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Autore: lady lina 77    16/11/2017    0 recensioni
E se nella scorsa fanfiction mi riagganciavo al finale della S2, ora mi aggancio a quello della S3. Tutto comincia in quella spiaggia dove Demelza, col cuore a pezzi, si concede a Hugh Armitage. E dopo? Se non fosse tornata a casa, cosa sarebbe successo?
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Demelza Carne, Elizabeth Chynoweth, Ross Poldark
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ottobre


Dopo la morte di Hugh, Demelza era crollata. I suoi nervi avevano ceduto e per giorni non aveva fatto altro che piangere e stare male. La nausea era tornata prepotentemente, era spossata e il suo stomaco era completamente chiuso, tanto che c'erano giorni in cui non mangiava praticamente nulla.

Non credeva che sarebbe stato così devastante, ma invece lo era. Hugh era stato un raggio di sole in quei mesi, un amico fedele e dolce e soprattutto era il padre del bambino che stava aspettando.

Sapeva che cedere a Hugh, donarsi a lui e vivere quella gravidanza erano gli errori più grandi della sua vita, così come sapeva che nonostante tutto il suo cuore sarebbe sempre appartenuto a Ross.

Ross, che non l'aveva mai amata davvero, ma che era sempre stato tutto il suo mondo. Pur non corrisposta, lei avrebbe sempre amato quel capitano testardo e indomito, coraggioso e sfuggente, generoso ma spesso avaro di gesti d'affetto. Anche se Ross probabilmente l'avrebbe odiata, quando avesse saputo, anche se lei lo aveva lasciato perché non aveva più avuto la forza per lottare, anche se aspettava il bambino di un altro, era la reazione di suo marito che temeva, più che tutte le difficoltà pratiche che avrebbe dovuto affrontare da sola.

Ross le aveva voluto bene a suo modo e pur amando Elizabeth, aveva avuto sempre a cuore il suo benessere. Presto non sarebbe più stato così e sarebbe stata sola, completamente. E nemmeno Hugh avrebbe più potuto aiutarla. Aveva sbagliato, era vero! Ma le braccia di Hugh l'aveva coccolata e sorretta, stretta e consolata. E ora... ora lui se n'era andato forse felice di aver raggiunto il suo sogno ma lasciando dietro di se uno strascico di dolore difficilmente sopportabile.

Hugh era morto giovane, nel fiore degli anni, amandola e chiamando il suo nome...

Hugh, che non avrebbe mai potuto vedere il suo bambino... E pur convinta di aver agito per il giusto non dicendogli nulla, si sentiva in colpa per averlo privato di quella verità. Anche se non avrebbero mai potuto crescerlo insieme, anche se lei NON voleva crescerlo con lui come una famiglia, per Hugh sarebbe stata fonte di gioia sapere che nel mondo c'era un suo piccolo erede.

"Demelza, sono preoccupato!".

Dwight, venuto a visitarla, pareva anche seccato oltre che preoccupato e lei non aveva voglia di paternali. "Smetti di farlo, la gravidanza è piena di malesseri". Le spiaceva essere brusca ma stava talmente male che non gli riusciva proprio di essere gentile e accomodante, nemmeno con chi stava cercando di aiutarla.

"Da quanto non mangi?".

Demelza sospirò, non aveva dannatamente voglia di parlare. "Da ieri sera. Oggi son stata male tutto il giorno".

Dwight guardò Prudie, venuta da Nampara a farle visita, preoccupata per le sue condizioni così precarie. "Demelza, sono le QUATTRO del pomeriggio. E sei incinta".

"Mangerò più tardi".

"Ti preparo una zuppa calda, ragazza. Ti farà bene" – intervenne Prudie, avvicinandosi al piccolo piano cottura del mulino.

"Non voglio niente" – rispose Demelza, pensando che l'unica cosa che avrebbe desiderato in realtà era che se ne andassero e che la lasciassero sola.

"Devi mangiare, non ti reggi nemmeno in piedi" – insistette Dwight.

