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Autore: Nadja_Villain    17/11/2017    0 recensioni
Prima che il mondo intero iniziasse ad appassire, Trish era solo un'adolescente turbolenta, cresciuta nei bassifondi della stessa città dei Dixon, tra piccola criminalità e svaghi al limite del legale.
Nel presente ha perso anche sé stessa. Quando Negan l'ha trovata era ridotta ad uno straccio, sia a livello fisico che mentale.
Era convinta che sarebbe riuscita a smettere di soffrire se avesse chiuso le porte alle emozioni. Era convinta che fosse rimasta sola, che tutti coloro che conosceva fossero morti, ma non è così...
Riuscirà il ritrovo con Daryl ad aiutarla a ritrovare qualcosa per cui lottare?
Genere: Azione, Drammatico, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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Qualcosa per cui lottare | The Walking Dead

5.2 # Apri gli occhi
 

Tornai a casa che mi dolevano i piedi. Avevo dovuto farmi tutta la ventiquattresima più vicoli secondari camminando, perché l'automobile ce l'aveva mia madre. Per fortuna il giorno dopo era il mio giorno libero, ma qualcosa mi disse che non mi sarei affatto riposata. Arrivai alla porta di casa, dopo nove rampe di scale, perché l'ascensore aveva deciso di incepparsi per la quarta volta in un mese e dopo averla scampata ad una coppia di amanti già completamente ciucchi che, catturati dalla passione, erano rotolati giù dalle scale e per poco non avevano travolto anche me. Appesi le chiavi e gettai le scarpe in un angolo.

-Ciao, ma'.

La baciai in fronte. Se ne stava tutta china sul tavolo, occhiali da vista al naso, quella sua matassa riccia e scompigliata, che aveva saltato una generazione, tirata indietro con un mollettone e una grossa tazza di caffè che doveva essersi raffreddato nell'attesa vana di essere bevuto.

-Mi faccio una doccia. - dissi, abbandonando i vestiti sul divano. Rimasi in mutande e canottiera.

-Mh-mh.

-Che c'è per cena? Ho una fame da lupi. - Chiesi, aprendo lo stipo per prendere una tazza.

-Ci sono legumi in scatola e un po' di resti di ieri. Vedi tu. Bisogna andare in farmacia.

-Vado io domani. Sono libera.

-Mi serve la macchina.

-Ti porto a lavoro e ti vengo a prendere.

Quello fu l'unico momento in cui alzò gli occhi dalle carte per lanciarmi uno sguardo incerto tra un "no" categorico e un rimprovero sui miei costanti ritardi di mezzo minuto, che lei viveva con l'ansia di mezzore intere. Le feci un sorriso buffo da dietro la tazza. Non sapeva dirmi di no.

-Basta che non mi fai aspettare come l'altro giorno.

-Promesso.

-La ricetta è appesa al frigo. - Disse accendendosi una sigaretta. Scosse il pacchetto. - Anche queste.

-Ti bastano per domani mattina?

-Sì.

Mi sedetti davanti a lei, attirata dall'aura concentrata che si incastonava tra le pieghe della fronte contratta.

-Dobbiamo chiedere un favore alla zia. - Annunciò, lo sguardo impassibile intrappolato tra quei righi fitti di lettere. Doveva averci ragionato su per tutto il giorno. Lo capii dal tono imperativo che usò per dirmelo. Ormai era deciso. Mi andò storto il caffè.

-Non credo sia il caso di disturbare la zia per i nostri problemi.

-È passato un anno.

-Otto mesi.

-È uguale. Non può certo conservarla come scusa per tutta la vita. Ogni famiglia ha un dramma da superare.

All'improvviso il caffè divenne di un'amarezza insolita. Come poteva essere così insensibile?

-Non voglio chiedere soldi alla zia. - Mi impuntai.

-Trish, a volte dobbiamo renderci conto di quando dobbiamo chiedere aiuto.

