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Autore: DarkMoon02    16/11/2017    0 recensioni
Vive una dea-regina tra gli umani. Quando 25 anni fa una guerra intergalattica ha costretto i suoi genitori a nasconderla nel mondo terrestre, viene privata della corona e del suo passato. Ancora bambina, ricostruisce la sua vita ignara dei grandi eventi passati e futuri. Grazie ai suoi poteri superumani, e alle sua magiche capacità glaciali, viene presa sotto l'ala dello S.H.I.E.L.D, agenzia spionistica militare dedita alla protezione globale da minacce soprannaturali. Dopo un congedo volontario, un incidente la costringe al nuovo arruolamento, questa volta nella formazione Vendicatori. Nel frattempo, nel suo mondo natale, la quiete faticosamente riacquistata viene infranta da un vecchio nemico. Con il re e la regina caduti, la speranza di salvezza pare proprio essere la giovane esule. Un tuffo nel passato, una doppia vita e una squadra di supereroi la accompagneranno fino al giorno della sua ascesa.
Genere: Avventura, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Movieverse | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Triangolo
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Passò un mese da quella concitata sera. Fu un periodo tutto sommato tranquillo: non venne affidata alcuna missione ad Eira, ma fu invece convocata dallo S.H.I.E.L.D solo per questioni di poco conto, come interrogatori a criminali con cui nessuno voleva avere a che fare. Alla torre, poi, il tempo scorreva ancora più lentamente quando un mentecatto qualsiasi non tentava di sterminare l'umanità.
 Conobbe il celebre Dottor Bruce Banner, un ometto timido e di poche parole, che a quanto le era stato detto era di rientro da una “vacanza” in seguito agli eventi di Sokovia. Visitò perfino la Facility nell'Upstate con Rogers, una mattinata; per la verità, Steve la obbligò ad accompagnarlo, perché a parer suo “le avrebbe fatto bene passare del tempo con altri ragazzi”. I nuovi membri erano tutti elementi capaci, ma era palese mancassero ancora della coordinazione che il vecchio team vantava. Eira, in particolare, rimase colpita dalla giovane età della Maximoff: sicuramente, Wanda era più piccola di almeno 5 anni. Parlò più con lei che con chiunque altro dentro la Facility, cosa che non le dispiacque affatto.
 
 
 Una notte, ne ebbe abbastanza del monotono soffitto della sua camera. Uscì dalla sua stanza come una furia, si precipitò all'hangar e poi raggiunse il ponte di decollo dell'Avenjet. Si sporse dal bordo della pista e vide i bagliori della città che, malgrado la tarda ora, viveva e brulicava, ed udì gli schiamazzi dei ragazzi che di dormire non ne volevano sapere. I molti temerari che si erano avventurati per le strade non si erano nemmeno preoccupati di infagottarsi per bene, tanta era la loro vanità e la loro voglia d'attenzione. Assaporò il freddo pungente di quella sera, un’avvisaglia di gelo invernale che quell'anno tardava ad arrivare. Levò gli occhi al cielo velato senza stelle, e si chiese se mai il bagliore della luna rischiarasse il buio oltre il banco di nuvole.
 Rigirò la maschera di metallo tra le sue dita, e sospirò; poi l'applico sul suo volto. Chiuse gli occhi, fece un passo avanti e si lasciò inghiottire dal vuoto dinnanzi a lei. Il vento sferzò sulle sue guance di porcellana, le pettinò i capelli, e gli fischiò nelle orecchie, ma non le fece male. Quando il suolo le fu a poche decine di metri, aprì gli occhi e spinse verso l'alto.
 Volò, volò sempre più su, sempre più veloce, ed arrivò ad infrangere il muro del suono con un forte boato. Nel giro di pochi secondi, le costruzioni sotto di lei si rimpicciolirono fino a diventare puntini sfavillanti; ad Eira, tuttavia, non bastò quella misera prova. Insistette perché potesse arrivare ad altitudini proibitive, dove solo le macchine potevano giungere. Incontrò le nubi che oscuravano New York, e con un ultimo sprint le sorpassò.
