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Autore: Adeia Di Elferas    16/11/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Frate Mariano da Genazzano, Priore Generale degli Agostiniani, stava guardando con aria greve Giovanni Sforza, che se ne stava davanti a lui in silenzio.

L'anziano religioso, che poteva vantare ottantacinque anni, aveva ancora gli occhi acuti e svegli di un uomo nel pieno delle forze. Le sue guance, un tempo sempre bluastre di barba in fase di ricrescita, erano chiazzate da qualche ciuffo bianco e anche i capelli si erano diradati, senza, però, lasciarlo calvo sotto allo zuccotto.

“Quello che mi state dicendo è molto grave.” trovò la forza di dire il signore di Pesaro.

Le parole taglienti del frate, dette con una voce ancora decisa e per niente da vecchio, avevano fatto vibrare il cuore dello Sforza come l'esplosione di un colpo di cannone.

A poco valeva l'aria tranquilla del suo palazzo pesarese, a nulla la dolcezza del vino che aveva davanti.

Frate Mariano gli aveva detto chiaro e tondo che il papa era stanco di lui. Lucrecia aveva deciso di non raggiungerlo a Pesaro, o, nell'ipotesi più ottimista, le era stato impedito di farlo.

“La scelta sta a voi.” riprese il religioso, sistemandosi un po' sull'ottomana che il suo ospite gli aveva offerto: “O confermerete che le nozze tra voi e madonna Lucrecia non sono mai state consumate...”

Giovanni strinse i denti e si chiese come potessero i Borja pretendere una cosa simile, soprattutto dopo che uno dei fratelli della sposa, Cesare, era stato presente, piazzato come lo spettatore di una recita di teatro, in prima fila, prodigo di commenti a mezza bocca e osservazioni umilianti...

“Oppure – proseguì il frate – sosterrete che le nozze con madonna Lucrecia non sono mai state valide perché la figlia di Sua Santità non era mai stata formalmente sciolta dai patti matrimoniali con don Gaspare da Procida.”

'Quanto parla...' pensò lo Sforza, guardando di sottinsù l'anziano, che, stringendo le labbra rese flaccide dall'età, aspettava una sua reazione.

“Ma in tal caso – provò a dire il signore di Pesaro, cercando di non pensare all'accento romanesco del frate, che gli ricordava tragicamente il suo ultimo soggiorno in Vaticano – madonna Lucrecia verrebbe tacciata di essersi congiunta a un uomo senza il legale vincolo del matrimonio...”

“Ovviamente no.” ribatté con freddezza Mariano, i cui occhi lampeggiarono come a dire a Giovanni che non era il caso di fare il furbo con lui: “Anche in questo caso sosterrete di non aver consumato le nozze, ma avrete la scusa dei vostri dubbi circa la sua legalità.”

“Ma io...” cominciò a dire lo Sforza, punto sul vivo, mentre il ricordo dei capelli biondi di Lucrecia e del suo sguardo esigente gli annebbiava per un momento la mente.

“Ma voi niente.” lo fermò l'anziano, sollevando una mano dalle dita nodose: “Anzi, se mai vi capitasse di rivedere madonna Lucrecia per qualche inusitato motivo, sappiate che è precisa volontà del papa che voi non vi congiungiate a lei per nessun motivo. Tanto più che ella sarà presto diretta in Spagna.”

“In Spagna? E perché?” scattò il signore di Pesaro, quasi strozzandosi con la saliva.

“Questo non sta a me saperlo.” concluse il frate, sollevando le braccia con fare plateale: “E ora, se avete la compiacenza, un uomo della mia età ha bisogno di molto riposo. In fondo, ci siamo detti quel che dovevamo...”

E, facendosi aiutare, frate Mariano si alzò e poi chiamò a sé i due servi che lo seguivano quasi sempre come due ombre e si fece accompagnare nella stanza che 'tanto generosamente l'ammirevole messer Sforza' aveva fatto preparare per lui.

 

Le porte chiuse stavano rendendo la città di Forlì sempre più claustrofobica. Nel giro di pochi giorni, l'uso dei rimedi della Contessa stava già dando i primi risultati, ma, malgrado ciò, la peste non poteva dirsi debellata ed era difficile capire quando si sarebbe tornati alla normalità.

Giovanni, su consiglio pressante della moglie, intervallava il suo aiuto a Cesare Feo – che stava patendo non poco la tensione di quella situazione incerta – a lunghi momenti di riposo.