-Non la sentiamo dal funerale. In questi mesi non sei mai andata a salutarla. Non l'hai mai chiamata. Non le hai mai nemmeno mandato un messaggio per il suo compleanno.

-Pensi che avrebbe sofferto di meno con un messaggino di auguri?

-No, ma magari poteva confortarla sapere che la pensiamo...

Stirò un sorriso cinico, senza alzare il capo.

-Perché, a noi ha mai pensato nessuno? Qualcuno ci ha mai fatto sapere che ci pensa?

Non seppi come ribattere. Effettivamente non aveva tutti i torti. Nessuno della famiglia ci aveva mai dato il proprio appoggio. Non che noi avessimo mai fatto elemosina, ma forse qualcuno sarebbe riuscito a convincere mia mamma a sbattere quel bastardo di mio padre fuori casa prima che ci scappasse il morto. Grattai via una vecchia macchia sul bordo della tazza con un'unghia.

-Quando zio era in ospedale, l'hai telefonata una volta sola perché la macchina era dal meccanico e avevi bisogno di un passaggio.

Si prese del tempo per rispondermi.

-Vedrai che capirà. In famiglia ci si deve sostenere a vicenda.

-Mamma...

-Oh, ma insomma, smettila di essere così insolente! Ho detto che ci vai e ci andrai! Vedi di crescere una buona volta, che il mondo non sta dietro alle tue lagne infantili! - Abbaiò, agitando gli occhiali in aria con un gesto violento. Li lanciò sul tavolo. Si passò le mani nei capelli, sul viso, se le portò alla bocca. - Perdonami, tesoro, mamma è stanca.

Mamma è stanca, certo. Io invece no, non ero stanca per niente. Non ero stanca dei suoi sbalzi d'umore, delle sue sclerate e di tutta la situazione circostante. Mi alzai senza rispondere. Versai il caffè nel lavello e mi buttai in doccia. Riapparsi in cucina per riscaldare nel microonde un piatto di pasta, circa un'ora dopo. Ne trangugiai la metà tutta di fretta - il resto finì nella spazzatura - mentre lei si era giusto spostata sul divano, davanti ad uno stupido programma comico, con una coperta sulle gambe. Non ci parlammo per tutto il resto della serata, nemmeno alle tre di notte, quando i miei occhi non ne potevano più dello schermo del pc, mi accorsi che la televisione era ancora accesa. La spensi. Avvolsi le spalle di mia madre, che sbavava sul cuscino, nella coperta e mi godetti l'ultima sigaretta della giornata in santa pace, in mutande, davanti alla finestra, al di sopra dei vicoli bui e deserti da cui proveniva l'eco dell'antifurto di una macchina, per poi tornare a fingere di dormire.

Il giorno dopo abbandonai mia madre alle porte del minimarket in cui lavorava, non prima di aver sopportato l'ennesima raccomandazione. Schiacciai l'acceleratore per vederla rimpicciolire nello specchietto. Finalmente ero libera. Musica della radio a palla, una mano sul volante, l'altra a reggere la sigaretta, gomito sul finestrino aperto, l'aria autunnale che mi arrivava in faccia calda, ma che mi recava un immenso sollievo contro l'abbagliante accetta dei raggi solari sulla mia pelle da morta.
Entrai in farmacia con ancora la musica in testa. Mi resi conto di stare canticchiando e mi ricordai che non ero degna di godermi un momento di spensieratezza, poichè mi attanagliò un subdolo senso di colpa nel reparto dei prodotti di bellezza naturali che stavo sbirciando mentre ero in coda. Uscii imbronciata, col sacchetto dei medicinali che lanciai incurantemente sul sedile passeggero. Come accesi il motore ripartì la radio su una canzone diversa, ma altrettanto gioviale. La spensi con un gesto scocciato e cercai di concentrarmi sul respiro prima che mi venisse un attacco di panico.
A mia madre non avevo mai detto delle crisi che mi prendevano quando il mio cervello andava in sovraccarico. Anzi, ufficialmente era stato solo il periodo - di cui aveva personalmente definito la data di inizio e di fine - della mia depressione da lutto. Non sapeva che mi venivano ancora, ogni tanto. Cosa sarebbe servito dirglielo? Un bel niente. Avrei guadagnato solo qualche frecciatina sulla mia immaturità e il mio bisogno di attenzioni. Nel migliore dei casi mi avrebbe ignorata, sottovalutando il problema. Che poi non c'era nessun problema da prendere sul serio. Me la stavo cavando benissimo.

