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Autore: Nirvana_04    17/11/2017    5 recensioni
PREQUEL DE "IL TREDICESIMO RE"
Sette capitoli dedicati al Primo Re della Casa di Venasta.
Agur è il più grande cacciatore tra i Figli di Cahar. Giovane avvenente, erede del regno: gloria, donne e ballate tra le assi della taverna sono il suo pane quotidiano. Alla vigilia del suo ventitreesimo compleanno, egli decide di partire verso le Pietre di Shaev, alla caccia del leggendario Caimhal. E quando si renderà conto che l'ira del Dio Agabar è stata scagliata come una maledizione su di lui, tutto ciò che rimarrà di Venasta sarà il suo sangue e la sua sete di riscatto.
Genere: Drammatico, Fantasy, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Racconti del Veto'
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Quinta Parte
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Un vento malefico spirò da nord-ovest, portando seco il profumo di casa. Nella radura che ospitava i profughi e i guerrieri rinnegati, l’unico suono che si alzava al di sopra delle cornacchie era il gemito dei più piccoli. I neonati si erano svegliati, e strillavano; indolenti verso le pene più grandi, chiedevano sostentamento. Il gruppo di ragazzini si stava litigando una focaccia, già la fame e la miseria facevano da padroni tra gli uomini, e le donne avevano ripreso sulle spalle le loro sacche, per paura che qualche ladruncolo potesse decimare le loro personali scorte. La moglie del mugnaio della zona nord e quella di un contadino delle campagne erano venute alle mani, ognuna delle due reclamava per sé il contenuto di un piccolo forziere: non più di venti peos.
«Devi fare qualcosa, o non ci arriveremo a Vitahj» borbottò Jhann mentre limava il doppio filo dello spadone.
«Cosa vuoi che faccia?» s’incupì Agur, le mani inerti tra le gambe accovacciate. «Non so di chi sia in realtà.»
«È tuo, in quanto frutto della tua terra e moneta del tuo regno» rispose a testa bassa, scrollando le spalle.
Agur meditò a fondo sulle parole dell’amico, e la conclusione fu un’enorme voragine che gli si aprì all’inizio dello stomaco, laddove le antiche credenze portate avanti dal culto dicevano che risiedesse l’anima, proprio sotto e a destra del cuore. Giusto per dire qualcosa ordinò di riprendere il cammino, cosicché sarebbe stato più difficile per gli altri discutere e azzannarsi.
Erano trascorsi due giorni da quando avevano abbandonato Cahar al suo destino. Dalla capitale non erano giunti messaggeri né segni di qualunque attività. Alle loro spalle non c’erano rumori sinistri, solo un silenzio inquietante, ma Agur non poteva permettersi di lasciare indietro esploratori: la gente che lo seguiva era spaventata e pochi erano coloro in grado di potersi addentrare da soli nel bosco; se qualche belva era alle loro spalle, nessuno sarebbe stato in grado di tornare indietro ad avvertirli, tranne, forse, le urla del malcapitato. Perciò il principe continuò imperterrito ad avanzare lungo il sentiero, senza lasciare la strada maestra, incedendo con passo felpato tra le felci, il cavallo guidato con le briglie.
Il silenzio carico di tensione che aveva ghermito i fuggiaschi sembrava scontrarsi come una barriera invisibile contro la vita proliferante della foresta. Stormi di uccelli si alzavano in volo al loro passaggio – Agur stringeva i denti ogni volta che accadeva, poiché quelle creature avrebbero segnalato la loro posizione – e il vento fischiava intorno alle chiome degli alberi, intonando una melodia che egli aveva sempre saputo apprezzare ma che ora era solo un’ulteriore fonte di pena. Simile a lui sembrava pensarla Jhann: l’amico se ne stava sempre un passo dietro di lui, come aveva sempre fatto, e gettava un’ombra sui suoi passi. Agur aveva sempre sospettato che l’enorme uomo era stato fedelmente ingaggiato dal padre per tenerlo d’occhio durante le sue marachelle – il modo giusto per tenerlo al sicuro nonostante la sua presunta libertà. Jhann era due volte la stazza di un uomo normale, i suoi muscoli nerboruti parevano rischiare di esplodere tanto che qualunque veste gli andava stretta; il suo viso rozzo aveva tratti appena accennati, quasi che Anojah avesse limitato la sua somiglianza con l’essere umano. Eppure, al momento della decisione, Agur gli aveva comunque chiesto di tradire il Re per seguirlo in quell’esilio volontario; e Jhann aveva sorprendentemente risposto con un cenno risoluto. Chissà, forse era ancora il volere del padre a guidarlo – forse il Re aveva a cuore la sua vita nonostante l’espressione severa con cui lo aveva diseredato – o, ancora, l’omone aveva mandato all’aria la sua incrollabile fede per dei e boccali pur di prestargli fedeltà. Forse c’era davvero una profonda amicizia a legarli, dopo tante brindate e avventure lontane. Un Re non ha amici, e gli alleati sono pericolosi tanto quanto la serpe, spia degli Dei Rinnegati. Il familiare ammonimento di suo padre mise fine alle sue congetture. Agur si rabbuiò e riprese a concentrarsi sul sentiero.