La sua salute aveva dato segno di vacillare ancora una volta e quindi Caterina preferiva non rischiare una nuova crisi. Così, nonostante le deboli proteste del marito, l'aveva convinto a passare molto tempo in stanza, tranquillo, a leggere e sonnecchiare, mangiando cose leggere e bevendo molta acqua.

Nel frattempo, però, pur mostrandosi a lui sicura di sé e fiduciosa in una risoluzione pronta di quell'epidemia che, come uno strascico stanco, stava ancora serpeggiando per le vie della sua città, la Tigre aveva cominciato ad ascoltare le parole di suo figlio Cesare.

All'inizio l'aveva fatto per caso, mentre il ragazzo discuteva con uno dei soldati che era seduto a tavola con loro, ma poi aveva cominciato a ragionarci sopra e gli aveva anche fatto qualche domanda.

Cesare, all'inizio, aveva pensato che la madre gli si rivolgesse solo per dimostrargli quanto fosse in errore, o per prenderlo in giro in merito alle sue idee di impronta troppo religiosa.

Tuttavia, quando la Contessa era entrata nel merito di Savonarola e delle sue prediche violente e assolutiste in Firenze, il ragazzo aveva saputo ribattere a tono, trovando per la prima volta da anni un punto di contatto con la madre.

“Non dico di essere d'accordo con lui – aveva concluso Cesare, dopo una lunga analisi delle prediche che i preti del Duomo gli avevano riferito, attingendo a lettere di chi vi aveva assistito in prima persona – perché io credo nella guida del Pontefice e il suo modo di opporsi al potere del Santo Padre è quanto meno disdicevole, per un cristiano...”

la sua voce era sfumata, con un'occhiata alla Tigre, che, notoriamente, non aveva mai calcolato Rodrigo Borja come una possibile guida spirituale.

“Tuttavia – aveva ripreso il giovane Riario, giungendo le mani sul crocifisso che portava al petto – è opportuno valutare un ritorno alla povertà, per questa Chiesa. Lo sfarzo di Roma è una macchia, per la cristianità.”

Quella sera, quando Caterina era arrivata nella stanza che divideva con il marito, aveva trovato Giovanni immerso nella lettura di uno dei suoi libri di poesie e così aveva ceduto a una tentazione che aveva cominciato a pungolarla già nel pomeriggio.

“Devo scrivere una lettera...” lo informò, uscendo un momento per andare nella sua vecchia camera.

Si era messa alla scrivania, aveva acceso qualche candela in più usando quella che si era portata appresso, e poi aveva cominciato a scrivere.

Dopo le prime righe, si sentì una sciocca. Savonarola rappresentava tutto quello che stava facendo soffrire la famiglia di suo marito. Quel domenicano era solo un fanatico, che aveva messo a ferro e fuoco una città meravigliosa solo per dar sfogo al proprio bisogno di potere.

Però...

Con un soffio profondo, Caterina giunse le mani e appoggiò i gomiti alla scrivania. Chiuse gli occhi e si chiese perché mai stesse scrivendo proprio a quell'uomo.

Inghiottendo una bella dose di amor proprio, si disse che se stava arrivando a tanto era solo perché non sapeva più cosa fare. Quell'epidemia la stava stremando come mai le era capitato con altre malattie.

Forse nemmeno quando erano morti sua madre e suo figlio aveva patito tanto quel senso di morte imminente che permeava la città.

Essere isolata a quel modo da tutto, non poter sapere che cosa stesse succedendo fuori dalle porte di Forlì, la stava facendo impazzire.

Proprio in quel momento, in cui avrebbe dovuto seguire le mosse di Pandolfo Malatesta e guidare quelle di Achille Tiberti. Proprio ora, che Venezia e Firenze le fiatavano sul collo. Proprio quando avrebbe dovuto curare finemente ogni rapporto diplomatico, al fine di proteggere il suo matrimonio con Giovanni ed evitare di vedersi schiacciata al primo colpo di colubrina.

Era davvero così assurdo, a quel punto, aggrapparsi anche a quella possibilità?

Che male c'era a provarci?

Non sarebbe stata né la prima né l'ultima persona a chiedere a quel frate un consiglio, un parere, una valutazione della sua situazione.

Deglutì rumorosamente e poi, intingendo la punta della penna nell'inchiostro, fece un altro respiro profondo.