"E allora dormirò".

Lo sguardo del medico divenne serio. Lanciò un'occhiata a Prudie, poi le si sedette accanto, sul letto. "Tu qui da sola non ci resti! Ne ho parlato con Caroline e anche lei è d'accordo sul fatto che dovresti venire a stare da noi per un po'. Fino al parto almeno, sei troppo debilitata per continuare a vivere qui".

A quella proposta e davanti al cenno affermativo di Prudie, Demelza spalancò gli occhi spaventata. "NO!".

"Non te lo sto chiedendo, te lo sto ordinando! Da medico".

"Sono grande abbastanza per decidere da sola".

"Demelza...". Prudie le prese la mano, accarezzandogliela. "E' per il tuo bene".

Dwight annuì. "Demelza, hai deciso di avere questo bambino e di portare avanti la gravidanza e onestamente, se continui così, questo figlio tu lo ucciderai. Sei al quarto mese e nemmeno ti si vede la pancia, sei magrissima, non mangi e stai male giorno e notte. Sei stanca, stressata e sola. Affidati a noi, per questi mesi almeno... Fallo per il piccolo, se non vuoi farlo per te...".

Demelza distolse lo sguardo, liberandosi dalla stretta di Prudie. "Ho un lavoro al villaggio, non posso venire".

Dwight sospirò. "Un mio servitore verrà a Illugan a prendere la stoffa per il tuo lavoro da sarta e poi riporterà il tutto, una volta che avrai rammendato e cucito, a Illugan".

"Non posso accettare".

Il medico si morse il labbro, seccato. "Sei come Ross, stessa testa dura. E visto che stiamo parlando di lui e visto che tu stai molto male... o accetti la mia proposta o mi vedrò costretto a scrivergli a Londra".

Demelza deglutì, spaventata e stupita dalla minaccia di Dwight. Scrivere a Ross? Per dirgli...? "Cosa? Perché?".

"Perché sei sua moglie e la madre dei suoi figli. E stai malissimo, sono preoccupato per te. E viste le tue condizioni così precarie, è mio dovere informarlo".

Non sapeva se Dwight bluffasse o meno, ma il suo sguardo serio prometteva guai e le suggeriva che era meglio non indagare. Il piccolo le diede un calcetto e capì che non poteva rifiutare quell'aiuto, che doveva mettere da parte il suo orgoglio e farlo per lui. O lei. Era vero, non si stava prendendo cura del bambino e sapeva che doveva nutrirsi e cercare di stare bene se voleva che crescesse forte e sano. "E sia. Ma solo fino al parto! E lavorerò mentre sarò da te".

Prudie e Dwight si guardarono negli occhi soddisfatti. "Bene, ti aiuto a preparare le tue cose, ragazza" – esclamò la serva, finalmente più tranquilla.


Dicembre, Natale


L'inverno era gelido quell'anno e la Cornovaglia era sconquassata da venti polari che ne investivano le campagne senza pietà.

Nevicava spesso e le piante, con le loro fronde, erano congelate anche durante il giorno.

Demelza aveva passato a letto molte settimane dopo il suo arrivo nella grande villa di Dwight e Caroline. Inizialmente perché stava male e faticava a riprendersi e successivamente per recuperare le forze perse a causa di quei mesi di forte stress e dolore.

Stava meglio, non poteva negarlo! Accettare, seppur forzatamente, l'invito di Dwight a trasferirsi da loro era stata la decisione migliore degli ultimi mesi.

Le nausee pian piano erano passate, aveva ricominciato a mangiare con più gusto e finalmente la pancia aveva iniziato ad essere evidente, cosa che le aveva fatto tirare un sospiro di sollievo.