 Oltre, la accolse una realtà quasi mistica. Un mondo silenzioso e leggero. Il profondo nero della notte era screziato da migliaia di stelle e stracciato da una splendida falce di luna, mentre le raffiche di vento erano meno violente e l'aria più fredda. Seguire con lo sguardo le nuvole all'orizzonte era come affacciarsi su un oceano di schiuma. Era un pensiero infantile, e in quanto tale lo scacciò immediatamente via, ma Eira in quel momento avrebbe venduto l'anima pur di addormentarsi sul soffice materasso bianco.
 L'emozione del primo volo dopo mesi fu troppa e gridò. Gridò così forte e così a lungo da avere la gola in fiamme, ma ne valse la pena. Oh, quanto le era mancata quella onnipresente oscurità, quella sensazione di libertà e potere. Lassù si sentì invincibile ed incontrastata, ma soprattutto lontana dalle soffocanti questioni terrene.
 Gettò uno sguardo alla luna: com'era bella quella notte...bella ed irraggiungibile. Amata, cantata, narrata, eppure inafferrabile. La bianca lanterna della notte era una beffa del creato: ricordava all'umanità che le vere meraviglie erano fuori dalla loro misera portata.
 Trascorse un po' di tempo in alta quota; forse si trattarono solo di una manciata di minuti, o forse furono ore. Il firmamento vegliò su di lei con piacere, anche quando optò per una lenta discesa, ancora una volta nel mondo terrestre. Trafitto il banco di nuvole, fu accolta dalla piacevole sorpresa che era la prima nevicata della stagione: ciuffi, cumuli e spruzzate di neve addobbavano in lungo e largo le strade di New York, e le donavano quel tocco natalizio che tutti desideravano in quel periodo. I cristalli che con pigrizia cadevano era numerosi e grossi, e per posarsi non facevano distinzioni tra un'arrugginita panchina e i raffinati tetti dei palazzi governativi. Alcuni fiocchi le si posarono sul capo a mo’ di corona, ma lei non se ne curò minimamente e continuò a godersi il festivo panorama.
 Nonostante galleggiasse su decine di edifici, i suoi occhi vennero catturati dalle luminarie dello svettante Empire State Building. Ci pensò su per un momento: su qualche tetto ci si sarebbe rintanata in ogni caso, quindi tanto valeva appollaiarsi sul grattacielo più alto della città e attendere l'alba. Planò verso la base del pinnacolo e atterrò con grazia sul cemento; si accovacciò sul bordo, si sciolse la coda di cavallo, si massaggiò la sua nuca, e chiuse gli occhi. Negli anni, quell'acconciatura era diventata il suo marchio di fabbrica, ordinata e professionale. Pochi avevano visto la sua chioma in mise più complesse, ancora meno al naturale. Adesso però, le diafane ciocche scivolavano lungo la sua schiena fino al terreno, e la frangetta le velava l'occhio sinistro.
 L'idillio venne interrotto da un acuto ronzio. Eira, pensando si trattasse di qualche insetto finitole nell'orecchio, scosse la testa, ma il rumore continuò imperterrito. Scartata l'ipotesi dell'animale, si alzò e si guardò intorno alla ricerca dii qualcosa che spiegasse il fatto. Non notò nulla di anormale. Imprecò, e il ronzio si fece perforante; digrignò i denti, si massaggiò le tempie, barcollò, finché per un attimo credette di star perdendo la ragione. Allorché cadde ginocchioni, con il busto premuto sulle cosce e i palmi contro le orecchie. Spalancò la bocca in un grido muto, ma improvvisamente, proprio quando i sensi la stavano abbandonando, tutto ritornò calmo. Scattò in piedi e strappò dalla cintura il suo paio di coltelli; nessuno, tuttavia, la attaccò.
 Il cielo si fratturò, e dall'alto si riversò una luminosa cascata di luce. Fu avvolta dal fascio argenteo, poi trascinata in alto da una forza che non seppe contrastare. I suoi occhi furono investiti da miliardi di scintille colorate, immagini distorte di pianeti e stelle ardenti. L'ultima visione fu un flash.
 Toccò terra ed affondò in qualcosa di umido e freddo. Appena riebbe tutte le sue capacità motorie, si raccolse a gattoni, e si concesse qualche istante per riprendersi del tutto dallo stordimento. Poi, tentennante, raccolse i suoi coltelli – che si erano conficcati nella neve, vicino a lei – e si alzò. Il vento gridava, e una tormenta al massimo della sua forza le sputava la neve in volto. Si guardò dunque attorno, e tutto quello che vide fu una densa e alta nebbia; così densa che tutto quello che riuscì a scorgere furono ombre grigie.
