iniquitates observaveris, Domine, quis sustinebit?”- Se consideri le colpe, Signore, chi potrà sussistere? diceva il Salmo, ed entrambi erano consapevoli, in quel momento, della verità di quelle parole.
         “Ma presso di te è il perdono, perciò avremo il tuo timore”. E la sera scendeva su di loro silenziosa, ed erano notturni i piccoli fiori bianchi sull’orlo della buca, che proprio ora s’aprivano in piccole stelle fragili.
         Non li aveva mai visti, Arrigo, che pure conosceva ogni brandello e ogni resto di quella terra scardinata dalle esplosioni, violata in profondità: eppure essi sbocciavano proprio sotto ai suoi occhi, con quei petali candidi e al centro un cuore di carne.
         -“Io spero nel Signore: l’anima mia spera nella sua parola. L’anima mia attende il Signore, più che le sentinelle l’aurora”- così pregavano insieme, ed entrambi sapevano il freddo e la fatica di vegliare di notte, nell’assillo del vento e nell’insidia soporifera della neve, che nel buio risplende come un manto di luce, eppure non possiede altro calore che quello dell’insensibilità, e poi del congelamento. E sapevano anche la fiducia instancabile, la pazienza dell’anima che nella desolazione, quando la notte è al culmine, sente nascere il giorno, e scruta l’orizzonte in attesa del primo spiraglio luminoso.
         Quando ormai terminarono era di nuovo notte, e il morto pesava come tutti i morti del mondo, mentre lo trasportavano: e ognuno dei due cercava di assumere su di sé quel peso incalcolabile, per non appesantire il carico dell’altro.
         Lo lasciarono infine in una fossa già ammucchiata da altri corpi, che più si riempiva e più affiorava in superficie un fondo d’acqua putrida, un misto di liquami che la terra spurgava come un pianto dirotto.
         La fossa era a ridosso delle linee italiane, e malgrado il tanfo opprimente che saliva dai morti, Arrigo riconobbe l’odore di minestra col sugo, e il sudore di troppi uomini insieme, l’andirivieni delle voci e dei dialetti:
         -“Vattene via, italiano”- l’Austriaco, più alto di lui di un palmo, lo spinse senza riguardo in direzione dei suoi. Il tono della sua voce non era più infantile, come se fosse cresciuto durante il tragitto, per la decisione presa: perché anche per lui, terminata la tregua, tornava in vigore l’ordine di catturare il nemico.
         -“Via, via, italiano”- ripeté lo straniero, e sorrise: allineati e candidi, sembrava avere ancora i denti da latte, e il viso dietro agli occhiali si animò di tante fossette chiare. E forse fu per un eccesso di solitudine, per il bisogno di ritrovare un volto amico in quell’anonimato di carne a perdita d’occhio, che Arrigo riconobbe uno dei due adolescenti ispidi per la fame, che s’erano avventurati, non molto tempo prima, a recuperare un pezzo di pane in una notte di pioggia senza fine. Negli ultimi momenti rimasti, si presentarono:
         -“Tenente Arrigo Drusiani”- tese la mano Arrigo, ricordandosi il proprio nome a malapena.
         -“Standschutzen Halle”- rispose il ragazzo, tirandosi indietro un passo. Guardò la mano tesa, che non poteva stringere, e preferì salutarlo continuando a sorridere, mentre si allontanava: -“ Addio, italiano, vattene”-
         E quel sorriso era così limpido e terso che rimase nell’aria ancora per molto tempo: una tiepida impronta, dopo che il buio ebbe cancellato le tracce dello standschutzen Halle, mentre nella trincea italiana fermentava già la nuova offensiva, e gli ordini venivano urlati da ogni parte, e ovunque “sior tenente! Sior tenente!”. E Arrigo avrebbe voluto domandare all’Austriaco ancora tante cose, qual era il suo nome, e quanti pochi anni aveva. Che cosa faceva nella sua vita da civile, se andava ancora a scuola, se era un figlio amato. E se a piangere per la fame di quella notte era stato proprio lui, oppure l’uomo che avevano tentato di soccorrere, e per il quale avevano pregato nella buca. 
