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Autore: rainbowdasharp    14/11/2017    1 recensioni
"Ricordai tutto.
La discussione con Reiden, l'incontro con la giovane sirena, le entità minori, lo stormo di demoni e... la pioggia di sangue. La mia ombra, la forma più primitiva dei poteri che controllavo sin da quando ero uno stupido moccioso, che rovesciava completamente la normalità, squarciando il cielo, distruggendo tutto ciò che incontrava sul suo passaggio – persino il corpo del suo possessore."

Un breve spaccato di una storia che con un'amica coltivo da anni, un assaggio di quello che Hexerei Douglas è stato, è e diventerà.
Genere: Dark, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Piccola, piccolissima premessa prima di iniziare a leggere di Hexerei Douglas.
So bene che questo è un azzardo, da parte mia. Lasciare qui un breve, brevissimo spaccato della sua storia complicata è forse una delle cose più azzardate che abbia mai fatto, da quando scrivo. Eppure, essendo questo uno degli scritti di cui, in definitiva, vado più fiera, mi dispiaceva non condividerlo con terzi, nel caso in cui attiri l'attenzione di qualcuno. Hexerei è il personaggio che ho creato a cui sono più affezionata in assoluto; è l'anti-eroe che ho sempre desiderato create - sbagliato, confuso, chiuso in un mondo fatto di specchi che narcisisticamente lo ritraggono indistruttibile.
Questa è la storia di come Hexerei ha visto infrangersi tutti questi specchi in un colpo solo, in cui ha dovuto accettare di dover essere aiutato da qualcuno e di doversi aprire. E forse è per questo che mi piace tanto: è il suo primo, vero momento di fragilità.
Il titolo è tratto da un interessantissimo articolo di Freud circa la letteratura fantastica tardo ottocentesca, tradotto in italiano con il "perturbante". Ciò che Freud voleva intendere, però, è più simile al concetto del "familiare che diviene estraneo", così da generare turbamento - esattamente quello che succede ad Hexerei in questa storia.
Se avete letto fin qui e siete ancora curiosi di conoscerlo, accomodatevi pure.  

 

「 DAS UNHEIMLICHE 」

Quando riaprii gli occhi, la prima cosa che riuscii a riconoscere fu un soffitto grigio – per un attimo, ebbi la sgradevole sensazione di avere già vissuto quella scena. Una sorta di sadico deja-vu, un ricordo spiacevole di un brutto sogno che mi perseguitava persino adesso che ero sveglio.
Ma ero sveglio?
Il mio corpo sembrava volermi convincere di sì; mi sentivo fiacco, con difficoltà a sollevarmi quanto meno a sedere, la bocca piena di un sapore acido, quasi l'avessi tenuta serrata troppo a lungo (a tal proposito, mi faceva male anche la mascella). Riuscii infine, solo grazie alla mia caparbietà, a sollevarmi seduto sul letto: la stanza era la stessa, insopportabile camera spoglia in cui ero stato costretto per settimane, febbricitante e debole. Il solo pensiero bastò a rovesciare il mio stomaco e quando, sprezzante, azzardai un mezzo sorriso perché ormai mi ero rimesso del tutto, ricordai.
Ricordai tutto.
La discussione con Reiden, l'incontro con la giovane sirena, le entità minori, lo stormo di demoni e... la pioggia di sangue. La mia ombra, la forma più primitiva dei poteri che controllavo sin da quando ero uno stupido moccioso, che rovesciava completamente la normalità, squarciando il cielo, distruggendo tutto ciò che incontrava sul suo passaggio – persino il corpo del suo possessore. Sentii la cicatrice ardere di nuovo con l'intensità di un tizzone ardente, costringendomi a soffocare a denti stretti un gemito di dolore ma facendomi così pateticamente perdere l'equilibrio e cadere supino sul pavimento, il volto rivolto verso le fredde ed anonime mattonelle bianche.
Ringhiai, ma non di dolore – no, di ira. Come osavano i miei poteri, ciò che mi scorreva nelle vene e che mi aveva segnato dalla nascita ad una vita di sciagure, ribellarsi al proprio padrone? Mi sollevai nuovamente, stavolta sui gomiti ed osservai con odio la mia ombra che, adesso, giaceva sul pavimento, piatta.
Fu in quell'esatto momento che, forse attratta dal trambusto che avevo causato, nella piccola stanza entrò Luce: aveva i capelli in disordine, il volto roseo stanco e segnato da una preoccupazione che mi diede la nausea – cosa ci faceva ancora questa dannata ragazzina nei dintorni? Cosa voleva da me? Lo spettacolo del centro di Londra non le era bastato?
Eppure, non mi diede il tempo di aprire bocca, no; con un sorriso gentile (peggio di una lama) si inginocchiò di fronte a me e mi posò con dolcezza quasi materna una mano sulla fronte, forse per accertarsi che non avessi la febbre.
Mi ritrassi immediatamente, ignorando le proteste delle mie gambe, forse ancora intorpidite dal risposo forzato: cosa pensava che fossi, un umano qualunque? Io ero un mago, forte abbastanza da distruggerla in una manciata di secondi. Lei, dopotutto, non era altro che una pedina dall'aspetto appetitoso – in quanti potevano vantare di avere una sirena tra le proprie fila? Erano solitamente creature solitarie e diffidenti, chiuse nei loro branchi, senza aprirsi minimamente al dialogo con le altre specie. Qualsiasi fosse la sua visione, chiunque sano di mente quel punto se ne sarebbe andato.

Anche Reiden, supponevo.
«Dov'è mio fratello?» chiesi, con stizza che cresceva di pari passo alla preoccupazione, alla... paura. Se n'era andato davvero? Aveva—visto che cos'ero diventato, cosa ero sempre stato, persino da bambino? Che suo fratello maggiore non era altro che, agli occhi di tutti, un mostro?
«Sta bene» mi rispose la ragazza, senza dar alcun cenno di essersi offesa al mio evidente rifiuto. «Non è qui, ma sta bene. Sei rimasto privo di sensi per un giorno intero, Hexerei» mi informò, con la voce sottile, che quasi si disperse in un sussurro così veloce che feci fatica a coglierlo.
Non era sincera.
«... Quanto? Dimmi la verità» le intimai, mentre mi sollevavo da solo, seppur con difficoltà; lei, intanto, si era avvicinata al letto su cui ero rimasto disteso fino a pochi minuti prima, spianando con le mani affusolate le lenzuola con gesti ripetitivi, temporeggiando ed esitando nel rispondermi. Poi si fermò e si voltò verso di me, con lo sguardo basso.
«... Una settimana» sospirò infine, guardandomi quasi con dolore, come se... stentasse ad associare l'uomo che aveva davanti con quello che aveva conosciuto sulle sponde del Tamigi; come se una settimana avesse drasticamente cambiato tutto quello in cui credevo, compresa la mia stessa identità.
E fu in quel momento, nel quale abbassai lo sguardo incredulo, che mi resi conto di cosa mi aveva infastidito maggiormente sin da quando mi ero svegliato; era come un ronzio, una specie di continuo e mutuo formicolio che disturbava i miei movimenti nelle mani e quando per sbaglio vi poggiai lo sguardo...
Tremavano. Le mie mani, le mie dita in particolare, sembravano essere continuamente percosse da minuscole scosse e, inquiete, non riuscivano a stare ferme. Le sollevai, a metà tra l'inorridito e l'esasperato, osservandole come se non fossero neanche i miei stessi arti e quelle, beffarde, ormai del tutto scollegate dalla mia volontà, continuavano nel loro agitarsi lieve ma comunque impazzito.
Ancora una volta, Luce intervenne. Le nascose prontamente alla mia vista, imprigionandole tra le sue mani perfette, pallide e tranquille, un po' come lei – tutto il contrario di me. E contro la sua pelle, l'incontrollabile tremore era ancora più evidente: sentivo con chiarezza i movimenti sconnessi delle mie dita e per quanto quello avrebbe dovuto essere un gesto rassicurante... non lo fu affatto. Alla stregua di un fenomeno da baraccone, contro la sua figura quasi splendente, tutte le mie bruttezze, debolezze, ingiustizie venivano evidenziate con una prepotenza quasi dolorosa e mai come in quel momento mi resi conto di quanto piccolo ed insignificante fossi. Cos'era rimasto, di me? Un ragazzino gonfiato del suo ego, senza alcun titolo, alcuna forza, alcuno scopo – solo semplice e puro orgoglio. E fu lei, la piccola e minuta sirena che avevo raccolto come un gioiello da esporre nella mia perversa collezione, a mostrarmelo.
E mai, mai come allora, mi trovai ad odiarla con tutto me stesso.
