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Autore: BabaYagaIsBack    17/11/2017    1 recensioni
Re Salomone: colto, magnanimo, bello, curioso, umano.
Alchimista.
In una fredda notte, in quella che ora chiameremmo Gerusalemme, stringe tra le braccia il corpo di Levi, come se fosse il tesoro più grande che potesse mai avere. Lo stringe e giura che non lascerà alla morte, il privilegio di portarsi via l'unico e vero amico che ha. Chiama a raccolta il coraggio e tutto ciò che ha imparato sulle leggi che governano quel mondo sporcato dal sangue ed una sorta di magia e, per la prima volta, riporta in vita un uomo. Il primo di sette. Il primo tra le chimere.
Muovendosi lungo la linea del tempo, Salomone diventa padrone di quell'arte, abbandona un corpo per infilarsi in un altro e restare vivo, in eterno. E continuare a proteggere le sue fedeli creature; finchè un giorno, una delle sue morti, sembra essere l'ultima. Le chimere restano sole in un mondo di ombre che dà loro la caccia e tutto quello che possono fare, è fingersi umani, ancora. Ma se Salomone non fosse realmente morto?
Genere: Avventura, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Capitolo Sedicesimo
Ci sei sempre stato
parte prima

 

 "And all the people say
You can't wake up, this is not a dream
You're part of a machine, you are not a human being"

- Gasoline, Halsey

 

In casa propria, al riparo da qualsiasi occhio indiscreto, Noah si mise a frugare tra gli scatoloni in cui aveva stipato le poche cose che si era portato via quando era partito per Vienna - alcune le aveva infilate lì dentro per paura che andassero perse, altre per una sorta d'imbarazzo: segreti, ricordi intimi e altro che avrebbe preferito nessuno vedesse, non ancora, quantomeno. Così, ammassati ordinatamente gli uni sugli altri, in una logica ben precisa, c'erano magliette a cui si era particolarmente legato, fotografie di dubbia serietà, raffiguranti lui, Hans e altri conoscenti, disegni dalle forme strane e diari che considerava tesori inestimabili, pagine su cui aveva scritto le stramberie più insolite e, soprattutto, i primi accenni delle allucinazioni.
Rovesciando senza premura il contenuto sul tappetto, Noah iniziò ad aprire alla rinfusa i taccuini alla disperata ricerca di qualcosa, delle pagine che gli erano tornate alla mente per colpa di quel Levi, delle sue parole: "ki bishevilekha ani amutt pi meah". Il significato di quella frase gli era estraneo, non poteva negarlo, eppure in qualche modo gli sembrò di averla già udita. Più la ripeteva, più gli sembrava avere il suono di un ricordo lontano, familiare; una sorta di ninna nanna cantatagli da pargoletto e rimasta impressa nella testa dell'adulto che era diventato - ed era sicuro fosse legata a una parte di sé che aveva cercato di lasciare nel passato, esattamente come i deliri che invece erano tornati a fargli visita.

Raccolse tutti i diari, se li portò vicini, poi con una certa frenesia prese a girare una a una le pagine ingiallite. Non seppe nemmeno dirsi in quale ordine li stesse leggendo, sapeva solo che ogni volta che non si imbatteva in ciò che stava cercando finiva con il digrignare i denti, infastidito. Aveva fretta nonostante nessuno gliene stesse mettendo, ma la sua fame di conoscenza diventava ogni minuto più grande, gli torceva le budella arrivando quasi a nausearlo. Doveva capire. Doveva dare un senso a quelle parole, ai sogni, alle sensazioni provate e a Levi stesso, così estraneo eppure conosciuto. 
Incurante buttò a lato il primo diario, lasciandolo ruzzolare sul pavimento, poi afferrò il successivo. I suoi occhi si mossero spasmodicamente da un foglio all'altro, soffermandosi giusto ogni tanto per essere certi di non perdersi nulla, ma subito riprendevano la corsa, quasi impauriti dalla possibilità di finire il tempo a disposizione - peccato avesse tutta la notte davanti a sé.
Noah avanzò tra le righe scritte anni prima negandosi il piacere di assaporare quelle parole, i pensieri che aveva avuto o le avventure che aveva vissuto fin quando, finalmente, scorse ai lati di alcune pagine la forma malferma di un triangolo capovolto, al cui centro si univa un altro simbolo che, infine, si andava completando con l'immagine di un serpente intento a mordersi la coda: l'uroboro, così gli sembrava si chiamasse - e per quel che ne sapeva, si trattava di un simbolo antico, di un disegno spesso associato a culture passate od occulte di cui, da bambino, dubitava avesse potuto conoscerne il senso; eppure lo aveva replicato. Perché?