L’incedere incerto e spaesato dei profughi, il suo popolo, spezzettava l’armonia della foresta. Più si allontanavano da Cahar e dalla Valle, più la vita tornava a popolare il sottobosco. A mezzodì, l’arco di frassino preso dall’armeria e imbracciato da Agur abbatté una coppia di conigli. A lui si unì il rumore di una fionda; il sasso scagliato fece precipitare un rapace. Con quel poco avere, le donne prepararono una zuppa a base di selvaggina e pane nero. I conigli vennero divisi equamente sotto l’occhio vigile di Jhann; non più di un boccone a testa.
Mentre i fuggiaschi si accoccolavano intorno al piccolo fuoco, seduti su pietre o zolle d’erba, Agur si aggirò intorno al piccolo campo, agitato. Il principe era irrequieto. Mentre cercava di non volgere i suoi pensieri verso casa, altre preoccupazioni assalivano la sua mente: si stavano muovendo troppo lentamente, se le creature avessero sguinzagliato le loro forze per la foresta non sarebbe stato difficile stanarli; la sfiducia stava già iniziando a serpeggiare tra i suoi sudditi, la privazione di un posto sicuro e l’incertezza di ciò che li attendeva, nonché la meta ultima di quel folle viaggio, avevano già fatto nascere in loro il macabro dubbio di aver seguito le parole di un eretico. La maledizione scagliata su di lui dall’Agabar lo avrebbe perseguitato fino a Vitahj, e forse anche oltre. Non si sarebbe mai liberato di quell’oscenità, digrignò i denti.
Un rumore nel sottobosco lo mise in allarme. I bambini più piccoli stavano piangendo per reclamare l’attenzione delle madri; uno era caduto e si era sbucciato il ginocchio, e il fratello più grande lo stava rimproverando per i suoi capricci. Lo scalpitio si avvicinò ancora di più, puntando verso il loro piccolo accampamento. Agur incoccò di nuovo l’arco e fischiò, richiamando l’attenzione di Jhann. Una fanciulla intercettò lo scambio tra i due e urlò, isterica.
«Alle armi!» ordinò rabbioso il principe.
Distinse chiaramente il galoppo di un cavallo e, compreso il punto da cui sarebbe sbucato, puntò l’arco. Proprio in quel momento un’ombra oscurò il piccolo sprazzo di cielo che si affacciava tra la chioma degli alberi, e una nota acuta e limpida attraversò lo spazio tra loro, come un foro di luce che taglia in due una stanza colma di tenebra.
«Mio principe» lo agguantò al cuore la voce di Nor. Il cavaliere sbucò tra gli alberi e tirò le redini, costringendo il cavallo a un leggero trotto, fino ad arrestarsi del tutto. «Vitahj vi attende a braccia aperte, mio signore.»
«Dannato moccioso» sbottò Jhann, e si asciugò il sudore dal mento.
Nor smontò da cavallo e afferrò il braccio che Agur gli stava porgendo. «Sono felice di rivederti. Il tuo arrivo è inaspettato quanto benedetto. Sono quello che penso?»
Nor annuì con l’ammirazione nello sguardo. «Vorouk.»
Qualcuno tra la gente urlò di terrore, molti bambini si nascosero tra i carri e le zampe degli asini. Un enorme uccello volteggiò ancora sopra di loro, infine sfondò i rami più alti e sottili e atterrò a poche braccia da loro. Il rostro arancione era ricurvo come quello di un rapace, ma il piumaggio non aveva eguali: formato da piume lunghe e appuntite come lame, era completamente grigio, di una consistenza nebbiosa che lo rendeva impossibile da distinguere nel cielo; durante i voli con le grandi ali, il suo corpo cangiava, assumendo il colore di ciò che gli stava attorno. Il Vorouk ruotò il muso verso il principe e puntò su di lui l’occhio sinistro. Agur restò impietrito: la pupilla tonda era azzurra, attorniata da una sclera smeraldina. L’umanità che vide in quell’occhio lo turbò fin dentro l’anima.