Quel sentimento si tramutò all'istante in una reazione fisica: con uno scatto, il volto sfigurato in una smorfia mostruosa, mi liberai della sua presa, di quelle mani che mi accecavano d'ira e portai le mie, perse ed incontrollate, al suo collo – piccolo, così fragile che, lo sapevo, con un minimo di forza avrei potuto spezzare per sempre. La sollevai, senza il minimo indugio e la sbattei con prepotenza al muro, urlando cose insensate: ero al limite. Anni di odio, ansia, preoccupazione, paure celate e nascoste nel profondo della mia anima stavano uscendo con la violenza di un'eruzione vulcanica – sarebbe morta soffocata? Per mano mia? In qualche parte della mia mente, non saprei giudicare se ancora in sé o meno, rise – una risata lugubre, spietata, che apparteneva all'Hexerei che Chimera aveva con tanta cura cresciuto. Mi chiese cosa sarebbe cambiato – l'ennesima vittima, altro sangue versato... cosa facevano gocce di pioggia in un oceano già esteso?
La sentii muoversi, cercare aria disperatamente, agitarsi appena, priva di forza ed aggrapparsi con le mani perfette alle mie, ancora tremanti. Mi aspettai una reazione, un tentativo di fuga così come nei suoi occhi cercavo lo stesso odio che ero sicuro ardesse nei miei.
Invece, Luce non fece niente di tutto questo. Persino in quell'istante, il suo sguardo fu dolce ma fiero, la sua presa sicura seppur flebile; tra le mie mani, ardeva lo spirito di una giovane Giovanna D'Arco, la speranza così radicata nel suo cuore, la purezza così parte del suo essere che neanche il mio odio poteva scalfirla.
Prima che me ne rendessi conto, la lasciai andare. Barcollai all'indietro, esausto, fin quando non trovai il letto alle mie spalle, mentre la piccola sirena, caduta a terra con un tonfo sordo, annaspava, tossiva, respirava con avidità e si massaggiava il collo, chiaramente rosso persino tra le ciocche dei suoi capelli rosati.
«... Vattene» sibilai, stringendo i pugni, per quanto possibile nelle mie condizioni, sulle lenzuola; com'era possibile... ? Come poteva essere così stupida? Ancora poco e l'avrei uccisa. Avrebbe potuto essere già morta, se solo avessi stretto prima la presa. Eppure, quando sollevò lo sguardo, ebbe ancora la forza di sorridermi. Luce, piccolo diamante del mare, mi sorrise come se tutto andasse bene, come se non dovessi preoccuparmi di nulla.
Non era stupidità la sua. Era dignità, fermezza, fede. Qualunque cosa la spingesse a farlo, lei credeva in me - sentii di nuovo il peso di ciò che non esperivo ormai da qualche anno - aspettative, fiducia. Eppure—eppure era diverso da Chimera. Non ordinava, non richiedeva; mi accudiva, mi spingeva con delicatezza, con la gentilezza di una madre che segue il figlio nei suoi primi passi.
Ormai ero una larva.

Terzo giorno dal mio risveglio; le tende, di un azzurro pallido, erano solo in parte chiuse, così che qualche spiraglio di sole entrasse nella stanza; di certo, quel lieve tepore non bastava affatto a riscaldare la stanza, non in una giornata di febbraio fredda come quella. Sedevo sul letto, vestito con qualche abito semplice ma pulito, lo sguardo perso nel niente al di fuori della finestra. Cosa aspettavo, guardando il paesaggio fittizio che celava la realtà caotica di Londra? Risposte, paradossalmente. Dissipata la furia cieca del mio risveglio, avevo cominciato a fare una rassegna dei danni subiti negli ultimi mesi e che ormai non potevo più imputare alla mia sola perdita di controllo e li elencai di nuovo punto per punto nella mia mente, proprio in quel momento.
Il cambiamento più radicale, oltre alle mie mani (ora accuratamente fasciate fino ai polsi, nonostante le ferite fossero tutto meno che fisiche), era sicuramente quello nel mio aspetto. Luce aveva impiegato un'ora a spiegarmi, sempre con la sua voce fioca e sottile, come il giorno della mia “esplosione” a Londra avesse individuato tra i miei capelli una fugace quanto fuori posto ciocca di capelli biondo platino e come, mentre ero privo di sensi, quel colore per me estraneo avesse preso prepotentemente possesso della mia nuca. Ormai quasi tutti i miei capelli avevano lo stesso colore del sole – inusuale, quanto mai paradossale su una persona come me – e anche i miei occhi, quasi come una conseguenza naturale, si erano fatti dai toni meno grigiastri e più azzurri, come se improvvisamente avessero trovato una diversa carica vitale.
La mia perdita di identità, però, non terminava qui purtroppo: il mio tratto più distintivo, ciò che mi aveva così tanto marchiato sin dalla nascita che mio padre ne aveva tirato fuori il mio nome, ciò che avevo imparato non a nascondere ma bensì ad esibire con fierezza, la mia cicatrice... stava svanendo. Senza alcuna ragione aveva cominciato a sbiadire, come un trucco ben congegnato, una realtà soltanto illusoria da cui mi ero lasciato influenzare per tutta la vita. Ormai non c'era quasi più traccia di essa sul mio volto, se non un pallido segno verticale, una mera scanalatura sulla guancia, più simile ad una lacrima cristallizzata che ad uno sfregio che andava oltretutto dissolvendosi di ora in ora.
Qualunque cosa mi avessero fatto, stavo sprofondando nel mondo della normalità – ciò a cui avevo sempre sbattuto le porte in faccia io, per primo, per non trovarle chiuse più tardi da altri aveva non solo spalancato quelle ante, ma mi stava trascinando per i piedi costringendomi a raggiungerli. Stavo addentrandomi nel mondo che avevo imparato a disprezzare e a deridere con una tale violenza che adesso mi sentivo disorientato, perso, senza più alcun appiglio per cercare di risalire... Più ci pensavo, più mi sembrava tutto una lunga e studiata punizione, una sorta di legge del contrappasso dal sadismo ben più spiccato di quello del poeta fiorentino, perché qui mi si stava condannando ad una vita mediocre e banale, quando di banale, lungo la mia esistenza, non avevo avuto niente – neanche quando l'avevo desiderato.
L'altro cambiamento radicale, che però non era così facilmente individuabile a prima vista, era la totale scomparsa dei miei poteri. Di questo mi ero già accorto al mio risveglio, a dirla tutta, ma metabolizzarlo non era stato propriamente semplice: quando ciò che riesci a fare comincia a non solo farti definire dagli altri ma anche da te stesso, perderlo equivaleva a perdere la tua stessa persona. Tutto ciò su cui potevo contare, adesso, era la mia conoscenza di magia nera e bianca, da incanalare con l'energia di un mago qualunque (seppur sopra la media; dopotutto i Douglas non erano esattamente maghi comuni...) e poco più. Niente mostri e bestie che ringhiavano nella mia ombra – solo incubi leggeri, ricorrenti ma privi di senso, di certo non abbastanza da spaventare qualcuno. Non ero totalmente indifeso, questo no, ma ero sicuramente una preda facile, al mio stato attuale e io avevo—troppi nemici. Troppi.
Infine...
La porta si aprì lentamente e, con una lieve esitazione, il volto di Luce fece capolino da dietro la porta – non era paura la sua, quanto più (ancora una volta) gentilezza nel non invadere i miei spazi. Nonostante questo suo atteggiamento così puro mi irritasse ancora profondamente, abbastanza perché a volte la maltrattassi verbalmente (raro, non da me – ennesimo cenno delle mie attuali insicurezze), avevo imparato a sedare i miei istinti disperati ed avevo accettato la realtà che mi si era posta davanti: la odiavo perché la invidiavo. Invidiavo la sua forza silenziosa, pacifica, l'ardore nel suo sguardo persino quando la sua vita era minacciata, la capacità lasciare la scelta agli altri persino quando lei stessa era in pericolo – non avevo mai considerato, in vita mia, l'esistenza di una simile potenza; l'avevo sempre considerata stupidità, qualcosa che apparteneva a chi era troppo debole per voler aprire gli occhi sulla realtà.
Il mondo era crudele, dopotutto. E i forti dovevano diventarlo con lui... tranne lei.
«Reiden è appena uscito» mi disse, la sua voce più chiara, cristallina come se avesse imparato nuovamente a parlare. L'avevo sentita cantare soltanto due volte – la prima ero troppo preso dall'impazzire per prestarle alcuna attenzione, la seconda... beh, mi aveva addormentato, in pratica. La mia curiosità sul sentirla intonare qualche nota, dunque, era andata aumentando, in quei pochi giorni, soprattutto perché in mia presenza non lasciava mai trasparire la sua voce in modo brillante, diversamente da come invece si era presentata sulle rive del Tamigi. Supponevo che la solitudine mi annoiasse a tal punto dal farmi interessare all'unico essere vivente che avevo visto in quei giorni.