Arrivata al tabacchino, mi spinsi contro la porta con tutto il corpo. Alla cassa c'era già una signora anziana che contava i centesimi uno ad uno. Mi feci un giro tra gli scaffali delle riviste per comprarne una di quelle che piaceva tanto alla donna attualissima che era mia madre. All'improvviso non mi ricordavo più quale fosse il nome preciso. Ravanai un po' tra le file dei giornali, ne sfilai cinque o sei per confrontarli. Erano più o meno tutti uguali, parlavano tutti delle stesse cazzate, tutti richiedenti lo stesso infimo quoziente intellettivo di coloro che si ingozzano di reality, pettegolezzi e patetiche storie d'amore e non si acculturano di nient'altro. Era incredibile quanti ce ne fossero di editorie diverse. Ne infilai sottobraccio tre a caso, ma nel tentativo di collocare gli altri al loro posto mi scivolarono tutti ad uno ad uno. Mi piegai per raccoglierli, masticando un'imprecazione contro la mia maledetta goffaggine. Sorrisi per rassicurare il tabaccaio, il quale aveva allungato il collo per capire il guaio che avevo combinato. Dopo aver sistemato tutto, presi le riviste che volevo portarmi a casa e trovai un fumetto che era finito sotto il mobile. Rimasi qualche secondo in più con quello in mano, incantata dal disegno della copertina. Dovetti prendermi qualche secondo per scostare l'immagine di Greg disteso sul letto, che non voleva essere disturbato finchè non aveva finito anche quel numero. Una volta mi aveva lanciato un cuscino in faccia talmente forte, per cacciarmi dalla stanza, che mi si era gonfiato l'occhio. A casa ne aveva una libreria intera. Chissà cosa ne aveva fatto la zia.
Sentii di nuovo mancare l'aria. Mi voltai per trovare un buco in cui nasconderlo dalla mia vista, ma era pieno zeppo di altri fumetti e riviste offensive all'intelligenza umana e mi ritrovai a lottare contro la voglia di prendere l'accendino che avevo in tasca e dare fuoco a tutto.

-Ti sei messa a leggere fumetti?

Mi voltai alla voce familiare, quasi spaventata, come se fossi stata colta sul delitto. C'era Kenny davanti a me, con un drastico taglio di capelli che gli scopriva tutta la testa. Mi ci volle qualche istante prima di inquadrarlo senza i suoi amati dreads.

-Oh, emh... No. Veramente lo stavo mettendo a posto. - Dissi, innervosita, gettandolo in un buco a caso. Finsi un sorriso innocente. - Tu hai... hai tagliato i capelli!

-Sì, un po' di tempo fa. - Ribattè, frizionando una mano sul capo spoglio. - Come stai?

-Bene... tu?

-Normale... Non ti ho più vista in giro.

-Non esco molto ultimamente.

-Se ti va... c'è una festa da Dave stasera, non so se lo conosci.

-Sì... Dave, quello del giornalino scolastico.

-Esatto. Abita verso la zona industriale. Ha un'enorme casa con la piscina. È l'unica della zona, non ti puoi sbagliare.

-Ah, sì ho capito.

-Bè, ecco se vieni, ti distrai un po'. In nome dei vecchi tempi, almeno. Ci sarà un po' di gente e un botto di roba. Cibo, alcol... anche... qualcosa di più... Sarà fico.

-Ci penso.

-Bene. Bene...

Ci guardammo attorno per un po', in imbarazzo perché avevamo finito gli argomenti e nessuno dei due voleva affrontare quello più grosso.