 In quel Cocito dantesco, notò un dettaglio che la destabilizzò: era giorno. Mille diversi interrogativi le si affollarono nella mente, ma tutti convergerono ad unica, seppur improbabile, teoria: qualcuno doveva averla rapita e lasciata là a morire. Chi era ancora sulle sue tracce, nonostante i lunghi mesi di inattività? Dov'era finita? Come erano riusciti a farle perdere i sensi? Poche sostanze avevano effetto su di lei, e certo non erano allucinogeni o soporiferi. Quel ronzio, quel ronzio... che diamine era stato? E poi, quella colonna di luce? Non c'era un solo elemento che quadrasse.
 Costrinse il suo cervello alla lucidità, cosicché poté iniziare ad esaminare la situazione. Era giorno, quindi quella poteva essere l'Europa come l'Asia. Bufere di quella portata e in quel periodo non erano proprie del Vecchio Continente Ovest, o perlomeno erano fenomeni destinati a scemare velocemente. Zone come il Tibet e Caucaso, avrebbero presupposto territorio montuoso, quindi erano da escludere. A quel punto avrebbe potuto trovarsi ovunque, tra l'Europa Orientale e l'Asia Settentrionale.
Era poco meno di un anno che non svolgeva missioni di alto livello, e oltretutto nell'ultimo periodo rappresentava un bersaglio facile nei suoi panni civili: chi poteva aver aspettato tutto questo tempo?  Perché portarla là, poi: diamine, non c'era pezzo grosso che non sapesse delle sue capacità superumane. O il sequestratore era incredibilmente stupido e privo di informazioni, o … non seppe trovare un'alternativa.
 Tentò di oltrepassare il banco di nebbia, ma ogni passo sembrava la portasse sempre più in profondità. Smise quindi di vagabondare alla cieca, o avrebbe peggiorato una situazione già di sé complessa. Non c'era altro da fare se non aspettare sotto un rifugio di fortuna che la bufera si calmasse. Da lì, delle buone condizioni di volo sarebbero state il suo biglietto di ritorno.
 Fece per inginocchiarsi a terra, ma una macchia in movimento poco distante da lei catturò la sua attenzione. Perplessa, si tolse la maschera e l'agganciò alla cintura, accanto alle fondine. Strizzò gli occhi fino a piccole fessure: era di certo di una bestia, ma la sagoma si faceva sempre più imponente. Troppo. Afferrò una pistola e scaricò un paio di colpi verso l'alto, giusto per liberarsi della creatura senza dover ricorrere all'abbattimento: quella non batté ciglio. Decise allora di abbandonare i suoi principi animalisti, e fece fuoco un paio di volte contro l'animale: l'effetto fu nuovamente nullo. Ripose l'arma e strinse i pugni in una morsa gelata: dove non sarebbero arrivati i proiettili, sarebbe arrivata lei.
 Quando quell'ombra acquistò forma e la raggiunse, Eira si ritrovò dinnanzi un cavallo alto e largo il doppio di uno da tiro pesante, inquietante nella sua statura. C'era qualcosa che non andava bene in quella bestia, a rigore di logica. Sul capo, appena dietro le orecchie, spuntavano delle argentee corna da ariete, una delle quali prive di punta. Il manto era candido come la neve e la criniera e la coda, entrambi lunghi all'inverosimile, erano di pelliccia invece che di crini. Ciuffi di peli coprivano i muscolosi stinchi, ma lasciavano intravedere zoccoli d'argento grossi quanto vassoi. Sul muso, profonde narici fumavano e si contraevano, mentre due occhi azzurri scrutavano l'anima.
Il destriero nitrì ed Eira inorridì. Non fece in tempo a cogliere i dettagli della creatura, perché mutò, cambiò sembianze. Gli arti si dimezzarono, si scorciarono e si ammorbidirono, il pelò sfumò, le ossa si deformarono e gli zoccoli si articolarono in callose dita. Le spoglie equine si dissolsero, per lasciare posto a quelle di un vecchio sulla ottantina. Il volto barbuto, unica nota familiare alla sua apparente età, solcato da cicatrici e pesanti rughe d’espressione, tradiva il fisico da prestante trentenne, le spalle larghe e la ben piazzata massa, tutto avvolto in una voluminosa pelliccia. Aveva indosso una pesante casacca ricamata, dei pantaloni di cuoio, e calzava degli stivali orlati di pelo. Un paio di cinture, una delle quali appiglio di un fodero, gli cingevano i fianchi.