«Ti ha detto dove andava?» chiesi, apparentemente senza alcuna emozione nella voce.
Di tutto quel che mi era accaduto, Reiden era sicuramente la perdita più grande che avevo subito. Al di là del nostro screzio a cui, per quanto difficoltoso da gestire, avremmo potuto anche porre rimedio in un secondo momento, ero più che certo che dopo quanto accaduto in città mi odiasse. Non solo, ma doveva anche essere terrorizzato da me, da quello che ero (beh, non più a quanto pareva) capace di fare, come se avesse incontrato finalmente il mio vero volto e vi avesse visto un mostro. Non negavo ciò che ero e non rinnegavo quel che avevo fatto durante tutta la mia vita ma, ormai non potevo più nasconderlo a me stesso, di fronte a lui me ne vergognavo. Sapere che l'unica persona per cui avevo disperatamente lottato, ucciso, accresciuto quei poteri che da bambino odiavo poteva ben immaginare tutta l'oscurità di cui mi ero imbevuto senza però conoscerne a fondo le ragioni era a dir poco doloroso; avevo accettato tutto, l'avevo mostrato con fierezza, il sangue non mi spaventava, bensì mi dava un brio di potenza, di ebbra soddisfazione, era vero; tutto ciò che qualunque essere vivente con un briciolo di etica avrebbe condannato, io l'avevo fatto mio senza esitazione. Non era un percorso che si poteva affrontare con dubbi e remore, avevo abbracciato l'oscurità lasciando alle mie spalle il fantasma del bambino che piangeva in silenzio quando Reiden dormiva.
Poi era cambiato tutto quando ci eravamo ritrovati: sotto le ceneri della distruzione, le pozze di sangue che avevo versato, nella mia anima quel bambino si era risvegliato, forse. Lentamente, aveva cominciato a muoversi, a sollevare il capo dallo sporco che lo circondava, nel tentativo di afferrare la mano di suo fratello minore.
Vano tentativo. Reiden non c'era – né fisicamente né emotivamente; mi aveva abbandonato perché avevo tradito i suoi ricordi, le sue aspettative, la sua fiducia. Gli avevo nascosto troppe cose, su di me e su di noi, perché riuscissi a tendere la mano nuovamente verso di lui... o meglio, avrei potuto, ma non senza aspettarmi di essere violentemente respinto.
«No, è stato silenzioso come sempre» mi riportò e persino la sua voce mi trasmise una sorta di delicatezza nel confermarmi che sì, mio fratello mi odiava – addolcire la pillola non bastava di certo a lenire lo squarcio che sentivo dentro, ma non protestai quando mi si avvicinò per togliermi le fasce dalle mani. Era tranquilla vicino a me, nonostante i segni che aveva ancora sul collo, violacei e terribili. Lo aveva detto a Reiden? Reiden aveva capito, guardando quei lividi, che ero io il responsabile? Distolsi lo sguardo, codardo come poche volte ricordavo di essere stato, animato da una strana pesantezza all'altezza dello stomaco. Luce, intanto, continuava a guardare le mie mani tremanti, carezzandole con delicatezza come se quei soli gesti potessero bastare a guarirle. Guarire da cosa, poi... ? Non sapevo niente, niente. Avevo perso da tempo il controllo della situazione e bastava guardarmi per capire che non sarei stato in grado di riprenderne le redini così in fretta.
Ammetterlo faceva male, ma... Non sapevo cosa fare.
«L'ho perso» mi sfuggì, seppur dirlo non avrebbe cambiato l'irrimediabilità delle cose. Avvertii chiaramente lo sguardo della ragazza sollevarsi dalle mie mani verso il mio volto, ancora preso dal paesaggio fittizio fuori dalla finestra; sapevo che non si aspettava niente da me, men che meno una simile ammissione improvvisa, inaspettata. L'unica risposta che mi seppe dare fu una carezza sul volto, un sorriso dolce che colsi solo con la coda nell'occhio – sembrava sollevata, anche se onestamente non capivo da cosa.
«Non puoi dirlo con certezza» si spiegò dunque, cercando ancora il mio sguardo. Alla fine, cedetti e affrontai i suoi occhi color rubino, sereni ma ancora pieni di quell'ardore che mi aveva colpito tanto qualche giorno prima – ferito, quasi. «Non conosco niente di voi, ma è evidente che vi vogliate bene. Quando c'è amore, nessun litigio è definitivo». Era un modo di ragionare così ingenuo e stupido che avrei dovuto mettermi a ridere, ma... detto da lei, sembrava così reale. Forse era la consapevolezza di aver perso qualunque cosa, forse la debolezza mi aveva fatto impazzire definitivamente, ma le credetti. Credetti alla possibilità di poter mettere apposto le cose, di potere almeno l'unica persona di cui mi era mai importato veramente qualcosa.
«... Perché lo fai?» le chiesi, all'improvviso. Di nuovo. Sembrava che le parole sfuggissero alle mie labbra; era lei ad abbassare le mie difese? Era lei a tirare fuori le mie incertezze, ad indebolirmi con i suoi sorrisi, le sue premure, i suoi sguardi pieni di speranza? La odiavo, fino a qualche ora prima. Anzi, ero piuttosto sicuro di odiarla ancora perché nessuno poteva permettersi di manovrarmi a quel modo, neanche inconsapevolmente.
Eppure, non pensai neanche per un momento di allontanarla da me; la rabbia si stava tramutando in qualcosa che non avevo mai neanche sfiorato, qualcosa di nuovo e—spaventoso.
Le sfuggì una risata leggera e poi scosse la testa, lasciando che le lunghe ciocche rosate si muovessero allo stesso tempo. «Forse perché sono stupida» ammise, eppure non c'era alcuno scherno nella sua voce, come se non lo ritenesse una colpa, una mancanza. Ma che razza di creatura era, questa... ? «O forse perché sono sola anche io... Sola, confusa, con poca fiducia in me stessa». Strabiliante come una persona potesse equivocare così tanto se stessa; ai miei occhi, Luce poteva apparire sola, forse, ma era animata da una volontà così forte, da una fermezza così evidente che ben immaginavo perché il branco l'avesse isolata – una simile forza di volontà, soprattutto armata di un candore così genuino, era pericoloso. Oppure mi stava prendendo in giro, recitando la parte della buona samaritana per poi tradirmi quando meno me lo aspettavo?
Mi bastò un'altra occhiata al suo volto per rispondermi e, ancora una volta, provai un senso di disagio di fronte ai suoi occhi.
«Nessuno dovrebbe lasciarsi trattare così» mi sorpresi nel dire, sottintendendo quello che le avevo fatto, per poi schioccare la lingua con frustrazione, rimproverandomi; mi sentivo così stupido perché mi rendevo conto di quello che stavo facendo: cercando la sua approvazione. Ero solo, abbandonato a me stesso persino da quello che credevo di essere e ora dovevo aggrapparmi disperatamente a qualcosa, come mi ero aggrappato a Chimera per fuggire da Villa Douglas.
Non era cambiato niente, ero ancora un bambino disperato, incapace di proteggere quello a cui teneva, senza il minimo potere, indifeso e in cerca di qualcosa – allora Chimera, adesso Luce... ?
«Hai ragione» mi rispose, senza la minima esitazione, ma non mi stava né accusando né rimproverando ed io ero sempre più confuso da lei, da me, come se improvvisamente mi trovassi in un mondo completamente diverso, un altro pianeta addirittura. Ritrasse appena le mani giusto per riprendere a fasciare con cura le mie, ancora incapaci di fermarsi, fuori controllo come tutto quello che mi circondava. Le accarezzò appena, poi la sentii inspirare a fondo, come se volesse darsi coraggio. «Ho pensato di andarmene, quando ti sei svegliato» iniziò, ancora con lo sguardo rivolto verso le mie dita, adesso ricoperte dalle bende pulite. Almeno potei consolarmi – una reazione razionalmente accettabile, finalmente; certo, c'era anche da dire che il suo istinto non le aveva imposto di fuggire da me, ma potevo cominciare a pensare che qualcosa di comprensibile era rimasto per me. «Poi però ho pensato a—queste» continuò, mentre stringeva delicatamente le mie mani inutilizzabili nelle sue, con cura, come se le considerasse importanti nonostante il loro handicap e le sue parole furono ancora più assurde: aveva pensato alle mie mani? Dopo che l'avevo quasi soffocata? Era forse masochista? Non me ne sarei di certo stupito, a quel punto e dopotutto non era la prima ragazza che mi capitava tra le mani ad avere questi interessi, ma... non era questo. No, intendeva qualcos'altro che a me, a quanto pareva, sfuggiva del tutto. «Quando mi hai—afferrato, ho sentito come tremavi. Se tu...» Un'altra pausa, lo sguardo che improvvisamente si sollevava verso di me, forse per sorprendermi perché voleva che la guardassi con sincerità, quasi sapesse della maschera che portavo e che ormai era a pezzi, frantumata e piena di crepe e volesse cogliere il mio vero volto, perché era avida sì, ma di conoscere quello che secondo lei le mie mani rivelavano. «... Se tu fossi il mostro che mi hai lasciato credere in città, tuo fratello non sarebbe stato il tuo primo pensiero».