In punta di dita, quasi preoccupato dall'idea di potersi ferire, ne percorse le linee nella speranza di capire. Dove lo aveva visto? Chi gliene aveva parlato? Ma la cosa che in quell'istante più lo interessò fu un'altra.
La prima volta che i suoi occhi avevano incontrato quelli di Levi infatti, nella mente si era palesata quell'immagine, era apparsa come un flash, una visione incomprensibile - ed ora, fissandola, gli parve di averla già vista prima di quell'incontro, in uno spazio temporale che si frapponeva tra il momento in cui aveva redatto i diari, la sua adolescenza e quel pomeriggio; più precisamente nelle sue allucinazioni. Se si sforzava di ricordare, riusciva a scorgerlo sul corpo morto che aveva stretto a sé in ognuna di esse, al posto della ferita suturata malamente. Gli sembrò quasi che fosse sempre stata lì, ma mai gli avesse prestato la giusta attenzione.

Immobile rimase a studiare ogni curva e ogni linea, ma nonostante ciò non riuscì a capire.
Perché aveva disegnato quel simbolo? Cosa rappresentava? E, soprattutto, per quale motivo lo associava a quel tipo?

Seppur scettico, Noah riprese a volgere le pagine, stavolta con più premura. Su ognuna di esse scoprì lo stesso disegno, tracciato ogni volta con matite o penne diverse. In alcuni casi, accanto, vi erano altri segni, lettere, avrebbe osato dire, ma non era certo fosse stato lui a scriverle.
Ancora una volta arrivò alla fine.

«Merda!» bofonchiò. 
Non poteva davvero essere tutto lì! In qualche modo doveva esserci di più, molto di più - così tornò alla prima pagina, cercando di capire a quale anno appartenesse quel reperto. La scorse in un angolo, piccola e malferma. 
Preso da un nuovo impeto quindi, iniziò a sfogliarne gli altri diari: quello successivo per primo, poi i precedenti. Passò tra frasi sottolineate, adesivi, resti di fiori e foglie, abbozzi vaghi e... d'improvviso si fermò. 
In mezzo a quel marasma di ricordi e pagine incomplete, Noah ne trovò alcune scritte fitte fitte in una calligrafia che presto riconobbe propria, seppur ben lontana dal poter appartenere a un bambino di sette anni. Non si era mai accorto di come, alle volte anche da piccino, la sua mano avesse scritto in quel corsivo armonioso, elegante - e per un attimo si domandò se non fosse stata aggiunta in seguito, magari in preda a un delirio.
Con cautela prese a leggere, muovendo le labbra senza però emettere suono. Seguì il flusso di parole a tratti sconnesse, tipiche dei mocciosi, avanzando lungo un testo che sarebbe potuto apparire come un racconto, ma poi, d'un tratto, trovò qualcosa che gli fece tremare le mani. Quasi rischiò di perdere il segno, ma provò a resistere, a controllarsi. Il cuore iniziò a battere forte, a fargli male, eppure i suoi occhi non si scollarono dal punto in cui si trovavano.

Nakhaš.