I primi mesi, finché Hugh era stato vivo, non si era mai concentrata sul bambino. Troppe incognite, troppo dolore, troppe cose che le giravano attorno e la facevano soffrire. Ma dopo la morte del giovane, il piccolo era diventato la sua unica realtà, l'unico appiglio in un mondo dove era rimasta pressoché sola. Quel bambino era un nuovo inizio ma purtroppo lo sapeva, allo stesso tempo era un taglio netto e doloroso col suo passato. Averlo, dargli la vita, significava dover rinunciare agli altri suoi figli e questo le straziava il cuore.

E il giorno di Natale questo era ancora più devastante.

Aveva poltrito a letto fino a tardi dopo una notte passata a piangere e poi si era lavata e vestita per finire di nuovo a ricoricarcisi. Aveva preso la lana che le aveva donato Caroline e ricominciato a cucire, seduta nel letto, i vestitini e le copertine per il piccolino. Era ormai al sesto mese di gravidanza e quel lavoro così silenzioso e tranquillo sapeva isolarla dalla realtà e rasserenarla. Però quel giorno era difficile lo stesso...

Ross era a Londra, coi suoi bambini... E lei non era con loro... Lei non sarebbe mai più stata con loro! Si chiese quanto fossero cresciuti, cosa facessero e soprattutto, se si ricordassero di lei. Non li vedeva da cinque mesi e cinque mesi sono tanti per dei bambini tanto piccoli.

Il bimbo dentro di lei, quasi intuendo i suoi pensieri foschi, le diede un calcio. Non era mai violento come lo era stata Clowance durante la gravidanza, questo bambino era tranquillo e pacifico, discreto e delicato nei movimenti. La inteneriva il suo muoversi piano, i suoi calcetti che sembravano più carezze e si chiedeva spesso come sarebbe stato, com'era il suo viso o il colore dei suoi capelli.

In quel momento, mentre si accarezzava il pancione, Caroline bussò ed entrò in camera, portandole un vassoio pieno di dolci e del tè. "Buon Natale mia cara. Visto che ti attardavi, ho pensato di portartela io la colazione. Stai bene?" - chiese, sedendosi accanto a lei sul letto. Prese un gomitolo di lana fra le mani, rigirandosela fra le dita. "Stai di nuovo cucendo? Su, è Natale, tirati su e vieni giù con noi".

Demelza sospirò. "Non ho dormito molto questa notte e preferisco stare qui tranquilla ancora un po'".

"Scenderai per pranzo però, vero?" - insistette l'ereditiera. "Le cameriere hanno cucinato un sacco di cose e visto che Dwight è un orso e non abbiamo ospiti, sei obbligata ad aiutarci a finire il cibo. Più tardi verrà pure Prudie con noi a tenerci compagnia".

Demelza sorrise, erano così gentili con lei, anche se questo poteva costare a entrambi l'amicizia di Ross. Era bello avere amici del genere, che la proteggevano e si preoccupavano per lei. L'avevano ospitata e avevano tenuto nascosta la sua presenza al mondo per consentirle di stare tranquilla senza essere circondata da malelingue. Trenwith era troppo vicina per sfuggire alla voci della sua gravidanza e se George lo avesse saputo, una volta a Londra quanto ci avrebbe messo ad informare Ross di quel pettegolezzo? "Certo che scenderò per pranzo, sta tranquilla" – sussurrò, con un filo di voce.

"Demelza, stai bene?" - chiese Caroline, prendendole la mano. "Sembri così triste".

Si morse il labbro, non riusciva a mentirle e sì, era triste. "E' che è Natale e stavo pensando a quando lo festeggiavamo a Nampara tutti insieme, con Ross e i miei bambini. Ora sono a Londra e non li vedo da tanto! Clowance ha compiuto due anni il mese scorso e io non c'ero! E non ci sono nemmeno oggi a vederli aprire i loro regali... Jeremy adora giocare con le costruzioni in legno e magari a Clowance piacciono le bambole e io... io...". Scoppiò a piangere, piegandosi su se stessa, rendendosi conto giorno dopo giorno delle consueguenze delle sue scelte. Tornare indietro non si poteva, forse nemmeno lo voleva e di certo sarebbe stato difficile proseguire il matrimonio con Ross dopo quello che aveva scoperto fra lui ed Elizabeth. Ma a volte si chiedeva se per il bene dei bambini non sarebbe dovuta rimanere a Nampara. Senza l'amore dell'uomo di cui era innamorata, intrappolata in un matrimonio finto ma almeno vicina ai suoi figli.