Cadde il silenzio.
Non riuscii a reagire in alcun modo – forse la stanchezza, forse la rassegnazione e la debolezza che si avviluppava a me come un parassita influirono in quel momento e mi impedirono di spingerla va, di allontanarla subito da me – ma mi resi conto che lei vedeva. Non avevo idea di come fosse possibile, considerando che mi conosceva da poco più di dieci giorni, dei quali ne avevo passati sette privi di coscienza, eppure era innegabile che avesse messo a fuoco la mia principale debolezza, Reiden. Come diceva Chimera, se solo mi fossi liberato di quel legame, allora—allora sarei stato perfetto, forte abbastanza da mettere a soqquadro il mondo ma era proprio in nome di quel legame che avevo sempre combattuto. Era un conflitto a cui non sarei mai riuscito a porre rimedio, forse lo stesso conflitto che aveva portato alla mia lenta ma inarrestabile perdita di controllo.
«Le tue mani—non sono malate. Ho provato a curarle con la mia voce, sono solo... una manifestazione di quello che senti dentro». Riprese a parlare, gli occhi vivi di speranza – quella di rendermi un mostro inoffensivo? Di rendermi una persona migliore, in grado non solo si proteggere gli altri ma anche... se stesso? «Quando ti sei svegliato, hai—lasciato libero sfogo alle tue emozioni, credo. Per questo le ho accettate, per questo non ho paura di te. Il tuo cuore è animato da sentimenti che tu neghi, respingi chiunque prima che ti si possa avvicinare proprio perché non riusciresti più a nascondere questa forza emotiva che hai. Sei sensibile, Hexerei. Passionale e...» Ancora un altro respiro, come per calmare la voce che era andata alzandosi, in un crescendo melodioso e convincente, come se mi stesse illudendo. Mi stava dando qualcosa di nuovo, Luce, qualcosa in cui non avrei mai pensato di poter credere. «... E forte. Devi solo accettarlo ed avvicinarti a chi ami» e così sembro concludere il discorso, almeno finché forse credette di essere suonata troppo imperiosa e quindi si affrettò ad abbassare nuovamente lo sguardo. «O meglio, questo è—quello che credo io! E quello che ho visto in te».
Nessuno dei due aggiunse altro; quel suo attimo di imbarazzo leggero, così banale a discapito della situazione che invece si faceva sempre più assurda, bastò a far sì che nessun'altra parola venisse spesa inutilmente. Era stata la conversazione più lunga e sicuramente più profonda che avessimo avuto fino a quel momento e fu quell'attimo ad accendere qualcosa nel mio animo, qualcosa che credevo di conoscere e che invece non avevo mai neanche assaporato.
Ma c'era ancora tempo.

 

 

Quinto giorno dal mio risveglio, ancora nessun contatto con Reiden. La finestra era aperta, lasciando che il sole fittizio illuminasse il letto su cui sedevo a gambe incrociate, tra i fogli sparsi che avevo riempito di scritte in una calligrafia terribile, colpevoli le mani che ancora tremavano come se esposte ad un gelo perpetuo.
Alla lista dei danni che avevo precedentemente stilato mi ero visto costretto ad aggiungere l'ennesimo punto: gli incubi, anche se forse non era questa una definizione corretta: non erano, infatti, propriamente brutti sogni, a dirla tutta, quanto più avrei potuto definirli sogni non miei; si trattava di brevi spaccati visti da occhi altrui, spesso raffiguranti un ragazzo dai tratti androgini e i grandi occhi color ametista che non avevo mai visto e a volte... Reiden. Quindi davvero, non riuscivo a capire se si trattasse della mia memoria che mi prendeva in giro, oppure se si trattasse di qualche specie di visione proveniente dall'esterno o, ancora, se mi fosse davvero concesso di vedere nella mente di qualcuno che non avevo idea di chi fosse.
Come di consuetudine ormai, Luce si affacciò alla stanza proprio mentre ero perso in questi pensieri, con indosso un abito bianco che non arrivava a coprirle le ginocchia, di lana traforato, i capelli raccolti in uno chignon morbido, basso, probabilmente fatto di fretta mentre preparava il pranzo e un foulard leggero che le copriva il collo, ancora segnato dalle mie mani. Inutile dire che le dedicai un'occhiata più lunga di quanto non mi andasse di ammettere. La colsi persino sorridere con la coda dell'occhio, come se a suo giudizio fossi improvvisamente guarito da qualsiasi cosa mi stesse affliggendo quando era ovvio che non fosse così... Tuttavia (questo dovevo ammetterlo) non potevo neanche passare l'esistenza ad autocommiserarmi per la perdita dei miei poteri e del mio io e, per quanto continuassi a rimandare una discussione con mio fratello minore, potevo almeno darmi da fare in tutto il resto.
Era per questo, dunque, che aveva sorriso?
(Avrei dovuto, piuttosto, chiedermi perché mi interessasse tanto sapere quello che pensava, ma non lo feci mai – la risposta non sarebbe stata di mio gradimento.)
«Il pranzo è pronto. Tuo fratello ha portato via quello che gli avevo preparato, immagino che non rientrerà prima di sera» mi informò, sedendosi vicino a me e sbirciando con curiosità malcelata i fogli che stavano sparpagliati sulle lenzuola. Stava diventando sempre più invadente ma senza per questo pretendere ulteriore spazio: a poco a poco, aveva semplicemente cominciato a sedermisi accanto, a guardare i movimenti delle mie mani, osservare quello che facevo persino quando rimanevo fermo, perso nei miei pensieri. E io avevo, non si sa bene come, cominciato a dialogare con lei come se mi aiutasse schiarire i pensieri – perché il suo punto di vista innocente ed esterno, seppur non stupido, mi tornava utile quando io complicavo troppo i fili già estremamente ingarbugliati di quella matassa.
«Quanto capisci di magia utilizzata dagli umani?» le chiesi per l'appunto, senza però sollevare lo sguardo verso di lei; avevo imparato che era meglio non farlo, se volevo rimanere abbastanza concentrato e non cominciare a chiedermi altre mille cose sul suo conto, piuttosto che sulla critica situazione che stavamo affrontando. Qualunque cosa stesse succedendo al mio cervello, non stava affatto collaborando a risolvere le cose, soprattutto quando lei entrava nel mio campo visivo.
«Qualcosa» si limitò a dirmi, mentre allungava le mani affusolate e piccole verso uno dei primi fogli che avevo riempito di fretta, quello che raccoglieva tutto quello che ricordavo mi era stato detto sui miei poteri e quelli di Reiden, ciò che ci rendeva “mostri” a parere loro e lo studiava con un certo interesse, senza farsi sopraffare dalle emozioni contrastanti che ero sicura provasse. La sua mal sopportazione per le ingiustizie era la caratteristica che meglio avevo compreso, di Luce. «“Maledizione”... ? Il tuo nome?» mi chiese e stavolta non potei decisamente ignorare il suo sguardo; sembrava, più che inorridita, piuttosto stupita dal fatto che i miei genitori avessero posto un simile nome sul loro primogenito (immaginavo che avesse avuto genitori più amorevoli dei miei) e si sorprese ancor di più nel vedermi annuire con naturalezza. Era stato mio padre a battezzarmi in quel modo, perché lo terrorizzavo. La mia famiglia era terrorizzata da me, con la sola eccezione di mia madre che, pur di non lasciarmi solo in balia di quegli idioti, mi aveva dato un fratello.