Non scese nei dettagli, parlò di sé in modo vago, insistendo, però, sul fatto che i peccati che sentiva sulla coscienza fossero grossi e numerosi, e aggiunse pure che anche quando si confessava – evitò di dire che le sue confessioni erano dettate dalla prammatica e non dal desiderio reale di scaricarsi la coscienza, tanto che, di norma, quando si ritirava nel confessionale con i preti del convento in cui si recava parlava di facezie e dei cambiamenti climatici – non sentiva alcun sollievo.

Quando arrivò in fondo, chiuse il messaggio con una firma semplice, evitando i propri titoli e poi attese qualche momento che l'inchiostro si asciugasse.

Ripiegò il foglio e lo mise da parte. Si ripromise che, non appena fosse stato possibile, avrebbe trovato una staffetta rapida e fidata e l'avrebbe spedita a Firenze.

Quando tornò nella camera che divideva con il marito, Caterina era ancora distratta e Giovanni se ne accorse subito.

Non le voleva fare domande specifiche, temendo di farla arrabbiare in qualche modo, però, quando le donna andò a coricarsi accanto a lui, appoggiando la testa alla sua spalla e mettendosi a leggere il libro che il Medici teneva tra le mani, l'uomo non poté evitare di chiedere: “Tutto a posto?”

La Tigre strinse le labbra e affondò il viso contro il suo collo, scuotendo piano il capo: “Sono solo stanca.”

Muovendosi con dolcezza, il Popolano le mise un braccio attorno alla schiena, tenendo il volumetto con una mano sola e poi, mentre la donna ancora nascondeva il volto contro la sua pelle, Giovanni cominciò a leggere a voce bassa le poesie di Petrarca.

Con ancora le luci accese e il marito che modulava la voce sui versi delle canzoni, la Leonessa si addormentò, cadendo in un sonno tanto secco e profondo, che riuscì a evitare gli incubi per quasi tutta la notte, lasciando che arrivassero a svegliarla, con il loro monotono e spaventoso ripetersi, solo alle prime luci dell'alba.

 

Lucrecia stringeva gli occhi sotto il sole tiepido di quel 6 giugno. Il cavallo che correva sotto di lei sembrava riecheggiare nella forza con cui batteva gli zoccoli in terra, il martellare incessante del suo cuore.

Alle sue spalle, le sue dame di compagnia e parte del suo solito codazzo di servitori, faticavano a starle dietro, per quanto andava veloce.

Erano ormai all'altezza del Circo Massimo e la figlia del papa sentiva gli occhi lacrimare, in parte per colpa dell'aria fresca di quel giorno.

Passarono, come un piccolo esercito, sotto i ruderi del palazzo di Settimio Severo e poi arrestarono la loro corsa all'altezza delle Terme di Caracalla.

Lucrecia ignorò il chiacchiericcio delle sue accompagnatrici, che parevano più eccitate, che non impaurite per quella repentina decisione della loro padrona.

A lei non importava molto come l'avessero presa quelle dame di compagnia. Erano il suo svago, le uniche con cui potesse parlare di nulla senza paura di vederle annoiarsi. Anche se il posto in cui stava andando era tutt'altro che mondano e divertente, le aveva volute portare con sé solo per tenerle al sicuro.

Sapeva di essere la luce degli occhi di suo padre, ma Rodrigo Borja era un uomo sanguigno, spesso imprevedibile. Non poteva essere certa che non avrebbe sfogato la rabbia su facili vittime, quali erano le sue amiche.

Restando in sella, ma imponendo alla sua bestia un'andatura molto più tranquilla, Lucrecia fece segno agli altri di seguirla e in breve la comitiva si trovò ad attraversare orti e vigneti, avanzando su un sentiero di terra battuta che portava al convento delle monache domenicane.

Una volta alle porte di San Sisto, la giovane Borja smontò di sella e pregò gli altri di attendere là dov'erano.

Qualche novizia che stava per andare negli orti, si fermò di colpo, vedendo quello schieramento di persone agghindate come a una festa, in sella a cavalli bardati con finimenti di oro e argento.

Lucrecia entrò senza problemi nel convento e chiese alla prima suora che trovò di portarla dalla badessa.

 

Caterina stava guardando fuori dalla finestra con una sorta di impazienza che Giovanni poteva capire molto bene.

Il cielo era grigio fin dal giorno prima e sembrava carico di pioggia, benché fosse restio a lasciar cadere anche solo una goccia.

L'ultimo resoconto che il medico di corte aveva fatto, aveva lasciato intendere che, a quel punto, fosse necessario anche un piccolo aiuto del destino, per risolvere la peste in modo definitivo e poter riaprire le porte.