Caroline la abbracciò, accarezzandole la schiena. "Stanno bene, i tuoi piccoli sono col loro padre e sono sicura che Ross farà passare loro un bel Natale. E sono anche sicura che la piccola Clowance ha avuto una grande e bella festa per i suoi due anni. So che vorresti essere con loro, ma consolati pensando che stanno bene e che Ross farà di tutto perché siano felici".

Demelza sorrise amaramente. "E se Elizabeth e George fossero a Londra? Se Ross lasciasse soli i bambini per correre da lei?".

Caroline sospirò. "Non lo farebbe mai e lo sai anche tu!".

Abbassò lo sguardo perché no, non lo sapeva. Ma in cuor suo sperava che Caroline avesse ragione.

L'ereditiera le sorrise, pizzicandole la guancia. "Cambiamo argomento, dai! Pensiamo a qualcosa di produttivo".

"Del tipo?".

"Il nome del bambino! Come lo chiamerai? Ci hai già pensato?".

Demelza si guardò la pancia, sorridendo. "A dire il vero, no. I nomi li sceglievo con Ross".

"Beh, pensiamoci visto che Ross ovviamente non c'è!" - insistette Caroline – "Che nome ti piacerebbe?".

Ci rifletté su. In realtà non aveva in mente niente di particolare, sapeva solo che voleva dare al bambino un nome dal suono gentile e delicato. Un nome che poteva piacere a un poeta, un nome che sarebbe piaciuto a Hugh. Almeno questo, glielo doveva. Espresse quel pensiero, e Caroline si accigliò, incrociando pensierosa le braccia al petto. "Che ne dici di Madeline? O Marghuerite?".

Demelza la guardò storto. "Troppo lunghi!".

"Eve?".

Demelza scoppiò a ridere. "Troppo biblico!" - esclamò, affondando nei cuscini divertita.

Caroline sorrise. "Se è maschio, che ne dici di Boris?".

"E' orribile!".

"Trovato! Unwin" – esclamò l'ereditiera.

E a quel punto Demelza rise davvero di gusto, come non le succedeva da tanto. "Scordatelo! L'unico Unwin che ho conosciuto non mi ha fatto una bella impressione".

Caroline le strizzò l'occhio. "Non dirlo a me! Comunque, la cosa importante è che tu non scelga il nome Sarah".

"Perché?".

L'amica le sorrise. "Perché Sarah è mio! Sarà il nome della mia bambina, quando nascerà. E non possiamo avere due bambine con lo stesso nome, pensa alla confusione che questo genererebbe".

A quelle parole, Demelza spalancò gli occhi, tirandosi su di scatto. "Stai dicendo che...?".

Caroline scosse la testa, indietreggiando sbigottita. "NOOO! Non ancora almeno. Ma quando capiterà che mi troverò con una marmocchia con la faccia di Dwight fra le braccia, mi piacerebbe chiamarla Sarah. Tutto qui".

Demelza le sorrise, stringendole la mano. "Ti auguro che succeda presto. E' bellissimo, sai, diventare mamma?".

"Sarà bellissimo... In un futuro lontano". Caroline non sembrava condividere il suo entusiasmo ma annuì, forse per farla contenta. "Riguardo a te, invece... Che ne dici di Eleanor?".

"Eleanor?".

Caroline le accarezzò la pancia. "Sì, Eleanor! Se fosse una bambina, ovviamente. Ha un suono dolce come vuoi tu e sembra il nome adatto che utilizzerebbe un poeta per le sue ballate. Un nome romantico, insomma".