«Ehi, moccioso, dimmi che hai del malto con te» arrancò verso di loro l’omone. «Ho perso peso dopo questa imboscata che c’hai teso.»
«Spiacente.»
Jhann mugugnò.
«Hai notizie di Der?» chiese Agur, in apprensione.
Nor notò la confusione nello sguardo del suo vecchio amico e si permise di stringergli affettuosamente una spalla per alcuni istanti. Poi tornò ad assumere una posizione rispettosa. «No, mio signore. Ma mio fratello ama farsi attendere. Crede che l’accoglienza, poi, sia più calorosa; inoltre pensa che il tenersi alla larga lo faccia apparire poi più bello agli occhi di chi sogna rivederlo.»
Agur si concesse un sorriso. «Quanto dista ancora Vitahj?»
Nor sbuffò come un cavallo. «Saranno quindici leghe verso nord-est.»
«Con questo passo sono più di tre giorni di cammino» si lamentò Jhann.
Agur guardò la popolazione, la quale lanciava sguardi disperati verso di lui e attendeva speranzosa, forse anche solo per liberarsi della presenza nefasta del Vorouk. «Dobbiamo farlo» mormorò sconsolato. In parte cominciava a comprendere il peso che gravava perennemente sul petto del padre, quella strana gabbia che lo rendeva irraggiungibile per lui. Drizzò le spalle e ordinò: «Fate salire i bambini in groppa agli asini. Riprendiamo il cammino.»
«E le donne, Agur?» si permise Nor. «Non possono reggere una marcia sostenuta.»
«Dovranno farlo» indurì lo sguardo, tanto che l’amico prese le distanze e abbassò il capo, remissivo.
«Fate montare i bambini a dorso di mulo. Riprendiamo il cammino!» Jhann ripeté l’ordine a gran voce.
Agur annuì, mentre il suo popolo raccattava le poche cose sparse e si preparava alla marcia: li avrebbe portati al sicuro, tutti.
 
 
Le stelle erano magnifiche. Spesso, durante i suoi inseguimenti sui monti, Agur aveva passato la notte all’addiaccio, con le braccia incrociate sotto la testa e il naso all’insù, a immaginare quale tipo di Dio potesse aver creato una luce così piccola e meravigliosa. Guardandole, la solitudine della caccia si perdeva in un sentiero familiare, un sapore ancestrale che lo cullava verso il ristoro, un augurio che qualcuno a lui ignoto, che conosceva però il suo destino, gli mandava da lassù. Adesso, con la schiena contro il tronco di un acero e il viso piegato all’indietro, quelle stesse stelle sembravano più distanti e taciturne: chiunque le stesse facendo brillare per lui non aveva molto da dire. Eppure indicavano ancora la via da seguire, puntando verso Vitahj e, ancora oltre, verso Serinut. La loro nuova casa. Ma come renderla sicura? Cosa avrebbe impedito alle belve di inseguirli fino alla grande isola? E una volta lì, quale via di fuga restava ai venastiti? Agur stava già crollando sotto il peso della responsabilità, ed era questo che lo irritava di più. Odiava l’inettitudine in cui era precipitata la sua gente, il bisogno di affidarsi a un gruppo di pochi eletti che avevano esteso la parola del loro Dio. Quale Dio? Lui non aveva mai sentito la sua voce.
«Non riesci a dormire?» Jhann sbucò da dietro il tronco dell’acero rosso e si appoggiò con una spalla contro di esso, le braccia incrociate al petto e le mani sotto le ascelle per tenerle al caldo.
«Qualcuno deve montare la guardia» rispose in un borbottio sommesso.
«Per quello hai dei sudditi. Istituisci dei turni di guardia.»
Agur chiuse gli occhi e resistette alla tentazione di massaggiarsi le tempie. «Devono riposare…»
«Anche tu. Un re stanco non è utile a un popolo demoralizzato. Se tu vacilli, loro saranno perduti, senza più alcuna guida a cui aggrapparsi.» Si acquattò al suo fianco, reggendosi in equilibrio sulle punte dei piedi. «Non devi cercare la loro pietà o benevolenza, ma la loro fedeltà e la loro ubbidienza. Il resto verrà da sé.»