«Ci hanno sempre fatto credere che io e mio fratello fossimo nati sbagliati, per quanto io non ritenessi la mia condizione di certo scomoda» le spiegai brevemente, non sapendo quanto spingermi in avanti con le spiegazioni; riassumere brevemente la nostra storia era alquanto complicato e, persino per noi, spesso ci imbattevamo in punti oscuri, ricordi tolti, sostituiti o manipolati durante lunghe sedute di torture ad opera della vecchiaccia. Il punto era che nella nostra famiglia, io e Reiden eravamo stati gli unici a nascere—diversi – un dato di fatto evidente, considerando il trattamento che ci era stato riservato e come, in quelle enormi segrete sotterranee, fossimo sempre soli. Questa era la realtà che avevo sempre affrontato, quella che avevo sempre dato per scontata, ma... ormai, senza alcuna certezza rimasta, sorgeva spontanea una domanda: e se non fosse stato così? Se fossimo vittime di giochi precedenti, di esperimenti simili a quelli che avevano portato all'autodistruzione i Bradford? «Ma inizio a pensare che siano i Douglas ad avere qualche conto in sospeso di qualche genere. Reiden non ricorda nostra madre, ma io sì, seppur sommariamente...» C'erano ancora troppi nodi; era come trovarsi in un'enorme stanza senza alcuna luce, disporre di una torcia e puntarla sempre sullo stesso punto, in cui ragnatele su ragnatele si intersecavano... Cosa succedeva, se facevo un passo indietro, lasciando che il fascio di luce illuminasse una porzione più grande della parete?
Se i miei poteri, la mia mostruosità, il mio essere nato come una “maledizione” sulla famiglia mi fosse appartenuto dal principio, intessuto nella mia stessa persona, non sarebbe allora dovuto sparire dall'oggi al domani o, quanto meno, avrebbe dovuto lasciarmi in uno stato vegetativo. Chimera mi aveva imposto di studiare ogni tipo di conseguenza all'uso sconsiderato di magia per evocarne di più potenti; similmente agli atleti che, dopo anni di costanti allenamenti, lasciano la carriera sportiva e perdono il fisico così a lungo curato, lo stesso accadeva ai maghi a cui veniva strappato il potere con cui avevano infuso il loro intero corpo: deformazioni, invecchiamento precoce, perdita di qualcuno dei sensi (per quanto le mie mani fossero un problema, avrei dovuto subire danni ben peggiori)... E se la sottrazione dei miei poteri non avrebbe dovuto risolversi in modo tanto fulmineo, non avrebbe dovuto neanche restituirmi un aspetto ben diverso da quello che conoscevo ma che era, paradossalmente, così simile alla madre dai contorni sfumati dei miei ricordi (i suoi colori, i capelli biondo platino, gli occhi azzurri, il carnato pallido ma sano, tipicamente nordico). Era assurdo da pensare, ma l'Hexerei che lo specchio mi mostrava con insistenza da cinque giorni a quella parte era con tutta probabilità l'Hexerei che sarei dovuto essere, il primogenito amato da suo padre e destinato ad ereditare (e anche portare avanti) la casata magica più potente d'Inghilterra. L'Hexerei che mia madre aveva dato alla luce perché crescesse amato e protetto. «La ricordo terrorizzata. Cercava sempre di rassicurarci, di dirci che ci avrebbe portati via, ma poi è stata lei a scomparire». Mi ripeteva di continuo, con Reiden in grembo, che ancora parlava a fatica: “Non mi porteranno via anche voi...” e quelle parole, ora come non mai, presagivano dell'altro – un segreto sepolto nel momento in cui lei era scomparsa dalle nostre vite, un presagio doloroso. Ero sicuro che esistessero incantesimi per evocare i morti, ma nel mio attuale stato ci sarebbe voluta un'energia supplementare (se non due), troppi oggetti che non avevo mai posseduto e soprattutto qualche sua reli— «... Che c'è?» chiesi alla mia interlocutrice, interrompendo così la catena dei miei pensieri che mai fino ad allora si era interrotta; Luce mi guardava stralunata, quasi le avessi rivelato qualche magico trucco per imprigionare la luna.
«... Ti sei aperto» sussurrò e, nel dirlo, quasi pronunciarlo avesse reso più reale quanto appena accaduto, distese le labbra in un sorriso di raro splendore, la cui genuina felicità era così chiara che sembrava di presenziare di fronte ai colori limpidi e caldi dei quadri di Monet. In effetti, se avessi dovuto associarla a qualcosa, probabilmente l'avrei messa a paragone proprio con quelle ripetute rappresentazioni di giardini, acqua chiara e ninfee.
Mi ritrovai a deglutire. «Sto semplicemente facendo ordine di idee, dirlo ad alta voce mi aiuta. Tutto qui». Il tempo di dirlo e rimossi totalmente dalla mia mente l'aver pronunciato questa frase da inetto, che suonava così tanto come una scusa che la risata leggera di Luce che ne seguì per poco non mi fece desiderare di sprofondare sotto terra.
Ero quasi contento di essere nato come mostro, se quel che guadagnavo dal “vero Hexerei” era questa umiliazione.
E poi non mi ero affatto aperto.
Mi schiarii dunque la voce, così da chiudere il discorso prima che lei potesse aggiungere altro. «In sostanza, quello che voglio dire è che mi servono più informazioni su me e Reiden. Se possono rendere—banale me, significa che possono farlo anche a lui. Per di più, qualcuno deve essersi preso i miei poteri, qualcuno che non solo conosce i Douglas, ma che è anche al corrente di fatti che neanche io conosco».
Innegabile: la magia non scompariva, si ricreava semplicemente altrove. Non mi stupiva che i miei poteri potessero far gola al prossimo, ma da un semplice desiderio di avarizia al mettere in atto un incantesimo abbastanza potente da renderlo possibile... Chi tirava le fila della mia decaduta?
Raccolsi prontamente i fogli e Luce, immaginando che volessi spostarmi, lasciò che mi alzassi in piedi; per la prima volta da cinque giorni, mi diressi con passo deciso verso la cucina dove, abbandonato a se stesso per inutilizzo, stava un giaccone nero, lungo fino a metà coscia e lo fissai, un po' titubante, quasi potesse rassicurarmi: non importava quanto mi ripetessi che il mio aspetto non era importante, non mi entusiasmava l'idea di uscire in quello stato, ma dovevo pur iniziare a muovermi, da qualche parte... Dovevo anche trovare il modo di proteggermi con le poche risorse che avevo al momento. Quindi, dopo averlo squadrato per una manciata di secondi, lo afferrai e in fretta sollevai il cappuccio affinché mi coprisse il più possibile il volto. Contavo anche di comprare qualcos'altro con cui nascondermi magari gli occhi una volta fuori.
Sì, stavo uscendo.
«Prendi una giacca, Luce. Stiamo uscendo».
***
Non mi ero mai sentito così—a disagio in vita mia. Era come camminare in una folla di soli sguardi, non di persone, sguardi acuminati come lame che sapevano, erano consapevoli della mia debolezza, della mia incapacità di difendermi. Mi sentivo pungere ovunque e, istintivamente, mi chiusi ancora di più nel giaccone. Luce camminava al mio fianco nel suo cappotto grigio chiaro, le mani coperte da guanti decorati con piccole perline e non sembrava rendersene conto (o, forse, non voleva mostrarsi apprensiva; avevo notato come spesso lasciasse che mi rendessi conto da solo della ridicolaggine di alcune mie preoccupazioni avute nei giorni precedenti, come quando mi ero alterato perché non riuscivo a scrivere in modo preciso).
… Probabilmente ero soltanto io che stavo facendo l'idiota, ancora una volta. La gente mi fissava, sì, ma per lo più erano ragazze e di certo non avevano niente di offensivo nei loro sguardi, anzi – da quando ero diventato così insicuro da non saper riconoscere la differenza tra uno sguardo omicida ed uno evidentemente interessato in ben altro modo che violento?
“Sono messo peggio di quanto pensassi” mi rimproverai, mentre acceleravo il passo per svoltare l'ultimo angolo che ci separava dall'unico posto che, almeno nei paraggi, forse, poteva darmi delle risposte riguardo la mia famiglia – l'Archivio del Consiglio.
Mi fermai proprio di fronte al portone della grande libreria dall'aspetto nuovo ma con un gusto antico, che ricordava in parte quell'arte rinascimentale che, a parere della comunità magica, i comuni esseri umani tendevano con più facilità ad associare a pensieri positivi, piuttosto che la più classica e nordica architettura gotica (la libreria, in quanto negozio, era fittizia, ovviamente; quale miglior modo di nascondere libri che contenevano segreti di stato e non solo se non in una finta libreria di proporzioni gigantesche? Quale sciocco umano sarebbe arrivato sino nelle sezioni apparentemente deserte, quelle senza alcun libro esposto sugli scaffali quando il resto della struttura ne offriva così tanti da perdervisi dentro? Nessuno, appunto) quando ad un tratto avvertii con chiarezza la stoffa sul mio capo scivolare via; mi assalì un senso di disagio fortissimo, come se improvvisamente fossi rimasto nudo come un verme per strada, sotto lo sguardo di passanti che di certo potevano mettersi a ridere da un momento all'altro e percepii con chiarezza una strana sensazione di calore all'altezza delle orecchie, in alto, sui lobi; mi voltai immediatamente, con un broncio accennato, verso la mia--assistente (se così potevo definirla, almeno...) che, con un sorrisetto sornione e colpevole al tempo stesso, mi confermava che sì, era stata lei a togliermi il cappuccio.