L'essere si avvicinò, mentre l'altra accarezzò l'idea di esser precipitata nel baratro della follia. Fece un largo sorriso e accarezzò la guancia della ragazza con il dorso della mano; lei non si ritrasse, non tanto per paura quanto per curiosità. Gli occhi del vecchio, persi in quelli di Eira, erano vivi e scintillanti, ma privi di fondo; lì, vi era l'infinità di un terso cielo primaverile.
  “Eira...” scandì con un fil di voce. Le grida della bufera si zittirono.
 Le scostò i capelli dagli occhi e come se non gli bastasse, le strinse con entrambe le mani il viso. “Eira...”
 Quel vecchio, o qualsiasi cosa fosse ad ogni modo, la guardava come se non avesse altro al mondo. Sussurrava come se non credesse a ciò che toccava con mano. Se non fosse stato per la controparte equina e per i principeschi abiti, Eira si sarebbe ricordata dell'uomo come un folle vagabondo. Un mutaforma allontanato dalla società e ridottosi ad un clochard, probabilmente. Ma no, quella sera gli eventi inspiegabili erano troppi.
 Il vecchio continuava a studiarle il volto, in ogni particolare. Era quasi fastidioso.
   “Chi sei?” domandò, cogliendolo di sorpresa.
 Il sorriso del mutaforma si spense velocemente come si era acceso. Lasciò andare il viso della giovane, arretrò e si rintanò nella candida pelliccia.
  “Io sono Knutr, figlio di Frothi, stregone-animale ed ex consigliere del defunto Re Northri.”
Le cadde il mondo addosso. Il vecchio parlava la lingua che tanti anni prima Alfred le aveva faticosamente insegnato; a detta del padre, quello era un idioma estinto da tempo, ed informazioni di qualsiasi genere non si trovavano nemmeno negli abissi della rete. Allora, perché costui la padroneggiava al pari suo? Dopo la battaglia di New York, più volte Eira aveva ipotizzato che il padre le avesse spacciato un codice alieno per una lingua morta. Un'idea più che fantasiosa la folgorò, e decise di metterla alla prova. Anni di studi letterari, documentazioni, di missioni e racconti, alimentarono i suoi dubbi
  “Non sono sulla Terra...vero?”
  “No mia cara, ti trovi a Nifleheimr.”
 Nifleheimr. Con gli occhi si postò da destra a sinistra, e vide solo neve, nebbia ed ombre. Non aveva ragione di essere così, ma i fatti parlavano da sé. Non fu in grado di prendere le parole del vecchio come dubbie nonostante i numerosi tentativi, perché in una contorta visione della vicenda, quella frase aveva senso. La parziale rivelazione non le fu di conforto, ma anzi le offuscò ancora di più la mente.
 Lui, oh, lui sicuramente sapeva la risposta ai suoi interrogativi, e non solo a quelli. Conosceva il suo nome e, presupponendo si trattasse di una specie di extraterrestre, non era cosa che la tranquillizzava.
  “Cosa mi è successo?”
  “Ti ho portato a casa.”
  “Casa…?”
  “Ascoltami, Eira: questo non è né il luogo né il momento per cotante delucidazioni. È essenziale che tu mi segua, di modo che io possa fare luce sui tuoi dubbi.”
  L’interrogativo rimbombato troppo a lungo nella sua testa, esplose in una domanda troppo ansiosa. “Come fai a parlare la mia lingua?”
  “Beh, è anche la mia.”
 Dopo quella risposta così naturale, ma che di ovvio in realtà non aveva nulla, acconsentì, sebbene non fosse da lei. Qual era l’alternativa? Senza informazioni e del tutto disorientata, tentare un raggiro o un’estorsione di informazioni avrebbe richiesto una buona fetta di tempo - un lusso che di certo in quel momento non si poteva permettere. Oltre al fatto che rifiutare il ricongiungimento con un’ipotetica civiltà avrebbe significato vagare fino alla pazzia in quella landa flagellata. Si sarebbe dovuta aggrappare alla versione “fantasiosa” dei fatti e attendere una qualche spiegazione.