La distribuzione del pane aveva dato respiro alla popolazione, ma non si poteva vivere solo di quello. I commercianti e gli artigiani ci avrebbero messo mesi a rimettersi in carreggiata e anche i soldati cominciavano ad accusare il lungo isolamento, benché la Contessa avesse fatto del suo meglio per tenere il quartiere militare vivo e ben rifornito di cibo e acqua pulita.

Il Medici e la Sforza si erano ritirati nello studiolo del castellano, approfittando del fatto che Cesare Feo era andato a mangiare qualcosa.

Così come nel resto della città, tutti quanti sembravano vivere il dramma di essere chiusi in un formicaio dall'ingresso tappato. Malgrado lo spazio ci fosse, ognuno cominciava a sentirsi come in trappola e sembrava fosse impossibile trovare un momento per starsene da soli coi propri pensieri.

Giovanni aveva preso in mano distrattamente il libro di appunti della moglie. Il titolo 'Rimedi a far bella' gli era parso molto frivolo, soprattutto per una donna come Caterina, ma man mano che si era messo a leggere, aveva capito che le cure cosmetiche erano solo una piccola parte del suo lavoro.

La Tigre non aveva badato al fatto che il marito si fosse immerso nella lettura, troppo presa dall'attesa della pioggia e dal tentativo di ricacciare indietro i ricordi, che in quei giorni la stavano tormentando come un fuoco sempre acceso.

Il Popolano, quindi, sfogliava il ricettario indisturbato. Prima si era imbattuto in pozioni molto interessanti, che curavano quasi ogni male di stagione, e poi aveva trovato una miscela che, secondo le indicazioni, poteva addormentare un uomo tanto profondamente da permettere a un cerusico di praticargli interventi di chirurgia senza che il povero malato se ne potesse avvedere.

Dopo qualche mistura per la pelle, per le mani e addirittura per colorare i capelli – e arrivato a quella Giovanni aveva sollevato un momento gli occhi dalla pagina, guardando un secondo le ciocche bianche della chioma della moglie, che spiccavano in mezzo a quelle bionde – il fiorentino si imbatté in ricette di tutt'altro tipo.

Quando il Medici lesse il primo titolo, che recitava: 'A far luxuriare inestimabile' spalancò gli occhi e si accomodò sulla sedia.

Quel movimento improvviso fu notato appena dalla moglie che, sempre più persa nella sua mente, stava ancora alla finestra a fissare le tirchie nuvole sopra di loro.

Cercando di darsi un tono, benché sentisse le guance arrossirsi sotto la leggera barba che si era lasciato crescere da un paio di giorni, il fiorentino proseguì nella lettura, rendendosi conto che a quelle ricette seguivano spiegazioni e osservazioni molto più dettagliate e personali rispetto alle precedenti.

Erano scritte in un misto di italiano, latino e dialetto che, a occhio e croce, doveva essere quello di Milano. Parole di scienza e da taverna si mescolavano in modo incredibile e ne usciva uno spaccato impagabile, secondo lui, di quella che era sua moglie.

Giovanni stava leggendo il finale di una ricetta – che assicurava: 'Tante pillole quanto piglierai, tanto farai' – quando la Tigre lasciò la finestra e finalmente si accorse che il marito stava leggendo il suo ricettario e, dall'espressione che aveva in viso, comprese a quale capitolo fosse giunta.

I due si guardarono un momento e, inaspettatamente, scoppiarono entrambi a ridere.

Il Popolano, ben lungi dal volerle ridare il ricettario e dover così interrompere la lettura, tenne il segno con due dita e la guardò, vergognandosi un po': “E... Queste ricette... Funzionano?”

“Sì.” assicurò subito la donna, senza la minima traccia di pudori: “E anche se uno non ne ha bisogno, ne trae sempre giovamento.”

Pur immaginando già la risposta, il Medici si schiarì la voce e chiese, mentre la moglie si sedeva sulla scrivania e, le braccia incrociate sul petto, lo fissava divertita: “Le hai provate?”

“Sì.” confermò ancora una volta la Tigre, con un sorriso riluttante sulle labbra.

“Tutte?” chiese Giovanni, la cui voce tradiva un misto di incredulità e ammirazione.

Questa volta la Sforza si trovò anche lei ad arrossire, ma più per il tono del marito che per l'argomento in sé: “Sì, tutte.”

L'uomo si morse il labbro. Anche Caterina sapeva qual era la domanda che sarebbe seguita perciò preferì anticiparlo.

