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Autore: Lumen Noctis    18/11/2017    3 recensioni
«Adesso è la notte tra il sette e l’otto dicembre. Ti trovi a casa di Akira, nell’attico del caffè Leblanc. Hai dormito ininterrottamente per cinque giorni. Se senti dei pizzicori alla gamba destra, è normale, la dottoressa Takemi ha avuto il suo bel daffare a disinfettare la ferita e applicare le garze. Ha detto che sei stato molto fortunato, la pallottola non ha colpito nessuna vena o arteria e anche l’osso è intatto. Ad ogni modo, se il dolore dovesse diventare insopportabile diccelo subito, abbiamo degli antidolorifici…»
Che tipo di evoluzione avrebbe avuto la sua vita ora che, in qualche modo, era sopravvissuto a se stesso? Odiava ammetterlo, ma se era ancora in quel lurido mondo, lo doveva unicamente ai Phantom Thieves. Eppure forse la morte sarebbe stato un sollievo migliore degli antidolorifici che Akira gli dava la sera poco prima di dormire.
Spoiler: Novembre e Dicembre interni al gioco.
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Crack Pairing | Personaggi: Goro Akechi, Ren Amamiya/Akira Kurusu
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo 1.

Risveglio dall’oblio.

 

Era buio pesto nel momento in cui aprì gli occhi. Talmente buio che per un po’ non riuscì a capire se si fosse realmente svegliato, se avesse dischiuso lo sguardo nel mondo reale o se stesse ancora fissando il vuoto dietro le proprie palpebre. La gelida consapevolezza di essere vivo gli si insinuò lentamente nelle ossa e gli attanagliò i polmoni. Faceva fatica a respirare, come se una corda ruvida e sporca si stesse lentamente stringendo attorno al suo collo. Il respiro si accorciò e un attimo dopo l’altro diventò sempre più affannato. Le mani annasparono su quello che a prima impressione sembrava un lenzuolo. Si rese conto di trovarsi disteso, da qualche parte. La mano destra corse al proprio collo senza che potesse comandarla, le sue dita indagarono lungo la gola, senza alcuna delicatezza. Erano in cerca, in cerca di quella corda nascosta, ma non trovavano altro che la sua pallida pelle e ossa in rilievo, che sporgevano non appena affondava i polpastrelli nella carne. Non riusciva a fermarsi.

Poi una voce, che udì a malapena. «Akira! Sveglia, Akira!»

Improvvisamente si rese conto di star gridando. Fu sconvolgente al punto che non riuscì ugualmente a gestire questa nuova situazione che gli sfuggiva di mano - o forse, su cui non aveva mai avuto davvero controllo. Forse stava per morire. Non importava quanta aria cercasse di inspirare, era sempre troppo poca. Il dolore che sentiva al collo iniziava ad essere insopportabile, ma non riusciva a fermarsi. Tutto il suo corpo era come posseduto, la sua coscienza schiava del proprio unico obiettivo: sopravvivere.

«Cavolo.»

Un’altra voce, più familiare, agitata. Due mani forti afferrarono il ragazzo per le spalle, scuotendolo. Una luce si accese accecante e gli strappò un gemito, poi non vide più. D’un tratto, non avvertì più alcuna presa sulle spalle, ma sui propri polsi. Poteva sentire tutta la determinazione che scaturiva da quella stretta salda e si sentì sperduto. Si chiese chi fosse e dove fosse, se questa persona stesse cercando di fargli del male. Non riusciva a ricordare ciò che aveva sentito poco prima, la sua memoria si era ridotta in sordina. Quando il suo aggressore cercò di allontanargli le mani dal suo collo, il ragazzo urlò. Sentì la gola bruciare terribilmente. Quello che ne venne fuori fu solo il primo di una serie di grida ancora più disperate delle precedenti. In un momento di lucidità, si sarebbe definito terrificante.