«Non sono re» si lasciò sfuggire dalle labbra.
La risposta di Jhann fu sorprendentemente dura. «Allora sei uno stolto. E scemo io che ti ho seguito. Di un principe non sanno che farsene, Agur.» Chiamarlo per nome fu la dimostrazione di quanto sfiduciato fosse anch’egli e di quanto poca stima gli rimanesse nei suoi confronti.
L’omone lo aveva seguito perché gli era stata promessa la fede in una forza superiore, in un sovrano potente, e adesso si ritrovava con un bambino a cui badare e fare da istruttore. Strano a dirsi, ad Agur mancò il vecchio Cammur.
L’indomani Mal si svegliò sofferente, abbandonando l’orizzonte avvolto in una luce malata e priva di forza. Per controparte, Agur sembrava aver assorbito l’energia che mancava al tempo.
«Nor, hai già cavalcato una di queste bestie?»
L’amico deglutì prima di accennare con la testa verso il Vorouk, immobile al limite del campo. «No…» La nota era tentennante, timorosa.
«Beh, sarà la prima volta allora. Voglio che porti i bambini con te, al sicuro, a Vitahj.»
La sua voce raggiunse anche la popolazione. Le madri strillarono e alcuni degli uomini si pararono davanti ai propri figli e anche a quelli senza genitori. «Non ci separeremo dai nostri bambini. Mai li lasceremo soli, a vagare per le strade della Città Fantasma.»
Agur si voltò verso chi aveva parlato con sguardo duro e distante, l’espressione austera che pareva aver limato e accentuato i suoi tratti regali. «I bambini ci precederanno al sicuro, all’interno delle mura della città. Noi andremo più spediti senza di loro. Intendo raggiungere Vitahj al tramonto del secondo giorno.» Senza degnare di un altro sguardo il popolano, si voltò di nuovo verso il vecchio compagno. «Allora, puoi ubbidire al mio ordine?» Tono duro e richiesta esitante: Agur seppe di non essere ancora un esempio regale, ma ce l’avrebbe messa tutta.
Comunque Nor non ebbe scelta che chinare il capo. Con un gesto esitante, richiamò l’attenzione della creatura. Il Vorouk sembrò destarsi, il suo corpo scricchiolare come se stesse liberandosi dell’immobilità della pietra. I suoi occhi si rianimarono ed esso li puntò sul cavaliere. Nor si fece forza e balbettò alcune parole. L’animale non sembrò averle ascoltate, ma le intenzioni furono chiare perché i suoi artigli si mossero verso il centro del cerchio formato dai popolani. Nor vi gettò addosso un drappo ricamato con delle strane rune e annuì una volta, facendo capire di essere pronto. A un cenno severo di Agur, trovò un ceppo e lo usò per issarsi sulla groppa dell’animale.
«Bene, fate salire i bambini. Jhann» chiamò quando vide che nessuno si muoveva.
Il guerriero disincrociò le braccia e afferrò con gentilezza uno dei più piccoli. Con passo sicuro si avvicinò all’animale e ve lo posò in groppa. Il bambino strillò e si aggrappò al drappo runico, lentamente si sincerò che nulla di male gli stava per accadere e si calmò. Vedendo questo, gli altri piccoli si avvicinarono incerti alle grandi ali del Vorouk e si misero in fila per salirvi su.
Quando furono pronti, Agur pronunciò: «Andate, ora!»
Il Vorouk si staccò dal suolo, gli artigli che lanciarono in aria zolle di terra come una pioggia marrone, e prese facilmente quota. I suoi muscoli non si gonfiavano o contraevano, ma pareva che la pietra mutasse forma per acquisire le sembianze del movimento di un volo. Presto i bambini e il cavaliere sparirono alla vista, in un puntino sempre più invisibile nella vastità del cielo.
Agur non restò con il volto all’insù e ordinò subito: «In marcia.»
A muso duro, salì in groppa al suo cavallo e permise a due donne di cavalcare quello lasciato da Nor. Jhann cedette il suo a un vecchio con la gotta. Con la schiena dritta, il sovrano del popolo in fuga fece strada nel sottobosco, sfiduciato nei confronti della vita e dei suoi creatori, ma deciso a mostrare solo la volontà con cui avrebbe retto quell’onere. Dentro era perseguitato da mille dubbi e colpe, fuori era finalmente pronto ad apparire come il re che doveva imparare a essere.