«Luce» mormorai a denti stretti e stavo già per rimetterlo, al sicuro a coprire quegli stradannati capelli biondi, quando mi fermò la mano, stringendola tra le sue, coperte dai guanti e mi rimproverò con lo sguardo, come una sorella maggiore più saggia.
… Odiavo davvero questa ragazza, soprattutto per la sua a quanto pareva innata abilità di farmi sentire un totale idiota. «Siamo a Londra e, stranamente, c'è bel tempo. Non credi di risultare più sospetto, incappucciato a quel modo, piuttosto che con una chioma bionda... ?» Dovevo correggermi: la odiavo soprattutto quando aveva ragione – mi ero davvero rammollito a tal punto da non rendermi neanche conto di questo particolare e razionalizzare abbastanza le mie emozioni per prendere la decisione migliore... ? Evidentemente sì. Borbottai, dunque, incapace di ammettere di essermi fatto sopraffare dall'orgoglio e poi, schioccando la lingua, mi avviai con passo irritato dentro la libreria, con la sirena al seguito.
La libreria, di per sé, non era particolarmente gremita – certo, c'erano molte persone che vagavano per l'edificio con lo sguardo attratto dai numerosi titoli esposti, alcuni immersi già nella lettura, altri ancora seduti alla piccola caffetteria incorporata nella struttura, i libri ancora da acquistare poggiati sul tavolo mentre, chi in coppia e chi in gruppo, disquisivano di chissà che cosa. Io e Luce non attirammo minimamente l'attenzione mentre camminavamo con circoscrizione verso la sezione che ci interessava, quella oltre la letteratura “di consumo”, appartata rispetto al resto.
Il sistema di sicurezza dell'Archivio era alquanto blando, a dirla tutta, se si pensava a cosa poteva contenere; il regime del Consiglio dei Dieci, in realtà piuttosto tirannico nelle sue regole e nelle sue leggi, così fingeva la sua trasparenza – lasciando quasi libero accesso ai propri documenti e fornendo l'illusione che tutta la comunità magica potesse sapere tutto.
Ma era ovvio che non fosse così: la sezione era strutturata in un modo tale che, a seconda di chi evocava i libri, questi rivelavano loro pagine scritte in modi certamente diversi fra loro e filtrate così da fornire le informazioni necessarie al ruolo che si ricopriva all'interno della comunità; un impiegato del Sistema Magico poteva avere sicuramente sotto mano ben più informazioni rispetto ad un comune mago ma di certo minori rispetto a chi faceva parte di una delle Dieci Famiglie. Ingegnoso quanto viscido, esattamente come tutto ciò che riguardava il Consiglio e le loro questioni.
Quando giungemmo alle Sezioni Vuote della Hallway Library fu mia premura controllare che fossimo soli prima di procedere con l'evocazione dei testi; non erano i non-magici a preoccuparmi, quanto possibili maghi nei paraggi. Ma, al momento, non sembrava ci fosse nessuno interessato agli Archivi: i corridoi, formati dagli alti scaffali ed interrotti raramente da qualche tavolo da lettura posto per comodità degli usufruenti, erano deserti quasi ovunque; le uniche presenze degne di nota, oltre a me e a Luce, erano quelle delle lampade dalla luce fioca poggiate sui tavoli per cortesia.
Fu solo allora che mi tolsi velocemente le fasciature dalla mano destra mano e sfiorai con l'indice ovviamente ancora tremante una piccola targa in argento rovinato (ma pur sempre argento, miglior conduttore della magia), posta all'entrata della sezione e raffigurante un cerchio e due pentagoni che si intersecavano tra loro – il simbolo del Consiglio dei Dieci; allora, con un leggero soffio di vento, ecco che apparvero al loro posto e perfettamente in ordine tutti (e con tutti, intendevo davvero tutto quello che gli archivi potevano offrire) i libri sugli scaffali. Mi sfuggì un mezzo sorriso soddisfatto, mentre notavo che non era cambiato nulla dall'ultima volta che vi ero stato, molti anni prima, quando cercavo informazioni su un oggetto abbastanza potente da poter esibire con una certa sicurezza e lustro quando non avevo alcun bisogno di usare i miei poteri – per quanto spaventosi, non sempre erano la migliore soluzione, soprattutto se ti trovavi di fronte ad un mago specializzato in incantesimi a breve raggio e sostenitore del buon vecchio corpo a corpo.
Mi sembrava di ricordare un'altra persona, adesso, un fantasma che quasi vedevo aggirarsi tra quegli scaffali con aria arrogante, mentre si faceva beffe degli artefatti di cui leggeva su “Leggendarie spade ed altre armi – come rendere un oggetto una reliquia”.
«Sai, Luce, al Consiglio piace farsi bello col proprio nome altisonante» le spiegai, mentre mi avventuravo tra gli scaffali con passo sicuro, perché già sapevo esattamente qual'era la sezione che mi interessava: 'Storia delle Grandi Famiglie Magiche e Genealogie Allegate', con esattezza. «E solo i membri delle Dieci Famiglie del Consiglio possono accedere alla totalità dei documenti di questo posto, che di certo non conterranno informazioni essenziali e segrete, ma...» Mi fermai esattamente di fronte ad un enorme tomo il cui dorso era intarsiato con una rilegatura antica ma tuttora ricercata e ben tenuta, dalle linee e stili quasi barocche. La scritta, in latino, recitava “Le Nobili Dieci Famiglie” e, a disdetta dell'evidente età del volume, sapevo che veniva aggiornato con minuzia ad ogni nuova nascita e morte da uno scrivano incaricato, che era direttamente al servizio dei Dieci. Lo stesso scrivano, un uomo alto, pelato, con indosso una tunica dai colori scuri, più simile ad un monaco che ad un mago a dirla tutta, che mio padre aveva convocato alla scomparsa di mia madre, per far sì che il nome mio e di Reiden venissero radiati da quell'albo.
Ah, che tenero, mio padre.
Lo afferrai senza alcuna difficoltà e lo portai al tavolo più vicino dove lo poggiai con attenzione, prima di iniziare a scorrere velocemente le pagine delle lunghe dinastie del Consiglio; nomi familiari e non balzarono ai miei occhi, finché non trovai, infine, il capitolo Douglas.
La nostra era la più giovane, delle famiglie del Consiglio. A differenza dai Bradford, per esempio, che vantavano di discendere direttamente da Solomone, i Douglas avevano cominciato a guadagnare potere solo con la costituzione del Regno d'Inghilterra ma, nonostante le nostre origini recenti, quasi tutti i nostri capofamiglia avevano diretto il Consiglio fin dalle sue origini e, sino ad un paio di generazioni precedenti all'attuale, era anche stata una delle più forti nei numeri: fino alla seconda metà dell'Ottocento, in effetti, contava un gran numero di rami cadetti, abbastanza da fare la differenza nei grandi scontri interni al Consiglio.
Seguii con gli occhi i nomi che si susseguivano lungo linee intrecciate, nei loro ricercati decori dorati, all'interno di cornici che contenevano anche miniature di ritratti: catturò la mia attenzione Sereine Douglas, riportata nel fiore del suo splendore di donna matura e da cui noi discendevamo, che aveva dato alla luce due figlie, entrambe femmine; dalla sua progenie, notai, il numero dei maschi era andato diminuendo, quasi scomparso in effetti. Prima di mio nonno (altro gran bastardo, lo ricordavo a tratti e bastava a farmi ribollire il sangue nelle vene), c'era solo un altro erede diretto maschio e secondogenito, il mio bisnonno. I rami cadetti, intanto, erano quasi tutti stati troncati da matrimoni praticamente senza eredi; c'erano nomi di figli morti in giovanissima età oppure nati già morti, altrimenti nessuna progenie. Anche i matrimoni, che una volta erano per lo più formati da parenti alla lontana della famiglia (cugini, biscugini e via discorrendo) avevano cominciato a contare numerosi cognomi di famiglie magiche diverse, prima inglesi e poi estere, come nel caso di mia madre, quasi si fosse voluta cercare un'alternativa. Come se il vecchio sistema della purezza del sangue Douglas fosse divenuto obsoleto, se non addirittura dannoso.