«Fermati, ti prego fermati.» La voce era familiare, ma non riusciva a capire di chi fosse. Il cuore all’impazzata, senza quasi più fiato, incontrollabile, si ribellò senza conoscerne il motivo.

«No! No! No! No!»

Altre grida seguirono. Fu tutto d’un tratto che si sentì afferrare con ancora più forza. Nessuna gentilezza fu messa nei gesti che gli strapparono le mani dal corpo. L’altro tenne stretti i suoi polsi, lui si sentì sollevare e spingere all’indietro. Pensò che sarebbe caduto per sempre, finché la sua schiena non sbatté contro qualcosa che non sembrava affatto un pavimento. Pur con i polsi sollevati e bloccati sopra la testa, si agitò instancabilmente, ma la presa ferrea gli impedì di liberarsi.

«Akechi…» il suo nome, pronunciato come se fosse un peso così grave, «Akechi, sono io. Akira.» Le parole dell’altro si sovrapposero ai suoi pensieri. Non realizzò mai che il suo nome fu la prima cosa sensata che ricominciava a passargli per la mente. Col respiro ancora affannato e la sensazione di essere vicino alla morte per soffocamento, tentò di aprire nuovamente gli occhi. Tuttavia la luminosità della stanza era ancora troppo forte e rinunciò immediatamente.

«Morgana, la luce piccola vicino le scale. Me la potresti accendere?»

«Roger.»

Morgana… Qualcosa scattò, un ricordo. Il muso nero e gli occhi blu come il mare di quell’animale che Akira si portava sempre nella borsa. Inutile nasconderlo, Goro aveva sempre saputo che i due non viaggiavano mai da soli. Il gatto maledetto… ovviamente c’è… anche lui. Vi fu buio per un attimo, poi una luce più tenue illuminò la stanza. Goro continuava a respirare a un ritmo erratico e violento e sebbene fosse riuscito a formulare un pensiero coerente, fu semplicemente uno di numero. L’insufficienza d’aria gli toglieva respiro anche al cervello. Avere Akira chino su di lui era rassicurante quanto opprimente. Se avesse potuto, si sarebbe aggrappato a lui con tutte le forze, se fosse servito a non farlo affondare giù, giù, giù…

«Akechi,» il suo cognome, pronunciato così tante volte, iniziava a fargli girare la testa. Non serviva richiamare così ripetutamente la sua attenzione. Come faceva a non capire che l’aveva già? «Sei al sicuro. Sei a casa mia, non sei solo.»

Finalmente aprì gli occhi. Erano forse l’unica parte del suo corpo che non urlava, in quel momento. Piano piano il suo sguardo mise a fuoco il volto chiaro, i capelli neri corvini, quel paio di occhi grigi che appartenevano ad Akira Kurusu. Vederlo chino su di lui con quello sguardo serio dipinto in faccia per un attimo scatenò una reazione di dispetto nel suo cuore, a maggior ragione del fatto che lo stava costringendo fermo sul materasso con tanta facilità. Eppure, per quanto fosse bravo ad aggrapparsi all’odio e al rancore, il sentimento scemò velocemente come era sbocciato. La sua mente tornò indietro, alla sera che pensava sarebbe stata l’ultima della sua vita, e il furore svanì del tutto.

«Non respiro,» soffiò così velocemente che probabilmente Akira non aveva nemmeno capito. Lo guardò dritto nei suoi occhi luminosi, disperato, e ripeté. «A-aiuto. Non… respiro…»

Pensò di essere sul punto di morire. Lo credette davvero. Più si concentrava sul calmare il proprio respiro, di rallentare il battito cardiaco, più gradualmente scivolava nel panico, meno riusciva a respirare, meno riusciva a controllare il proprio corpo. Sentì che Akira si assicurava la presa sui suoi polsi in una mano sola e ritraeva l’altra. Il ragazzo si spostò verso destra e udì il rumore di cardini che scorrevano. In pochi secondi, un alito di vento investì il suo viso. Un dito di gelo segnò un solco lungo il suo collo. Il freddo mandò il suo cervello in cortocircuito per un millisecondo, poi sortì l’effetto opposto. L’improvvisa realtà del clima di stagione fu sufficiente a restituirgli un po’ di lucidità. Come incantato, cessò di dimenarsi. Seppure in modo irregolare, con continue interruzioni e tremiti, anche il respiro iniziò a regolarizzarsi, e se si affrettava era per i brividi.