 
 
Vitahj era un fantasma, e non solo per mera nomea. Un brivido di inquietudine aveva attraversato le membra di Agur, mentre le dita si stringevano più forti alle briglie per non cedere al desiderio di fermarsi e tornare indietro. Probabilmente se non avesse avuto nel petto il peso dei bambini che aveva affidato alla protezione di quella città, sarebbe stato propenso a invertire la marcia e raggiungere immediatamente Serinut. Ma Cammur gli aveva concesso un unico indizio e un’unica speranza, e lui era deciso a tentare finché poteva.
Mentre il passo costante del suo cavallo lo faceva saltellare, i contorni della città traballavano come un miraggio o un’immagine nell’acqua. Vitahj sorgeva su una piccola protuberanza di terra, stretta da due anse del fiume Hiv, il quale come un serpente strisciava tra le valli e i boschi, facendosi spazio tra rigogliose foreste di caccia e monti rocciosi. La città era fatta di luci, i contorni delle abitazioni bianche parevano, così, spettri velati dai riverberi che si riflettevano sull’acqua cheta. Le case erano costruite su più livelli, una addossata a quella adiacente, con muri confinanti, abbarbicate sui costoni di roccia di una piccola montagnola di cui si scorgeva solo il fosforescente dell’erba e il sanguinolento delle foglie dei suoi enormi alberi. Un piccolo affluente risaliva i versanti della città e si spezzava in piccoli canali e canaletti, fino a circondare, all’apice della vecchia montagnola, il palazzo dei suoi capi.
«È bellissima» soffiò a labbra dischiuse Agur, e capì che era proprio quella bellezza sfuggente a intimorire i caharrin. Qualcosa di così leggiadro ed effimero era pericoloso, la sua seduzione un inganno che poteva far compiere pazzie al più savio degli uomini. Se fosse stata una donna, avrebbe potuto scatenare una guerra fra temerari guerrieri, che pur servivano la morte solo per amor di patria e fedeltà alla corona.
La piccola fiumana di fuggitivi seguì il cavallo del principe fuori dalla boscaglia e giù per il declivio che conduceva alle sponde dell’Hiv. Ne seguirono il corso fino a incontrare le prime fiammelle, fiaccole conficcate lungo la riva del fiume che segnavano la strada da seguire per entrare in città. Queste, poste a una distanza di sette braccia l’una dall’altra, si sdoppiavano sul pelo dell’acqua e sfavillavano come fuochi fatui. A sovrastarne la lucentezza stava Vitahj con i suoi archi e i suoi canali che ne moltiplicavano i bagliori, tanto che alla fine tutto apparve ai profughi come un sogno insperato e ingannevole. Entrarono in città passando sotto la grande porta: un arco a sesto acuto incastrato in una muratura nivea e porosa, che si reggeva su due pilastri, intorno ai quali si attorcigliavano le lunghe code di due enormi Vorouk. La struttura era tre volte la stazza del gigante Groug, che la leggenda voleva essere venti uomini più un nano. Al di là, la strada acciottolata veniva presto interrotta da un canale d’acqua, sulle rive del quale un uomo dalla veste blu li stava attendendo. Non c’erano altre persone che si avvistavano nelle vicinanze, e la città era muta, inquietante.
«Figlio di Cahar, lungo è stato il tuo viaggio.» La voce dell’uomo era profonda, gorgogliava come l’acqua in ebollizione. «E temo che non sia ancora concluso.»
Agur si sentì messo in soggezione da quell’alta figura avvolta in una larga veste svolazzante, impallidita dalle tante luci e sormontata da quella spettrale di Sel. Le sue parole erano sincere, pronunciate con tono compassionevole, e sembravano cariche del peso di chi sapeva molto più di ciò che gli era concesso dire apertamente.
«Salute a te» riuscì infine a dire. «Siete l’Alto Cavaliere?»
L’uomo avanzò liberandosi dell’accecante bagliore sul viso e mostrò un sorriso benevolo. «No, sono un Portatore.» Aveva un viso sottile con una mascella marcata, gli zigomi alti e sporgenti e gli occhi a mandorla. Ciò che colpì il principe, però, era il colore di questi ultimi: erano bianchi come il velo che indossava Anojah quando cavalcava sulle nivee fiere di montagna. «Mi chiamo Rineg.»