Era possibile... ?
«Sembra quasi che la famiglia sia appassita» fu il commento onesto di Luce, china di fianco a me; non mi ero neanche accorto che si fosse avvicinata ed avesse cominciato anche lei a fissare quella brutta copia dello stendardo ricamato che stava nelle segrete di Villa Douglas; persino ai suoi occhi, quindi, era palese che la mia stirpe sembrasse essersi distrutta nel tempo, crollando di generazione in generazione? Oppure, com'era successo per me e Reiden, i nomi di altri figli reietti per chissà quali motivi erano stati prontamente rimossi? Nella parte finale dell'albero genealogico, dove avremmo dovuto esserci io e Reiden, non c'era neanche il nome di mia madre, Maria. Sembrava che mio padre si fosse sposato direttamente con quello scarto di donna che per anni aveva torturato me e Reiden, dando alla luce così l'unico e legittimo erede della famiglia.
Noah Douglas, la cui data di nascita e di morte non erano neanche state specificate.
Il pensiero che anche lui, bamboccio insignificante e gonfiato in ogni modo dai propri genitori, fosse morto col cervello schizzato sulle pareti della magione era in un certo senso rasserenante e, in quel mare di confusione e rabbia che mi animava da giorni, era a dir poco confortante; mi sentivo sollevato all'idea che quel ragazzino fosse morto come i cani che l'avevano messo al mondo... L'unico rimpianto che avevo era che non ero stato io a fargli saltare la testa, cosa che mi ero ripromesso di fare anni prima.
Dopo essermi crogiolato per qualche attimo in questo pensiero, sfiorai la carta invecchiata con cura, quasi venerandola, lasciandomi incantare dall'odore del libro per cercare tracce.
Sapevo che lo scrivano era decisamente troppo bravo per lasciare che un mago qualunque – quale ero io al momento – riuscisse a ricomporre l'araldo in tutte le sue correzioni senza il suo consenso, ma almeno potevo avvertire se era stato modificato in un secondo momento. C'erano incantesimi di rivelazione piuttosto comuni, deboli ma che sarebbero bastati almeno a far vibrare le parti interessate delle pagine: non era molto ma, alla luce di ciò di cui disponevo al momento, era già qualcosa.
“Devo solo ricordarlo”.
Chiusi gli occhi, cercando reminiscenze di studi ormai sepolti, rimossi dagli anni in cui avevo passato a farmene beffe perché trovavo così da idioti pronunciare gli incantesimi a voce o, ancora peggio, attraverso strumento in cui incanalare l'energia proveniente dai propri circuiti magici (quelli che i non-magici definivano comunemente bacchette... Ma dopotutto ero stato un bravo e diligente studente, portato persino per ciò che ritenevo inutile e superfluo e mi bastarono un paio di minuti per riportarlo alla luce, polveroso e ignorato fino a quel momento. Poggia le mani sul libro e, ancora ad occhi chiusi, sussurrai alcune parole in latino, ricorrendo all'uso dell'innocua e sicuramente meno sospetta magia bianca – nessuna forzatura, non nel territorio del Consiglio; mi sarebbe bastato sentire la reazione della pagina, avvertire se c'erano dei punti, oltre al luogo dove erano una volta incisi il nome mio e di Reiden, che erano stati manomessi...
Il risultato superò le mie più rosee aspettative: la pagina, in un primo momento, non ebbe alcuna reazione, tanto che pensai di aver sbagliato incantesimo (con conseguente schiocco di lingua dato dall'irritazione9; poi, ad un tratto, prese a vibrare leggermente e ad illuminarsi di una luce fioca in alcuni punti soltanto, alcuni ricoperti da altre scritte, altri lasciati vuoti, latitanti. Era ridicolo perché sembrava il pasticcio di un bambino, tante erano le parti corrette, un pasticcio a cui era stato tentato di porre goffamente rimedio con delle toppe di emergenza.
Un veloce sguardo a quel ridicolo stendardo e ben presto mi chiesi quanti discendenti erano stati ripudiati, se non andati incontro ad una sorte ben peggiore... ? Dubitavo fortemente che i predecessori di mio padre avessero risparmiato la feccia che, come me e Reiden, era nata sbagliata. Altrimenti, a quale pro tenere e torturare noi, nella speranza di scoprire qualcosa? Il problema, il nostro problema sembrava essere di antica e lunga data, una sottospecie di serpe in seno che contagiava bambini su bambini, che solo i miei avi sapeva che fine avessero fatto e la prima chiazza, la meno illuminata forse perché tolta con più cura, sostava vicino a quella di Sereine Douglas, il cui volto fiero adesso sembrava solo quello di una tiranna senza il minimo scrupolo.
«Sembra che non abbia davvero altra scelta se non recuperare i materiali per una seduta spiritica» borbottai, chiudendo il libro di scatto sotto lo sguardo confuso di Luce che, supponevo, non aveva capito un bel niente di quel che era accaduto e tanto meno di quanto avessi dedotto da quella consultazione. Tornai allo scaffale per riporre il volume e proprio prima di iniziare a parlare e spiegarle l'idea che mi ero fatto, non appena diedi le spalle al grande mobile, mi trovai a neanche due metri di distanza un ragazzino dai capelli scuri, il volto delicato e grandi, svegli occhi blu, vestito con un completo che non potevo che associare al Dipartimento di Recupero, una delle unità speciali al servizio del Consiglio.
Mi sfuggì un'imprecazione mentale.
Ci guardammo piuttosto a lungo, gli occhi indagatori del ragazzino che mi fissavano, piuttosto incuriositi. Speravo non avesse visto né il mio trucchetto da baraccone fatto sul libro né, tanto meno, che i libri presenti sugli scaffali corrispondevano al grado più alto di riconoscimento, quello del Consiglio e che, piuttosto, avesse sostituito i tomi presenti col suo grado di ufficiale.
Eppure, qualcosa mi suggeriva che a questo moccioso in uniforme sfuggiva ben poco.
«E' raro trovare qualcuno di così giovane qui» fu il suo unico commento (da che pulpito...) e il suo sguardo passò dall'indagare su di me a fissare con una certa intensità Luce che, in effetti, attirava più attenzione al momento di quanto non facessi io, fortunatamente. «Avete bisogno di qualcosa?»
«Purtroppo non abbiamo trovato quello che cercavamo, signore» ammisi, fingendo un misto di disappunto e tristezza ed abbassando lo sguardo. Afferrai in fretta e furia la mano di Luce, al mio fianco, stringendola appena, cercando di farle capire di reggermi il gioco finché poteva. La sentii ricambiare la stretta, timidamente, ma tanto mi bastò per capire e sollevare di nuovo lo sguardo verso l'agente che, nel frattempo, si era tolto il cappello, lasciando intravedere con più chiarezza delle discrete occhiaie violacee sul volto. «Lei sembra davvero molto stanco... Sta bene?»
Vidi le spalle del ragazzo distendersi appena e si lasciò sfuggire un sospiro. Era sveglio, ma non esaltato dalla sua carica... Punto a favore. Ora che ero tutto meno che riconoscibile (per quanto la famiglia Douglas mi avesse ripudiato, cancellando qualunque prova della mia nascita, come 'Maleficium' della Gilda notturna ero piuttosto famoso e dato che il Mutaformismo non era mai stato il mio forte, potevo essere comunque tranquillo) avrei anche potuto approfittare di questa circostanza apparentemente ingrata e voltarla a mio vantaggio.
Anzi, era proprio quello che avrei fatto.
«Ore di sonno arretrate, niente di più» fu la sua risposta, mentre faceva per superarci e dirigersi verso lo stesso scaffale da dove provenivamo noi e, non solo, afferrare lo stesso tomo che avevo aperto pochi minuti prima. Una coincidenza... ? Oppure aveva visto e cercava di capire di cosa mi fossi interessato? Scartai in fretta questa opzione – dopotutto, se avesse voluto accertarsi di quello che stavo cercando, perché qualcosa gli suggeriva che eravamo sospetti, avrebbe aspettato che ci fossimo allontanati.
Quindi... potevo ancora rischiare. Potevo rischiare al punto che esitai per un secondo, mordendomi appena il labbro inferiore, perfettamente calato nella parte che era andata costruendosi nella mia mente, sfruttando fino al midollo le mie da sempre elogiate dalla mia maestra doti recitative, “indispensabili per agire sotto copertura”.