Ancora chino su di lui, Akira lo osservava con attenzione e lo incoraggiava con parole che a malapena sfioravano le sue orecchie. «Bravissimo… piano. Uno… due. Uno… due…»

Goro non riusciva nemmeno a capire cosa stesse contando finché il ragazzo non gli chiese di contare assieme a lui. Dopo un tempo che gli sembrò infinito capì che si riferiva ai suoi respiri. Con poca sicurezza, seguì il consiglio. «U-uno…» il primo respirò venne fuori un po’ tremante, ma cercò di allungarlo il più possibile. «Du… due.» La voce di Akira lo accompagnava e sembrava una carezza. Non stava andando così male, ma Goro non riusciva a non arrabbiarsi con sé stesso. La cosa più naturale del mondo per chiunque vivesse, ecco, lui non riusciva a farla. I neonati respiravano e neanche ci pensavano. Ed invece eccolo lì, il miserevole Goro Akechi, disperato perché non ricordava più come si faceva a vivere.

Questi pensieri lo agitarono terribilmente. Un sorriso amaro si fece strada dentro di lui ma non raggiunse le labbra. Sarei dovuto morire lì. «U-u…» il fiato gli si mozzò in gola in un accenno di nuova iperventilazione. Il fatto che gli venisse da ridere non l’aiutava. Non merito questo. Un nodo alla gola che prima non c’era lo strinse più forte di quella corda che ora chissà dove era finita. Forse i Phantom Thieves avrebbero fatto meglio a permettergli di inscenare la propria morte fino alla fine. Sarebbe scomparso, non avrebbe più avuto bisogno di ricordare come si faceva a respirare. Se ne sarebbe andato con una morte degna di un eroe tragico shakespeariano.

«Ehi, ehi…»

Di nuovo la voce calma e sicura di Akira Kurusu. Il suo acerrimo nemico, il suo rivale. L’unica persona che fosse mai riuscita a sopravvivergli e non una, ma ben due volte. Il giorno in cui aveva sparato un proiettile dritto nelle sue tempie si era sentito l’uomo più potente del mondo. Una delle vette più alte dell’Everest. Eppure, eccolo lì. Più vivo di lui, senza dubbio, e capacissimo di fare qualsiasi cosa. Ma soprattutto, era lì per lui. Avrebbe dovuto lasciarlo a marcire in quella nave, lasciare che lo uccidessero, smettere per una volta di volersi accollare il peso della vita di qualcun altro.

«Akechi,» il viso del ragazzo di fronte a lui, pur nella penombra, era estremamente nitido ai suoi occhi, «Sei forte. Molto più forte della maggior parte delle persone che conosco. Magari non andiamo d’accordo su molte cose, io e te, ma se ti arrendi ora non avremo nemmeno mai l’occasione di parlarne, che dici?»

«D-di cosa… parlare?» Aveva la bocca così secca e impastata che anche mormorare gli costava fatica. Per la prima volta, la voce di Akira si lasciò andare ad una leggera risata. La pressione sui polsi svanì. Finalmente libero, tuttavia, Goro non si mosse di un millimetro.

«Uhm… che ne dici dei pancakes?»