         Dopo la guerra, Arrigo si dimenticò a lungo di lui. Non lo trovò tra i morti, né tra i soccorritori dei feriti a venire, non ne seppe più nulla nel caos della smobilitazione. Malgrado ciò, a distanza di molti anni, l’episodica amicizia del tenente Drusiani con lo standschutze Halle giunse per vie traverse, mai del tutto chiarite, a conoscenza delle Autorità militari italiane: e con grande clamore fu censurata come condotta riprovevole e indegna di un ufficiale, con riserva di vagliarne l’imputabilità per alto tradimento. 
         Accadde quando il colonnello Riccadonna, con un’avventatezza che non riuscì a perdonarsi, ebbe l’idea di proporre Arrigo Drusiani per la decorazione al merito, e un avanzamento di grado: poiché credeva più alla sostanza dei fatti che alle male lingue del Circolo Ufficiali, formulò la richiesta senza tener conto della capacità distruttiva delle invidie, né delle vie infinite della mormorazione.  
         Fu così che del tutto inaspettatamente, accanto ai “fulgidi esempi di attaccamento al dovere”, nel fascicolo personale del Drusiani apparvero altresì, come scheletri emersi da chissà quali armadi, appunti e segnalazioni secondo cui il tenente “si mescolava alle truppe senza tenere nella dovuta considerazione il proprio rango e il ruolo di comando”, “era solito intrattenere eccessiva confidenza con i subordinati, con una spiccata preferenza per le giovani reclute”, fino all’estremo più grave: “in più occasioni ha intrattenuto contatti non autorizzati con le Forze armate avversarie”.
         Il colonnello Riccadonna rimase sbigottito: forte della sua esperienza maturata non solo sui terreni di guerra, ma anche su quelli ben più infidi dei Comandi, mai avrebbe pensato d’andare a scoperchiare un tale nido di vipere. Si scusò con Arrigo, che grazie al suo intervento, invece d’esser decorato e promosso capitano, fu convocato d’urgenza al Comando di Presidio, per rendere conto della sua “intelligenza con il nemico”.  
         Le alte sfere s’impegnarono in una lunga disanima per soppesare i meriti del tenente Drusiani, confrontandoli con l’enormità dei suoi demeriti. Si valutò con “grave e ponderata coscienza” se sussistevano gli estremi per un deferimento in piena regola alla Corte marziale, che valesse da esempio per tutti coloro che, all’epoca, erano contagiati dalla peste del disfattismo: come precisarono gli alti papaveri del Comando, molti dei quali avevano deciso le sorti del conflitto a tavolino, “anche volendo sorvolare sulle accuse più imbarazzanti”, doveva in ogni caso “considerarsi lesiva dell’eroico sacrificio dei nostri caduti”, anche solo l’idea di decorare un ufficiale che aveva dimostrato di non comprendere affatto “l’anelito profondo delle Terre Irredente a riunirsi entro i sacri confini della Patria”. 
         Fu soltanto per l’impegno profuso dal colonnello Riccadonna, che Arrigo riuscì a cavarsela con un semplice congedo volontario, e la rinuncia definitiva alla carriera nell’esercito: per la prima di tante volte a venire, Arrigo Drusiani si trovò in mezzo alla strada dopo aver perso tutto, ma con il beneficio dell’integrità di coscienza.
         Il colonnello Riccadonna, che lo amava come un figlio e non riusciva a darsi pace per l’accaduto, brigò per arruolarlo nel corpo delle Guardie Regie per la Pubblica Sicurezza, la polizia dell’epoca: Arrigo poté entrarci con quel grado di tenente ch’era ormai destinato a rimanergli addosso come una seconda pelle, per il resto della sua vita.
 
 
[1] Gli standschutzen erano un corpo militare volontario formato prevalentemente da uomini molto giovani o già anziani, incaricati della difesa del territorio del Tirolo.
  
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