-E Jimmy? Tutto a posto?

-Sì, sì. Lavora nel negozio di videogiochi in fondo alla strada. Non l'hai mai visto?

-Non frequento molto negozi di videogiochi.

-Ah... bè, comunque sì, lui è a posto.

-Vi vedete ancora?

-Oh, sì, certo, sempre! - Poi si rese conto di aver fatto un gaffe. - Cioè, non proprio tutti i giorni... Ma... Ecco... - Posò quello che aveva in mano, mi fece un sorriso che era tutto una falsità dente per dente. - Bè, io vado. Ci vediamo stasera, allora. Ci conto, eh!

Lo vidi scivolare via dalla mia visuale con tutte quelle manovre pacchiane che facevano parte di uno show per distrarmi dalla sua figura di merda. Quei due mi avevano completamente tagliata fuori dalla loro vita. Per un periodo ero persino arrivata a chiamarli "amici". Aveva ragione mia madre. Dovevo aprire gli occhi.
Mi proiettai sul banco e chiesi due stecche di sigarette e una confezione di liquirizie che sarebbe finito nel giro di venti minuti.

Aprii un nuovo pacchetto di Morley nella via in cui abitava mia zia. In macchina, senza scendere, me ne fumai almeno quattro consecutivamente. Ci rimasi per ben mezz'ora, per decidere se scendere o meno, per scegliere se volessi turbare un cuore già in equilibrio precario o accontentare mia madre. Sapevo che anche solo tastare coi piedi il vialetto in pietra che divideva i due lati del giardino, avrei cominciato ad avere le palpitazioni. Non volevo nemmeno pensare al fatto di avvicinarmi a qualsiasi cosa che potesse riportarmi a momenti dolorosamente felici. Per non parlare di quando avrei visto le foto sui mobili o appese ai muri, le sue cose nella sua camera... Stavo già impazzendo, ed avevo ancora il culo sul sedile.

Vidi mia zia sbucare da un cespuglio con una paletta nelle mani inguantate, un annaffiatoio e un sacco che doveva contenere del terriccio

Vidi mia zia sbucare da un cespuglio con una paletta nelle mani inguantate, un annaffiatoio e un sacco che doveva contenere del terriccio. Si asciugò la fronte e poi tornò ad interrare una piantina. Mi stupiva e mi affascinava come quella donna ancora riuscisse a mantenere il suo giardino pulito e ordinato con tanta cura e raffinatezza, quando io non riuscivo nemmeno a tenere pulita e ordinata la mia stanza. Poi capii. Quel parco, quelle piante, quei fiori, erano l'unica cosa che la distraeva dai suoi pensieri, l'unica cosa che la teneva attaccata ad una vita che non esisteva più. Chi ero io per interrompere quell'intimità con la sua anima dilaniata? Con che coraggio avrei profanato quel momento così prezioso per il suo equilibrio, per sporcarlo di futili problemi terreni?

Buttai la sigaretta, feci inversione e tornai a casa.

Quando mia madre mi chiese se c'ero andata le dissi che non l'avevo trovata, al campanello non aveva risposto nessuno e che la vicina mi aveva detto che era partita qualche ora prima, ma non sapeva dove. Mi rimproverò di non esserci andata prima. Almeno non si lamentò del ritardo effettivo di tre minuti, perchè quando li passava chiacchierando e fumando in compagnia della sua amica collega, io potevo aspettare.

-Ho visto Kenny dal tabaccaio. - dissi, come se potesse compensare. Mi appoggiai al piano di lavoro, mentre lei cucinava. La mia attenzione si posò sulla televisione accesa, nonostante non stessi seguendo.

-Kenny?

-L'amico di Greg.

-Ah.

-Mi ha invitato ad una festa, stasera.

-Ci vai?

-Non lo so. Domani devo lavorare. E poi sarà pallosissima.