«P-pan…» la sua voce si spense. Fu come se tutto si fosse spento dentro la sua testa. Non se ne accorse nemmeno. Il solo nome del cibo bastò ad aprire una voragine nel suo stomaco, che decise gentilmente di render chiaro a chiunque nella stanza il fatto che gli fosse venuta fame. Il brontolio gli guadagnò se non altro un’altra risata da parte di Akira, che gli sorrise in una maniera che Goro non avrebbe esitato a definire tenera. Invece di sentirsi imbarazzato e bizzarramente felice, avrebbe preferito provare disgusto. Il ragazzo avvicinò una mano al suo viso e con gentilezza scansò le ciocche di capelli che aveva sulla fronte umida e sudata. Goro sentì il calore della sua pelle contro la propria e rabbrividì. Poi Akira si voltò lateralmente, guardando un punto nella stanza fuori dal suo campo visivo.

«Morgana, vieni a tenergli compagnia un momento? Prendo il necessario e torno.» Prima di alzarsi dal letto, il ragazzo allungò una mano verso l’alto fece scorrere la finestra finché non fu quasi socchiusa. Goro fu felice di non avere più il vento gelido a colpirlo in volto. Senza nemmeno rendersene conto aveva finalmente ritrovato un po’ di calma. Avrebbe voluto chiedere ad Akira di non andare, ma non aveva la voce né la forza per farlo. Con sorpresa si chiese come potesse la sua presenza rassicurarlo tanto da farlo sentire smarrito nel momento in cui se ne fosse andato.

Il maledetto gatto nero dagli occhi azzurri salì sul letto prendendo il posto lasciato vuoto da Akira. Goro seguì i passi di quest’ultimo con lo sguardo, fin dove poté, mentre tutto il suo corpo si tendeva involontariamente nella stessa direzione. La sua mano sinistra ora distesa per metà fuori dal materasso era pallida come quella di un morto. In quel momento si rese conto di avere le mani sporche e bagnate. Stringendo il pugno debolmente e sfregando le dita tra loro, riconobbe la consistenza di un qualcosa che conosceva bene. Dacché pensava di cominciare a stare meglio, improvvisamente sentì lo stomaco sottosopra. La stanza girò come una ruota della fortuna e provò un conato di vomito arrivare quasi alle labbra.

«Ohi…» la voce di Morgana affondò nelle sue orecchie come una mano sott’acqua cerca di afferrare il braccio di qualcuno che sta affogando. Lentamente, si voltò verso di lui e sperò fosse un segno sufficiente a far capire che aveva la sua attenzione. Meglio che ripensare alle proprie mani sporche di sangue, che lo avrebbero perseguitato a vita. «Sono felice che ti sia svegliato…» riprese il gatto, «Siamo stati tutti in pensiero.»

Tutti… Goro storse il naso e non rispose.

«Akira mi ha detto di tenerti compagnia,» Morgana interruppe il suo corso di pensieri, «Significa che vuole che non ti addormenti di nuovo mentre lui non è qui. E che non ti senta solo, probabilmente.»

Il massimo che riuscì a fare fu annuire.

«Fai fatica a parlare, giusto? Allora parlerò un po’ io. Forse ti stai anche chiedendo varie cose quindi proverò a darti qualche informazione,» il gatto si leccò una zampa, per poi passarsela sul muso. Un gesto che, se fosse stato umano, sarebbe forse stato paragonabile al passarsi una mano tra i capelli. «Adesso è la notte tra il sette e l’otto dicembre. Ti trovi a casa di Akira, nell’attico del caffè Leblanc. Hai dormito ininterrottamente per cinque giorni. Se senti dei pizzicori alla gamba destra, è normale, la dottoressa Takemi ha avuto il suo bel daffare a disinfettare la ferita e applicare le garze. Ha detto che sei stato molto fortunato, la pallottola non ha colpito nessuna vena o arteria e anche l’osso è intatto. Ad ogni modo, se il dolore dovesse diventare insopportabile diccelo subito, abbiamo degli antidolorifici…»

Erano troppe informazioni per poterle processare correttamente una per una. La parola “pallottola” però lo colpì come se fosse stata appena sparata contro la sua testa. Goro non ricordava nemmeno di essere stato colpito. Doveva essere accaduto mentre fuggivano dal palazzo di Shido. Ora che Morgana aveva portato l’attenzione sull’argomento, si rese conto di avere delle bende saldamente avvolte attorno al polpaccio destro. Allungando una mano, toccò il tessuto sfiorandolo. «Non… fa male…»

«Ottimo.» Fu la risposta immediata di Morgana.