"Nakhaš significa serpente. Mamma non ci crede. Io però so che si dice così perché è il mio animale preferito. Lei mi sgrida quando li chiamo così. Dice che non me le devo inventare le parole, che solo i bimbi stupidini lo fanno. Ed io non sono stupidino. Forse lo è lei. Alle volte mamma non sa le cose e se io le so si arrabbia. Forse è per questo che non ci crede.
Quello è un Nakhaš, comunque.
Ed è bello, ma non come il mio. Lei non lo ricorda, ma io ne avevo tanti, ci giocavo tutti i giorni. Li tenevo nella cesta, in quell'altra stanza, quella strana. Ogni tanto me li mettevo sulle spalle come sciarpe e loro se ne stavano lì, buoni buoni. Mi davano i bacini. 
Mamma dice che non ho mai avuto un'altra stanza, che la mia cameretta è sempre stata questa, ed io penso, ma le mamme possono dire le bugie? Perché per me questa lo è. Io ho avuto un'altra stanza, molto più grande, e ho anche avuto dei Nakhaš. Erano colorati. Mi facevano la linguaccia.
Le ho chiesto di prendermene uno oggi. Al negozio del signor Peter, quello vicino alla scuola. Siamo entrati per prendere la pappa a Riz e io sono andato dove ci sono le scatole dei serpenti. Erano tutti molto belli, anche se nessuno assomigliava al mio. Lo volevo tanto perché lui mi manca, però mamma ha detto no, che gli animali schifosi non li vuole, che è cattivo. 
Non è vero. Io lo so. Le cose cattive non danno i bacini.
Lei non lo sa perché non li vuole, lo dice perché è una fifona.

Se vedeva il mio però cambiava idea. Lui è così bello che tutti se ne innamorano, soprattutto le signorine. Ha gli occhi verdi ed è tutto nero. Ha anche un segno sulla faccia. Gliel'ho fatto io, ma lui non mi odia. Gli piace. Il mio Nakhaš è sempre allegro e mi parla di ogni cosa. La sua lingua con le due punte non sta mai ferma. Lui è un soldato, quindi è forte e super pericoloso. Gli piace arrotolarsi intorno al mio braccio, sta sempre lì. Si chiama Levi e..."

Levi Nakhaš.

Il fiato di Noah si mozzò.
Ora ricordava.

Il serpente nero, Levi, era stato l'amico immaginario che più aveva amato, il primo a essere apparso e l'ultimo a essersene andato dalla sua mente, nonché la ragione per cui i suoi genitori lo avevano portato dallo psicologo - eppure in quelle righe l'immagine dell'animale si era più volte sovrapposta alla descrizione del ragazzo che aveva incontrato: occhi verdi, cicatrice sul viso, l'essere un soldato o, come meglio aveva detto lui, un Generale. Come era possibile? E perché da un rettile la sua fantasia si era trasformata in persona? Forse...
La testa iniziò a fargli male, le tempie presero a pulsare come se i pensieri stessero battendo i pugni contro il cranio. Non ci capiva nulla, niente di niente, per non parlare dell'impressione di star ancora dimenticando qualcosa - ma cosa?!

Soggiogato dalla pressione dei pensieri, Noah si raggomitolò su se stesso fino ad appoggiare la fronte sul tappeto. La premette piano nella speranza di portare un po' di pace, di schiacciare tutto ciò che si trovava dentro la sua testa in quel momento, ma fu inutile. Ricordò ogni singola volta in cui, da bambino, aveva sognato quella creatura, le ore trascorse nello studio asfissiante del dottore e le notti passate a esorcizzare il pensiero del Nakhaš fino a dimenticarlo, a renderlo una semplice fantasia infantile - ed ebbe la certezza di dover mettere un punto a tutta quella storia.
 


 

ki bishevilekha ani amutt pi meah:  "perchè per te io morirei cento volte"

uroboro : con questo termine viene indicata l'immagine del serpente (coccodrillo/drago) che si morde la coda, formando un cerchio. Nell'alchimia l'Ouroboros  è un simbolo palingenetico (dal greco "che nasce di nuovo") che rappresenta il processo alchemico, il ciclico susseguirsi di distillazioni e condensazioni necessarie a purificare e portare a perfezione la "Materia Prima". 

Nota dell'autrice: In alto ho messo la raffigurazione del sigillo di Salomone (ovviamente è frutto della mia fantasia - anche se ogni simbolo ha un significato ben preciso), ma dovete tenere presente che l'uroboro, sui corpi delle Chimere, è un semplice cerchio.

 
 
   
 
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