“Con Giacomo. Le ho provate tutte con lui.” disse, mentre l'espressione sul suo volto si spegneva un po'.

A quel punto il marito si rese conto che era meglio non insistere sull'argomento e, facendo un breve cenno con il capo, provò a chiudere la questione e si reimmerse nella lettura.

Non aveva ancora finito la prima frase, però, che sentì la moglie avvicinarsi. La guardò e la seguì con lo sguardo mentre si metteva accanto a lui.

La Tigre pensò fugacemente al fatto che sedersi sulle ginocchia del marito sarebbe stata una pessima idea, dato che i dolori non lo avevano ancora lasciato del tutto, così aveva preferito il bracciolo della poltrona che un tempo era stata di Giacomo.

Cercò lo sguardo del Medici, che ricambiò con un che di interrogativo e poi si piegò su di lui per baciarlo: “Quando la peste sarà finita e potrò procurarmi gli ingredienti giusti – gli sussurrò, senza trattenere un sorriso molto simile a quello che l'aveva accesa poco prima – se vuoi potremmo provarne qualcuna insieme...”

Giovanni richiuse il volume e convinse la moglie a baciarlo ancora.

“Abbi un po' di pazienza...” lo rimise in riga la donna, allontanandosi da lui, dopo il bacio: “Prima voglio che ti rimetti al meglio. E che questa peste se ne vada... Fino a quel momento, meglio qualcosa di più tranquillo.”

Il Popolano sospirò e, nascondendo una piccola smorfia di dolore, provocata involontariamente da Caterina che, rialzandosi, si era appoggiata un istante alla sua gamba, convenne: “Quando riapriremo le porte.”

“Comunque – continuò la donna, mentre la porta si apriva – meglio provare solo creme e unguenti, non mi fido a farti bere o mangiare qualcosa, vista la tua condizione...”

Le ultime parole incontrarono lo sguardo un po' confuso del castellano che, non aspettandosi di trovare lì la Contessa e l'ambasciatore, era entrato senza annunciarsi.

Senza dar segno di voler fornire qualche spiegazione a Cesare Feo, che stava guardando alternativamente lei e il Medici, la Tigre si fece ridare dal marito il ricettario e poi si rivolse al castellano: “Ho in mente dei progetti per quando la peste finirà. Ci sarà bisogno di soldi e molti saranno senza lavoro. Vi andrebbe di aiutarmi a consultare il bilancio della città? Voglio vedere se abbiamo spazio per qualche opera pubblica...”

L'uomo chinò il capo e poi, involontariamente, guardò di sguincio Giovanni, che stava seduto sulla poltrona che era stata di suo nipote Giacomo.

“Anche lui ascolterà quello che ho in mente.” disse subito la donna, capendo la perplessità inespressa del Feo: “Sapete che ormai questi sono anche affari suoi.”

Il castellano restò un momento gelato da tanta franchezza, ma poi se ne sentì lusingato, perché era sintomo di fiducia.

Perciò, con un largo sorriso, andò alla scrivania e prese uno dei registri: “Vi mostro subito gli ultimi conti...”

 

Lorenzo il Popolano annuì con forza, mentre Sandro Botticelli chiedeva se intendesse far cominciare subito i lavori alla villa di Castello.

Il pittore quarantaduenne sembrava aver preso dieci anni in pochi mesi. Dal Falò delle Vanità, Botticelli non era più stato lui, secondo il Medici.

Anche se l'artista poteva vantare una casa di tutto rispetto vicino a Santa Maria Novella, e anche se di certo non gli mancavano i soldi messi da parte, tutti sapevano che non aveva praticamente più lavorato, dalla notte del rogo, e che gli risultava anche difficile trovare dei committenti.

La sua vena mitologica e libera era stata prosciugata tutta insieme e pareva recalcitrante all'idea di mettersi di nuovo a dipingere ciò che la sua fantasia gli suggeriva.

“Io... Io posso... Posso farlo...” accettò Sandro, stringendosi un po' nelle spalle e sporgendo in fuori le labbra: “Se dite che ne avete così bisogno...”

Lorenzo aveva passato anni a migliorare la villa di Castello, e Botticelli vi aveva già lavorato in passato. Aveva dipinto cose straordinarie per quella casa, come la Nascita di Venere, uno dei quadri che anche Giovanni amava moltissimo.

Proprio pensando al fratello, di cui non aveva più avuto notizia dopo l'ultima lettera, il Medici sentì nostalgia del passato. Quando erano solo e lasciati a loro stessi a Cafaggiolo, con ancora la diatriba legale in piedi contro il Magnifico, in fondo non erano stati così male.