Agur smontò da cavallo e gli si fece vicino. Afferrò la mano che l’altro gli porse e inspirò. «La mia gente necessita di un posto dopo riposare. Il viaggio è stato lungo e spossante. E i bambini…» si guardò attorno aspettandosi che sbucassero da qualche scala nascosta o da una delle case che si affacciavano sulla strada, «dove sono?»
Rineg ridacchiò davanti al suo tono sospettoso. «Dormono, come chiunque della loro età a quest’ora.»
Agur non si sentì più tranquillo, ma non ebbe modo di obiettare.
«Mio signore.» Nor sbucò alle sue spalle e gli corse incontro. «Mio signore, siete arrivato.» L’amico si trattenne a stento dall’abbracciarlo in modo fraterno.
«Nor, i bambini…»
«Stanno bene» lo tranquillizzò con un sorriso sincero. «L’Alto Cavaliere li ospita nelle stanze del palazzo. Siete atteso lì anche voi con i vostri sudditi, mio signore.»
Agur non sembrò trovare divertente quell’appellativo. Poche settimane prima avrebbe riso e ridicolizzato l’altro se avesse provato a rivolgersi a lui con quel tono rispettoso, adesso però era solo la piastra con cui avrebbe costruito la sua corona. Il rispetto e la devozione dei suoi amici gli erano indispensabili per ottenere quella parvenza di fiducia e obbedienza dai profughi che lo seguivano con sempre più timore e smarrimento.
«Fai strada» si rivolse a Nor.
Rineg fece un passo, attirando la sua attenzione. «Da questa parte, allora» s’intromise con pacatezza, senza avere l’aria di essersela presa per essere stato ignorato con diffidenza.
I profughi, con Agur in testa e Jhann e Nor al suo fianco, risalirono i diversi livelli della città, specchiandosi nell’acqua dei tanti canali e attraversando ponti di pietra bianca che delimitavano il passaggio tra un cerchia e l’altra, si tirarono su per lunghe e ripide gradinate e strette scale rocciose, e infine si fermarono a bocca aperta davanti alla cerchia di alberi rossi che circondavano il palazzo dei capi della città. L’Alto Cavaliere li attendeva sotto le basse fronde di uno di essi. Agur osservò con attenzione quei singolari alberi, che si sdoppiavano e capovolgevano sulle acque del fiumiciattolo, in cui le loro sottili radici erano immerse: i tronchi erano di un grigio fumoso, tanto che le chiome sembravano galleggiare come ispidi nuvole, i rami si allargavano per diversi metri ed erano colmi di foglie sanguigne e triangolari; i primi frutti, bianchi oblunghi e dal sapore aspro, si intravvedevano appesi a quelli più alti, nascosti come perle dal colore vivido del fogliame.
L’Alto Cavaliere vestiva di una livrea viola, aveva capelli ricci e ferrigni e una barba ordinata che inscuriva il viso albino. Anche i suoi occhi erano lattei e parevano fissare qualcosa che andava al di là della semplice sostanza dei corpi. Le sottili ciglia nere erano sempre aggrottate e non si distesero neanche quando, con voce dolce, salutò gli esuli di Cahar. «Benvenuti. Sarete stanchi e provati. Vi prego di seguire i sentieri rossi fino al castello. Le Silenti vi condurranno alle vostre stanze, dove troverete un fuoco e un pasto caldo. Se vuoi seguirmi, principe Agur, c’è una stanza che ti aspetta. Possiamo parlare domani» concluse con una nota interrogativa.
Agur distese il viso e tenne ben aperti gli occhi. «Il riposo per il mio popolo è gradito, e vi ringrazio. Ma sono altri i miei bisogni adesso. Voglio accedere alla vostra biblioteca e parlare con il suo custode.»
Un lampo soddisfatto passò negli occhi bianchi dell’altro, e Agur capì che la sua ultima frase era un modo per metterlo alla prova. Quella gente lo inquietava. «Troppo sapere per un uomo solo» ribatté intanto l’Alto Cavaliere scusandosi. Districò le mani che teneva strette davanti al grembo e fece un cenno verso uno degli alberi. Dall’ombra del tronco si staccò un’altra figura in veste blu. «Hyria ti condurrà ai templi. Lì, se sarai degno, potrai trovare ciò che cerchi.»
Senza dargli modo di obiettare, l’Alto Cavaliere si congedò con un inchino del capo e si avviò per strade invisibili, segnate solo dai fruscii del vento tra le foglie.
   
 
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