Demelza chiuse gli occhi, ripetendo nella mente quel nome. E immediatamente se ne sentì innamorata... Era il nome giusto! A lei piaceva e sarebbe piaciuto pure a Hugh! "Eleanor... Ellie! Mi piace" – disse, accarezzandosi dolcemente il ventre.

"E sia" – disse Caroline. "Se è femmina, siamo a posto. E il cognome?".

Demelza inspirò profondamente. Il cognome non poteva essere Poldark e non poteva essere Armitage... Scelse la cosa più difficile ma più giusta per tutti. "Carne".

Caroline deglutì. "Sei sicura?".

"Sicura" – disse Demelza, accarezzandosi di nuovo la pancia.


21 marzo, primo giorno di primavera


Attorno a lei sentiva suoni ovattati e lontani. Si sentiva come sospesa nel nulla, immobile e intontita.

Aveva ricordi confusi di quello che era successo nelle ultime ore ma man mano che riacquistava padronanza di se stessa, iniziava a ricordare nitidamente tutto quanto...

Il travaglio era iniziato in piena notte, improvviso, con dolori tanto forti da farla svegliare di soprassalto. Si era alzata e aveva dovuto aggrapparsi alla spalliera del letto per non cadere e poi, con una forza che non pensava di possedere, si era trascinata fino al corridoio a cercare aiuto.

Per la prima volta in vita sua si era sentita spaventata. Non le era mai successo quando aveva partorito i suoi bambini, le loro nascite erano sempre state accompagnate dalla meraviglia del loro arrivo, dalla consapevolezza di una nuova vita che avrebbe arricchito la sua e i dolori del parto non le erano mai pesati troppo perché sapeva che erano solo un breve istante in una vita poi fatta di amore.

Ma quella volta era diverso...

Non era a Nampara e non era il figlio di suo marito che stava venendo al mondo. Stava per partorire il figlio di un uomo che non aveva amato ma a cui aveva voluto bene, era sola e senza affetti e il suo amore, il suo vero amore, era lontano coi suoi bambini e un giorno l'avrebbe odiata per questo. Ma dall'altra parte c'era quella nuova, piccola e innocente vita che cresceva in lei, una vita da tutelare e proteggere oltre che amare, un bambino che non aveva chiesto di venire al mondo ma c'era e come tale andava rispettato.

Dwight era corso subito al suo cappezzale con l'aiuto di una cameriera anziana che aveva già avuto esperienza come levatrice.

Ricordava poco di quei momenti concitati, solo le contrazioni subito ravvicinate, un dolore che non riusciva a gestire e le urla. Non aveva mai gridato tanto durante i precedenti parti.

Era stato tutto veloce e intenso, troppo per lei. L'ultimo ricordo che conservava era la voce di Dwight che le diceva di spingere e poi, forse, il flebile pianto di un neonato.

Non riusciva a ricordare il momento esatto in cui il suo bambino era venuto al mondo perché per qualche strano motivo si sentì stanca, tutto divenne nero e svenne. Non le era mai capitato nemmeno questo...

Quando riaprì gli occhi, le coperte e le lenzuola erano candide e pulite, era stata lavata ed indossava una camicia da notte fresca di bucato che profumava di lavanda.

La stanza era ancora avvolta dall'oscurità del primo mattino, fuori pioveva furiosamente e tirava vento mentre attorno a lei sentiva il calore del camino che scoppiettava.

Cercò di rimettere insieme le idee e d'istinto si accarezzò il ventre. Il bambino non c'era, era tornato piatto e di colpo spalancò gli occhi, cercando la sua presenza accanto a lei, nel letto. Ma non c'era...

Sentì il cuore balzarle nel petto e un terrore sordo che prendeva possesso della sua mente. Dov'era il suo bambino? Cos'era successo?

Si alzò, tentò di sedersi ma un capogiro la fece ricadere indietro, sul cuscino. Si sentiva terribilmente debole, distrutta.