Lorenzo ricordò per un momento quel periodo, in cui suo figlio Averardo era ancora vivo, suo fratello viveva ancora con lui e Semiramide, e il futuro era ancora qualcosa di lontano e promettente.

“So che farete un ottimo lavoro.” fece il Popolano, dando una breve pacca al pittore: “Se vorrete, vi accompagnerà là mia moglie domani.”

Sandro ringraziò e poi, dando uno sguardo veloce alle pareti affrescate di palazzo Medici, lasciò la casa del suo mecenate, per infilarsi di nuovo in via Larga e andare in Duomo a pregare.

“Allora – chiese quella sera a cena Semiramide – maestro Botticelli ha accettato di affrescare le sale ancora immacolate della villa?”

Lorenzo annuì e aggiunse: “Non ha nemmeno voluto sapere quanti soldi gli daremo.”

“Come l'hai trovato?” chiese la donna, prendendo un po' di pane e intingendolo nell'olio che copriva le verdure: “Dicono tutti che sia così patito in questi giorni... Dopo la scomunica contro Savonarola, poi...”

Il marito si rivide davanti il volto di Botticelli e ne rivide gli occhi spenti e le guance un po' incavate. Istintivamente, si porto anch'egli una mano alla guancia e si trovò a pensare che non era poi messo troppo meglio del suo amico.

“È solo un po' abbattuto, ma...” si strinse nelle spalle e concluse: “Credo che lavorare alla villa gli farà bene.”

Semiramide annuì e poi si lasciò sfuggire un sorriso caldo: “Che bella che è quella villa...” sospirò, al ricordo dell'elegante palazzo che si stagliava in mezzo alla campagna: “Sono così felice che tu l'abbia voluta lasciare a Giovanni...”

Lorenzo non disse nulla, sforzandosi di mandar giù qualche pezzo di carne, per contrastare l'aspetto patito che, si era reso conto con orrore, condivideva con Sandro Botticelli.

“Gli piacerà vedere che hai fatto fare nuovi affreschi... Scommetto che ci andrà ad abitare subito, quando tornerà...” aveva ripreso la donna, sforzandosi di tenere un tono allegro.

“Se tornerà – la corresse il marito, con una certa durezza, senza comunque incupirsi più di tanto – e se sarà il caso.”

“Non dirmi che vuoi tirarti indietro...” fece allora Semiramide, smettendo per un attimo di mangiare: “Tu stesso hai insistito tanto, quando vi siete divisi i beni di famiglia, affinché quella villa la tenesse lui. È perfetta, per Giovanni. In un attimo può arrivare a Firenze, e per il resto gli permette di fare le cavalcate in campagna che ama tanto...”

Il marito restò in silenzio e trangugiò ancora un po' di stufato, mentre la moglie cercava di mantenere la calma.

Anche se a volte anche a lei pareva che la scelta di Giovanni fosse stata troppo azzardata, non appena ci pensava sopra un po' di più, finiva per dirsi che non le importava che razza di donna si fosse scelto. Se per lui la Tigre era quella giusta, allora lei l'avrebbe accettata volentieri come cognata.

Una famiglia felice, ecco cosa si meritava Giovanni, secondo lei. E, per averla, sapeva che era fondamentale per il cognato che Lorenzo fosse d'accordo e disposto ad accettare Caterina Sforza nella loro famiglia.

“No, certo – fece alla fine Lorenzo, accorgendosi che la moglie stava ancora aspettando una sua reazione – non voglio togliergli nulla. Quella villa è di Giovanni e basta...”

“Di Giovanni e dei figli che avrà.” rafforzò l'idea Semiramide, convinta che quell'ipotesi potesse in qualche modo raddolcire il marito.

Lei per prima non vedeva l'ora di diventare zia. Già si immaginava i cognati in visita, assieme ai bambini, che sarebbero subito diventati amici dei loro cuginetti...

“Sì, sì...” confermò senza enfasi Lorenzo, sollevando un sopracciglio e afferrando il calice di vino per bere un po': “Di Giovanni e dei figli che avrà.”

La moglie diede a intendere di aver creduto alla buona volontà del marito, però, mentre sorbiva lentamente il brodo, non smise un momento di lanciargli occhiate dal sopra il bordo della tazza, cercando di capire che cosa mai stesse infuriando davvero nella testa di Lorenzo.

 
   
 
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