«... Agente, se non la disturbo troppo» mi decisi a dire, infine, facendo un solo timido passo in avanti. Era una fortuna che indossassi abiti semplici e non i miei soliti completi; mi rendevano quanto meno un teenager di provenienza piccolo-borghese credibile. «Potrei chiederle se—ha lavorato al deragliamento del treno... ? L'incidente, insomma...»
Il ragazzo sollevò lo sguardo dal libro in cui si era immerso con una velocità invidiabile e tornò a guardarmi con una lieve curiosità negli occhi, seppur con una scintilla diversa. Mi pentii quasi subito di aver rischiato, ma non era su quello che volevo incentrarmi – mi serviva un appiglio, prima di proseguire per andare a parare dove volevo.
«Sono tornata giusto una settimana fa» ammise, alzandosi di nuovo ed avvicinandosi a me, gli occhi che, se avessero potuto, mi avrebbero perforato al solo scopo di scoprire che cosa mi interessasse davvero. «Brutto avvenimento, non c'è che dire».
«... Non ci sono stati sopravvissuti, vero... ?» Come se me ne fregasse qualcosa; eravamo sopravvissuti io, Reiden, la ragazzina incontrato quel giorno e nessun altro. Ma la domanda avrebbe avuto non solo una risposta negativa, ma anche un'altra domanda, conoscendo il modus operandi degli agenti onesti come questo ragazzo...
«No, purtroppo. Avevi qualcuno là sopra?» Bingo. Sapevo come ragionava un ufficiale e, fortunatamente, lui non mi aveva deluso, così come le mie capacità di fingere non mi avevano tradito (allora, potevo ancora contare su qualcosa... buono a sapersi); era una domanda di circostanza che era bene tirare fuori agli agenti per essere più credibili, perché snocciolare di aver perso qualcuno in una tragedia al primo cenno di interessamento ad essa dava l'idea più di una bugia da raccontare in fretta per guadagnarsi fiducia, che non di un dolore reale.
«Un'amica di infanzia» mormorai, stringendo il pugno libero dalla mano di Luce. «Evelyn Waterford».
Per spiegare questo nome dovrei tornare indietro di quasi dodici anni, quando ero ancora imprigionato nella mia adorabile ed accogliente casa: Evelyn Waterford era la figlia minore della bambinaia e, in quanto tale, aveva pressoché la mia stessa età. Prima che rinchiudessero me e Reiden nelle segrete, spesso avevamo giocato insieme e, poco prima della mia fuga, nonostante gli studi, aveva cominciato a dare una mano alla madre come cameriera della magione, in quanto grazie alle crisi isteriche della vecchia cagna, metà del personale era stato cacciato perché “incompetente”. Ero quasi sicuro che non se ne fosse mai andata da quel posto, perché era una ragazzina scialba ed incredibilmente attaccata alla madre, per l'appunto, quindi se anche la vecchia fosse morta, sicuramente lei sarebbe rimasta per prendere il suo posto perché “così avrebbe voluto lei”.
Incredibile come certi elementi privi di alcuno spessore potessero tornare incredibilmente utili, in certi frangenti. «Vede, in realtà—non sono sicuro che fosse a bordo. Ci eravamo sentiti nei mesi scorsi per incontrarci e mi aveva detto con largo anticipo che sarebbe venuta in treno. Poi, ad un tratto, qualche settimana prima dell'incidente ha smesso di rispondermi, non mi ha più scritto, ma non potevo recarmi a casa sua per una...» e qui finsi imbarazzo, quasi sprofondando nella giacca, lasciando quindi alludere ad una sorta di relazione scoperta, tra me e la sicuramente defunta Evelyn. “Forse nei suoi sogni”, pensai con un certo disgusto. «... serie di cose, ecco... Non so più come rintracciarla...»
Speravo che abboccasse. Non era del treno che mi interessava, non avevo tessuto quella storiellina per sapere se la stupida Evelyn fosse ancora viva o meno. Volevo sapere cosa avevano scoperto a Villa Douglas, se avevano accertato davvero che tutti i membri della famiglia fossero morti in quell'attacco diretto, escluso Reiden.
L'agente mi guardò, ancora una volta con sguardo inquisitorio; la storia era credibile, ma non abbastanza per spiegare forse tutte le stranezze che aveva notato in me e nella mia presenza in quella libreria perché sì, qualcosa continuava a dirmi che sapeva, che in qualche modo aveva collegato tutto ma che non aveva niente di solido per provare la veridicità delle sue supposizioni – stavamo, in poche parole, giocando a scacchi: se io avessi fatto una mossa falsa, lui mi avrebbe scoperto. Se lui non avesse trovato alcun appiglio, allora avrei vinto io.
«Come ti chiami?» mi chiese, in tono piatto, come se l'agente in servizio, quello che chiedeva se avessi perso qualcuno, fosse scomparso, lasciando piuttosto il posto al detective che arrestava i criminali. Stavo praticamente camminando sul filo del rasoio.
«Cal. Cal Wahnderhaus» risposi, velocemente, col primo nome che mi venne in mente, quasi con timore. La vidi fissare le mie mani e poi di nuovo il mio volto e, ancora una volta, Luce. Non si fidava del tutto e qualcosa non le quadrava, ma immaginavo che la sua etica di agente fosse giusta abbastanza da non accusare nessuno senza qualcosa di tangibile tra le mani.
Si arrese. «Il nome di Evelyn Waterford è nella lista delle vittime all'attacco alla magione Douglas, Cal. E' stato a fine anno» mi comunicò, la voce neanche incrinata dalla comprensione o da una qualche empatia per l'accaduto, ancora una volta confermandomi che non credeva ad una singola parola di quello che gli avevo raccontato. Trattenni il respiro e portai la mani libera al volto, gli occhi sbarrati come se non accettassi la questione, mentre mugugnavo qualcosa in segno di incredulità; Luce, forse addirittura credendo al teatrino che avevo messo su, o forse tenendomi semplicemente il gioco, mi carezzò con comprensione la spalla. Non mi fu difficile, in ogni caso, tirare fuori la disperazione; dopotutto, avevo avuto modo di sperimentare nuovamente queste sensazioni neanche una settimana prima. «Mi dispiace molto per la tua amica».
«Lo sapevo che era successo qualcosa di brutto...» stentai a dire, con una certa difficoltà magistralmente studiata nel mettere insieme le parole «Quell'incidente è stato—terribile, vero... ? Mi hanno detto che—non c'è stato nessun sopravvissuto...»
Eccoci, al momento cruciale. Non mi aspettavo una risposta diretta (troppo sveglio, ormai lo avevo capito), quanto più una reazione. Era un ragazzino in gamba, non mi avrebbe rivelato alcuna informazione riservata a cuor leggero, ma io avrei potuto trarne qualcosa. Era un agente di polizia, non una spia addestrata.
Non mi deluse: vidi chiaramente il suo sguardo posarsi sul libro che si era lasciato alle spalle, aperto, sul tavolo, sulla stessa pagina che avevo aperto io – quella riguardante l'ultima casata Douglas, per essere esatti; fu una frazione di secondo, ma non mi sfuggì. Qualcuno della nostra famiglia era ancora vivo – o così, almeno, pensava lui: mio padre e la vecchia megera erano sicuramente da escludere, quindi... possibile che... ?
«Nessun... sopravvissuto» mi confermò però, prima di mettersi nuovamente il cappello. «Mi spiace» e, con queste parole prive ancora una volta di alcuna partecipazione, tornò al tavolo a sedersi come per dichiarare il discorso conluso, mentre io mi limitavo a sospirare e continuare a mugugnare a mezza voce mentre mi dirigevo, con Luce, verso l'uscita, dapprima lentamente e poi accelerando il passo nei pressi del portone.
Dovevamo sparire, adesso. Non sapevo quanto tempo avrebbe davvero impiegato a mettere insieme i pezzi di quel puzzle sconclusionato perché sì, non avevo certezza che non ne fosse capace; nel dubbio, le possibilità che ciò per cui avevo gioito poco prima non fosse in realtà accaduto, la morte di Noah, erano alte.
E la sua non-morte avrebbe sicuramente spiegato molte e tante delle cose che stavano accadendo in quel momento e adesso... rimaneva una cosa da fare, la più urgente e più importante, se davvero Noah era ancora vivo.
«Devo parlare con Reiden».



Ammetto senza remore che mi piacerebbe regalare ancora piccoli frammenti di Hexerei e magari, più avanti, lo farò. Per ora è un esperimento, che spero solo di poter replicare.

(Alcuni dei personaggi nominati nella storia non sono miei, ma dell'amica con cui tengo insieme le fila di questo progetto da anni ormai! Spero possa essere un po' un omaggio ad entrambe, vederlo su una piattaforma pubblica e non solo tra le nostre paia d'occhi.)

 
   
 
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