Dwight, accanto a lei, intento a sistemare i suoi attrezzi nella sua borsa di medico, si accorse che era sveglia e corse subito al suo capezzale. "Demelza, sta tranquilla e non fare sforzi".

Quasi non sentendolo, gli strinse le maniche della camicia. "Il mio bambino? Dov'è?".

Il medico si sedette accanto a lei, prendendole la mano. "Sei stata male dopo il parto, sei svenuta e hai perso molto sangue. E' nella stanza accanto, con una domestica e con Caroline. Ho preferito lasciarti riposare e non farti disturbare dal suo eventuale pianto".

Al diavolo! Disturbata dal suo pianto? Del suo bambino? Lo voleva, lo voleva con lei SUBITO! "Portalo qui" – urlò, quasi isterica.

"Riposa ancora un po'".

"Avrà fame, devo allattarlo. Voglio vederlo!".

"Per ora ci affideremo a una balia".

Demelza scosse la testa, inorridita da quella proposta, agitata e in preda a una crisi di nervi. I ricchi e i nobili si affidavano alle balie ma non lei, lei aveva sempre allattato ogni suo figlio e lo avrebbe fatto anche stavolta. "VOGLIO MIO FIGLIO!".

Dwight la studiò in volto, poi capendo che non poteva fare molto per farle cambiare idea, annuì. "Torno subito". Uscì dalla stanza e comparve poco dopo con un fagottino in braccio, avvolto in una morbida coperta bianca. Si avvicinò e lo adagiò sul suo petto, sorridendole. "Forse dovresti rivolgerti a lei usando il femminile. E' una bimba bellissima e in salute, anche se piuttosto minuta".

Demelza trattenne il fiato. Era emozionante, come la prima volta. Sarebbe sempre stato emozionante stringere un figlio appena nato fra le braccia, indipendentemente dalla sua provenienza. In quel momento non c'erano Ross, Hugh o altro, c'era l'amore di una madre che aveva portato dentro di se per nove mesi un figlio che era cresciuto in lei e con lei. Un figlio che respirava, piangeva, rideva e aveva bisogno di cure e amore come ogni bambino del mondo.

Abbassò lo sguardo e la vide, piccola e perfetta. Aveva i capelli biondissimi, il visino rotondo, le sopracciglia lunghe, un minuscolo nasino all'insù e dormiva pacifica e tranquilla, come se ciò che la circondava non la riguardasse. Indossava una tutina rosa con un cappuccio che le ricopriva in parte la testolina, un'idea di Caroline probabilmente, e stringeva fra le braccia un pupazzetto a forma di coniglio.

Era meravigliosa, perfetta. E per un attimo si chiese come un suo errore avesse potuto generare qualcosa di così bello...

C'era, esisteva davvero adesso. E si rese conto che doveva essere così, che il destino voleva che quella fosse la sua strada. Non sapeva ancora il perché e dove conducesse ma quella bambina doveva esistere. La sua vita non sarebbe stata completa senza di lei e nonostante tutte le paure che l'avevano accompagnata, sentì di amarla e che ogni difficoltà che avrebbe affrontato sarebbe stata nulla rispetto alla gioia di essere sua madre.

La baciò sulla punta del nasino, senza che la bimba desse cenno di svegliarsi. Era pacifica e tranquilla come lo era stata per nove mesi dentro di lei.

Dwight le sfiorò la spalla. "Demelza, per oggi sìì un po' egoista e pensa a lei e a te soltanto. Dimentica il resto, questa piccolina si merita ogni tua attenzione e la tua gioia nell'averla al mondo. Ai problemi pensa domani, non scapperanno e saranno lì ad aspettarti. Ma ora goditi questa bimba come ogni madre dovrebbe fare dopo un parto".

"Lo farò" – rispose Demelza, con gli occhi lucidi. Era d'accordo con Dwight, anche se il suo cuore era spezzato all'idea che non ci fossero i suoi bambini lì con lei, a vedere la loro sorellina. Sorellina... Ross non avrebbe mai permesso che la considerassero così, lo sapeva, pensò tristemente.