Aspettai una sorta di opinione che non arrivò. Continuò a tagliare le patate, con la sua sigaretta in bocca che andava assolutamente fatta scenerare. Gliela tolsi delicatamente dalle labbra e diedi un colpo di indice nel posacenere.

-Ci saranno i miei compagni di scuola.

-Oh, bene. - Imboccò la sigaretta. - Passami lo straccio.

-Se vado, farò tardi di sicuro. - La informai, per trovare ancora una scusa per non andarci.

-Portati le chiavi di casa.

Dopo una convincente e sentita esortazione di mamma Dahanam e una cena a base di pollo e patate che continuava a riproporsi, mi ritrovavo seduta sul letto a fissare la figura svogliata e immersa nel disastro, che mi osservava allo specchio. I pantaloni di una tuta vecchia e infeltrita, una maglia che dovevo aver lavato l'ultima volta un mese prima. La matita sfumata che colava agli angoli degli occhi, la pelle del viso ingrigita e stanca per le troppe notti insonni. Succhiai il piercing, come se potesse rivelarmi qualche consiglio su come trovare la voglia di vivere. Lavati, metti qualcosa di carino, ed esci dall'angolo punizione, mi imposi. La parte più pigra di me sospirò gravemente. Avrei dovuto vedere gente, mostrare simpatia, parlare, fare battute sarcastiche alla Trish, magari provare a rimorchiare qualcuno, tutto per far sembrare che ero ancora io, che non era cambiato niente, che nulla poteva sconfiggermi. Almeno c'è l'alcol, gratis, mi consolai. Mi alzai, evitando di chiedermi se volessi farlo davvero. Mi lavai, mi infilai quel paio di jeans strappati con la catena pendente che mettevo solo in determinate occasioni, cercai una maglietta non troppo aggressiva, qualcosa come una t-shirt scollata, semplice. Puntai sul grigio scuro, tradendo il rigoso nero che imperava nel mio armadio. La scritta "Feeling: off", tuttavia, mi salvava. Cercai di fare una linea decente di eyeliner, magari meno stile pugno in un occhio e alla fine dovetti rassegnarmi al solito look da punkettara, sebbene avessi fatto del mio meglio per non essere troppo me, ma nemmeno troppo non-me.

-Va bene. - Mi incoraggiai allo specchio. - Facciamolo. È l'ora di tornare in pista.

Seguii a spanne le indicazioni di Kenny. Seguii più che altro il mio udito, ad un certo punto: l'eco dei bassi si sentiva già a distanza di mezzo kilometro quasi. Seguii la gente che si avviava nel vialetto illuminato da pochi lampioni, qualche ragazza già ubriaca che non si reggeva sui tacchi. Per fortuna avevo optato su un paio di scarpe basse.

Scesi. Avrei preferito un cappuccio che mi coprisse il viso, perché ancora non ero sicura che sarei rimasta. Ero lì solo per vedere com'era la situazione. Dagli schiamazzi e dalla musica a tutto volume, doveva esserci davvero da scatenarsi. Ma io non sapevo se fossi pronta di nuovo per quelle atmosfere movimentate. E prima di aver preso una decisione, vidi il volto di Daryl uscire dall'ombra.

Si era rivolto ad un ragazzo, aveva sfilato qualcosa dalla tasca e quello se l'era preso subito. Colui che non doveva essere esattamente un suo amico stretto, mi passò di fianco tutto chiuso nel suo giubbino, passo svelto, per andare a gettarsi strafatto in qualche buco di discarica abbandonata.

Ormai ero lì. Ma non sarei mai entrata dalla porta principale, c'era troppa gente. Volevo entrare discretamente, scroccare da bere, qualche patatina, ambientarmi e far finire la serata come mio solito. Dovevo darmi una strigliata.
Drizzai la schiena, sistemai i capelli che mi erano caduti tutti davanti al viso, nel disperato tentativo di non farmi riconoscere, tirai su i pantaloni e giù l'orlo della maglietta. Presi un respiro profondo ed entrai in scena.

   
 
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