 Knutr le girò attorno, e quando le ricomparse davanti lo fece nelle sue spoglie equine. Si sdraiò sulla neve e le fece un cenno perché salisse in groppa. Eira afferrò le logori corna e si issò sul dorso; il destriero pressoché immediatamente galoppò via. Il sibilo del vento e il fruscio della neve la resero immediatamente e nuovamente sorda, come se per tutto quel tempo lei e Knutr fossero stati protetti da una bolla.
 Quella distesa era sconfinata. Un po’ per la nebbia, un po’ per la neve e un po’ per la reale dimensione di quel deserto gelido, ovunque Eira si voltasse vedeva solo un interminabile nulla. Era prodigioso come l’animale riuscisse ad orientarcisi: nessun punto di riferimento, nessuna strada, niente, eppure procedeva. Ombre, ombre, e solo ombre.
 Finalmente la nebbia iniziò a diradarsi: le sagome grigie si scurirono e acquistarono forme più dettagliate, lo spazio prese profondità. Il banco infine si dissolse del tutto. Apparvero allora pozze d’acqua cristalline, blocchi di cespugli spinosi, arbusti dal fogliame fitto, massi color panna ed enormi conifere. Il territorio si rivelò essere molto accidentato, contrariamente a quanto poteva sembrare celato dalla coltre. Sotto gli zoccoli di Knutr, i ciottoli venati del sentiero scricchiolavano. Dai rami delle piante pendevano frammenti di cristallo che tintinnavano ad ogni soffio di vento; il suono prodotto non era però un’angelica melodia, bensì un tetro rintocco.
 Cavalcarono per una buona decina di minuti, durante il quale la natura si fece sempre più viva. Incontrarono bestie simili ad orsi e lupi con il pelo tanto chiaro da confondersi alla perfezione con la neve, alci dalle corna di vetro e linci con canini che facilmente avrebbero potuto strappare via muscoli e carne. L’urlo di un’aquila riecheggiò svariate volte.
 Giunsero al limitare del bosco, uno spiazzo improvvisamente privo di vegetazione oltre il quale vi era un burrone. Da quella rupe, Eira realizzò di trovarsi su una delle cime di un enorme acrocoro che si estendeva a perdita d’occhio fin oltre l’orizzonte. Le vette erano tutte innevate, ma soprattutto tappezzate di boschi. Su un rilievo non troppo lontano, intravide una cascata: l’acqua precipitava giù con una forza che solo la natura più selvaggia possedeva, e andava scomparendo dalla vista nella profondità del suo strapiombo. Gli unici resti di quel maestoso corso d’acqua, erano le nuvole di vapore. D’innanzi a lei, invece, c’era un ponte di pietra: non era molto ampio, forse nemmeno 20 piedi, ma i parapetti erano decorati finemente.
Il lungo viadotto conduceva alla cima di fronte, sul quale vi era arroccata una città immensa. Gli edifici erano massicci, principalmente regolari, tuttavia effigiati riccamente, con pilastri e alto rilievi. Sparsi per la città vi erano numerosi monumenti, passarelle e fontane, tanto imponenti da poter essere riconosciuti perfino da una considerabile distanza. Calotte dai tetti scintillanti ed archi maestosi spiccavano tra le migliaia di costruzioni.
 Sulla cima della montagna si ergeva un castello. Le pareti erano di marmo e quarzo, completamente incise e scolpite con intricati motivi. Decine e decine di guglie, cupole e strutture secondarie ruotavano attorno al corpo principale dell’imponente edificio – il tutto in linea con uno stile che sul mondo terrestre sarebbe stato considerato gotico. Le numerose finestre erano in gran parte abbellite con vetrate lucidissime ma prive di colore e grate di marmo.
 Knutr lasciò Eira studiare lo scenario. Non si mosse e non parlò: non c’era nulla da spiegare che la giovane non potesse vedere con i suoi occhi.
S’incamminarono dunque per il ponte. Non appena l’animale posò uno zoccolo sul lastricato del viadotto, la bufera si calmò: il vento smise di soffiare, i fiocchi si fecero più grandi e radi, la neve cadde con più dolcezza. Anche i cristalli sul capo e sulle spalle di Eira parvero volatilizzarsi. L’atmosfera e il silenzio finalmente ottenuto davano alla città un che di fiabesco.