Ma nonostante questo, li avrebbe voluti accanto. Voleva riabbracciarli, non li vedeva da più di otto mesi e questa cosa la faceva impazzire.

E poi... Era strano perché l'aveva ferita e delusa tante volte e aveva scelto lei stessa di andarsene ma in quel momento, anche se era la figlia di Hugh che teneva fra le braccia, desiderava avere vicino Ross. Voleva che la stringesse a se e la facesse sentire protetta e al sicuro ed era il desiderio più assurdo che avesse mai formulato nella sua vita. Perché non sarebbe mai successo...

Pensò ad Elizabeth e a Valentine e sentì una fitta al cuore. E decise che Dwight aveva ragione, solo la sua bambina contava, in quel momento. "Posso stare sola con lei?".

"Certo. Ma non sforzarti, riposa e dormi finché lei dormirà".

Demelza annuì. Si stese sotto le coperte e mise accanto a se la piccolina. Stringeva forte il suo peluches, sembrava non volerlo lasciare per nulla al mondo.

Quando Dwight se ne fu andato, le accarezzò il visino, le baciò la fronte e le guance e la strinse a se. "Mi dispiace di averti fatta nascere in questa situazione, senza denaro, senza una vera e propria casa e senza un papà. Succederà che ti diranno cose brutte, la gente sa essere cattiva. Ma tu non ascoltarli e corri da me, ti proteggerò sempre".

La baciò nuovamente sul nasino e la piccola finalmente aprì gli occhi. Erano azzurri, di un azzurro intenso che ricordava il mare e col contorno blu. Meravigliosi, puliti, profondi.

"Eleanor, sei bellissima" – le sussurrò, pronunciando per la prima volta il suo nome. E ora che la vedeva, lo trovò giusto e adattissimo a lei. Eleanor, dal suono delicato e dolce, come lei.

La piccola strinse a se ancora più forte il pupazzetto, la guardò e poi chiuse gli occhi, appoggiando le labbra contro il suo collo e riaddormentandosi.

Demelza sorrise e la cullò fra le braccia, cantandole una ninna nanna. Sentì gli occhi pungerle e improvvisamente si ritrovò a piangere. Non sapeva perché... Era gioia? O dolore, stanchezza e disperazione?

Era mamma, di nuovo. Ma una mamma a metà e anche se Dwight le aveva detto di non pensarci per quel giorno, non ci riusciva.

Si sentiva sola, terribilmente. Aveva appena partorito e come ogni donna desiderava essere abbracciata dal proprio amore.

Ma il suo amore era lontano, non era il padre della bimba che aveva partorito e amava un'altra. Aveva sempre amato un'altra e tante volte in quei mesi aveva ripensato al suo matrimonio con lui, chiedendosi perché non fosse bella come Elizabeth e perché non era stata capace di farsi amare da Ross come ci era riuscita lei. Cosa c'era di tanto sbagliato in lei? Perché suo marito, nonostante gli anni insieme, le lotte e i figli, non era mai riuscito ad amarla e aveva cercato conforto in un'altra?

Era davvero inadatta ad essere amata, lei?

La piccola Eleanor, accanto a lei, emise un vagito, riaprendo gli occhi e cercandola con lo sguardo. Demelza si asciugò le lacrime e la strinse a se forte, rendendosi conto che forse no, non era vero che era inadatta all'amore. Eleanor era amore, così come Clowance e Jeremy, anche se erano lontani assieme al loro padre che non gli avrebbe più permesso di rivederli.

Ma Eleanor no, lei era sua, solo sua. E nessuno gliel'avrebbe mai portata via. Non avrebbe mai sostituito gli altri figli ma era e sarebbe diventata la sua ragione di vita, l'unico appiglio per non cedere alla disperazione.

Le sorrise, riprendendo a cantarle una ninna nanna. E la piccola richiuse gli occhi, stretta al suo pupazzo, riaddormentandosi placidamente.




  
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