 Superarono una volta ed entrarono in città. Imboccarono una grande e tortuosa salita, dalla quale mano a mano che procedettero se ne diramarono altre più piccole, strettoie, rue, fino a creare un fitto dedalo. Le strade erano eccezionalmente pulite e il pavimento selciato. Le varie abitazioni e botteghe, a prescindere dalla loro apparente umiltà o dalla loro ricchezza, erano tutte dotate di colonne, cornicioni particolareggiati d’argento, grandi finestre e portoni in candido legno massello. Negli angoli delle vie, a dispetto della neve, erano stati posizionati dei grandi bracieri dove voraci lingue di fuoco ardevano e crepitavano con vigore. Anche agli usci degli edifici le fiamme ardevano all’interno di lanterne e torce.
 La moda era ovviamente dettata dalle condizioni climatiche del posto. Tra le donne parevano largamente diffusi i lunghi e pesanti abiti broccati, specie in colori chiari e spenti, gli stivali imbottiti di pelo e gli orecchini vistosi. I capelli erano spesso sciolti, lunghi, saltuariamente legati in una o due trecce. Gli uomini invece sembravano preferire un abbigliamento simile a quello di Knutr: casacche di lana, calzoni di cuoio o pelle che ricadevano morbidi lungo le muscolose gambe, anfibi foderati all’interno. Le chiome maschili erano anche loro lunghe ma, al contrario di quelle del gentil sesso, sempre raccolte in codini, code e trecce, oppure rasate. Sia le fanciulle che i signori, ad ogni modo, indossavano grossi cinturoni e mantelli di pelliccia.
 C’era molta vita per le strade, ma nessuno la notava, nemmeno i bambini. La sua uniforme non passava inosservata tra i suoi colleghi, e tantomeno avrebbe potuto farlo lì: allora, perché nessuno la fissava o la indicava? Certo, non era l’unica a cavallo, ma era palese ci fosse qualcosa di estraneo in lei – almeno, secondo la prospettiva delle altre persone. Forse era la magia di Knutr a nascondergli dagli sguardi altrui, o forse gli abitanti erano semplicemente abituati a certi spettacoli.
 Eira ne ebbe di tempo per studiare il luogo: passò infatti una buona mezz’oretta da che furono entrati in città, nonostante procedessero al galoppo.  Knutr la condusse ai piedi di una scalinata, imponente, bianchissima e curva su se stessa. I gradini erano perfettamente lisci e molto alti; le due balaustre laterali erano traforate di modo che la luce creasse affascinanti giochi, e al loro principio si ergevano due colonne.
In cima, gli attendeva un picchetto di guardie in armatura completa: un equipaggiamento pesante, ma ricco e raffinato al contempo, completato da pellicce, armi d’ogni forma ed elmi con cimieri d’argento. Tutti uomini e donne ben piazzati, sicuramente molto più alti della media umana. Presidiavano, in circa una ventina alla destra e una ventina alla sinistra, il maestoso portone d’ingresso. Le due imposte di pietra erano scolpite con motivi simili a quelli vichinghi; draghi, bestie, armi e cavalieri spiccavano tra le figure intricate. Le maniglie erano due grossi anelli di ferro battuto.
 Furono dunque al loro cospetto. Con un cenno del muso, Knutr fece segno ad Eira di smontare da cavallo e in un attimo riprese le sue sembianze umanoidi. Avanzò a passo svelto verso le guardie, le quali senza fare domande – nonostante sarebbe stato più che legittimo farle – spinsero tutti assieme le imposte.
 Fecero il loro ingresso in una gigantesca sala, divisa in tre navate d’archi. I pilastri erano d’una pietra liscia ed opaca, mentre le volte erano porose e intagliate; gli architravi brillavano d’oro e argento grazie ai loro complessi altorilievi. Il soffitto era riccamente scolpito, tanto da rasentare la pacchianeria, e con i suoi decori narrava agli spettatori grandi guerre e trionfanti vittorie su nemici leggendari. Una dozzina di candelabri pendevano dall’alto, senza tuttavia reggere alcun cero.
 Le pareti delle due navate laterali erano effigiate allo stesso modo del soffitto, anche se di quando in quando vi erano appese armi, drappeggi ricamati e lussuosi bracieri spenti. Da queste due sezioni esterne partivano decine di corridoi, custoditi da altrettante arcate. Il pavimento era di alabastro, lucidissimo e intatto. In fondo all’androne v’era una scalinata a due ali: i parapetti d’argento battuto erano decorati dai corrimano in marmo, stesso materiale di cui erano fatti i gradini. Una fontana a molteplici piani, tutta intagliata e decorata, zampillava acqua senza far rumore al centro delle due ali.
 C’era un concitato via vai in quell’ambiente, gente che faceva su e giù e che entrava e usciva dai corridoi. Questa volta le persone la notarono ed iniziarono a bisbigliare tra di loro. Nessuno tuttavia osò avvicinarsi alla misteriosa straniera.
 Eira e Knutr s’affrettarono lungo le scale – tanto che la giovane macinò due gradini alla volta per tenere il passo. Raggiunsero quindi uno spazioso pianerottolo. Occorreva scegliere se imboccare il corridoio difronte a loro oppure una delle due vie laterali, le quali poi si articolavano nelle due passerelle che sovrastavano il salone sottostante. Knutr proseguì dritto e fece ingresso in una galleria semibuia, resa ancora più oscura dalle tenebre che oramai s’apprestavano ad avere la meglio sui bagliori diurni. La luce, fioca e fredda, giungeva dalle torce e dai bracieri appesi ai pilastri; era comunque appena sufficiente affinché si vedesse dove si stava andando. Eira accarezzò la parete con la punta delle dita e le sembrò che la superficie divenisse più fredda.
 Camminarono lungo molti altri androni e scalarono molte altre gradinate. Studiò ben bene ogni corridoio e contò ogni singolo passo, cosicché in seguito avrebbe saputo ritrovare la via d’uscita. Aveva inoltre il presentimento che nei giorni a venire avrebbe dovuto sapere anche come giungere dove stavano andando, e non solo andarsene.
 Sparsi per i corridoi, Eira incontrò scranni e divanetti, tende che celavano selezioni di vetrate immense e armi messe in bella mostra come premi. Passò poi accanto a guardie, donne e uomini di servitù, i quali non persero occasione per gettare su di lei un’occhiata furtiva ed eccitata.
 Knutr si fermò finalmente davanti ad un alto portone di pietra. Ai lati delle ante s’ergevano due colonne, i due guardiani dell’ingresso. Seguendole con lo sguardo, gli occhi pervenivano ad una meravigliosa trabeazione, scolpita e rifinita in Rjok, l’oro bianco nifler.
  “Che c’è dietro?” chiese Eira, guardando quel portone come se si aspettasse che prendesse vita.
  “La sala del trono,” le rispose quello, con una naturalezza ridicola. “Delle persone ti attendono.”
 Si fece avanti e aprì a piene mani i due battenti. La sala era molto grande e si sviluppava in lunghezza. Sul candido pavimento era stato srotolato un tappeto grigio, morbidissimo. Il soffitto e le mura erano sorretti da grossi pilastri e dai loro archi, le cui basi erano decorate alla stessa maniera del portone d’ingresso del palazzo. Dei drappeggi e degli stendardi broccati scivolavano lungo le porzioni di muro tra colonna e colonna; alcuni erano perfino ricamati di modo che raffigurassero scene di guerra. Un soldato ogni due pilastri, immobile e silenzioso, faceva guardia alla seduta reale.
 In fondo c’era un abside. Al suo interno, oltre un paio di scalini, v’era stato collocato un trono di marmo, massiccio e possente. Lo schienale era finemente intagliato e molto alto; sulla sua sommità un’aquila albina in carne ed ossa se ne stava minacciosamente appollaiata. Il sedile e i braccioli imbottiti ammorbidivano le linee dure ed aspre della seduta.
 Eira e Knutr si avvicinarono al regale monumento. Allora, delle anziane figure in pesanti vesti grigie comparvero alle spalle del trono. Le lunghe barbe e i capelli acconciati barbaramente erano in linea con l’idea generale che Eira si era fatta del luogo e della gente. Uno di loro, in particolare, si impose su tutti gli altri con la sua camminata importante e i suoi occhi che parevano consumati da spettacoli leggendari. Si avvicinò più di tutti ai due visitatori, finché non li fu che a pochi passi.
 Posò il suo sguardo su di Knutr e fece cenno di assenso. Poi si dedicò ad Eira: la trafisse con quelle profonde orbite incolori ed acquose, dunque sorrise.
                                                       
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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