Poco dopo dei passi riecheggiarono dalle scale facendosi sempre più vicini. Goro li contò e arrivò fino a sette, poi Akira fu nuovamente ai piedi del letto, trasportando un vassoio che fu presto poggiato a terra. Il rumore gli diede tanto fastidio che Goro dovette coprirsi le orecchie con le mani, ma con gli occhi si permise di sbirciare. Sul vassoio una piccola bacinella, diversi fazzoletti bianchi, un bicchiere, una bottiglia d’acqua e un piatto con sopra alcuni biscotti erano allineati uno accanto all’altro. La prima cosa che Akira gli porse fu l’acqua. Sedutosi sul bordo del letto, fece scivolare un braccio sotto il collo di Goro per aiutarlo a sollevarsi. Spostandosi un po’ indietro, il ragazzo poté sedersi poggiando la schiena contro la parete. Ancora stordito, non riusciva a guardare dritto davanti a sé senza che la stanza ondeggiasse, ma la sua gola arida lo implorava di bere. Akira gli si fece più vicino e portò il bicchiere alle sue labbra. Con un po’ di incertezza, Goro chiuse le mani attorno al piccolo oggetto in vetro e attorno alle stesse dita dell’altro, che non accennarono a lasciare la presa. Lentamente, inclinò il bicchiere e bevve. In meno di un minuto, Akira si ritrovò a riempirgli altri tre bicchieri.

«Vuoi mangiare qualcosa?» Gli chiese poi, ma la domanda gli strappò una smorfia. Lentamente, scosse la testa. Se avesse mangiato in quel momento avrebbe finito col vomitare. Quando poté finalmente metter via il bicchiere, Akira lo aiutò a tornare in posizione supina sul letto. Le sue mani erano così attente e sicure… Goro rabbrividì pensando che Akira era la prima persona che lo toccava in tanto, tanto tempo. Chinandosi accanto al letto, Akira uscì dal suo campo visivo, ma Goro capì che stava armeggiando con la bacinella. Quando rifece capolino, scostatogli i capelli dal viso, poggiò il fazzoletto sulla sua fronte. Osservando per tutto il tempo il soffitto dell’attico, Goro non oppose resistenza e la sensazione del panno umido sulla pelle lo fece sentire subito meglio. Ad occhi chiusi, cercò di rilassarsi e si concentrò sul proprio respiro. Il tocco improvviso di qualcosa contro il lato sinistro del collo però lo fece sussultare.

Akira gli mostrò la mano destra, tra le cui dita teneva stretto un altro fazzoletto bagnato. Non si dissero niente e dopo poco il ragazzo riprese ciò che aveva appena iniziato. Senza una singola parola, proprio come gli si addiceva, pensò Goro. Akira passò il fazzoletto lungo tutta la pelle che riusciva a raggiungere, dalla mandibola alle clavicole. Goro si sentì scoperto e vulnerabile, per non parlare del fatto che non comprendeva quale fosse la necessità del gesto. L’attenzione con cui Akira si prendeva cura di lui era terribile e spaventosa fin nelle viscere, eppure così calda. A volte si colse quasi a rilassarsi sotto il tocco delle sue dita, ma quando meno se lo aspettava alcuni bruciori improvvisi estorcevano dei sibili alle sue labbra. In questi casi, Akira si fermava e si voltava, seguiva poi il suono del fazzoletto che veniva intinto nell’acqua della bacinella, poi il ragazzo tornava e più gentilmente di prima riprendeva il suo lavoro. Mordendosi le labbra, Goro cercava di non impazzire, di non lasciarsi cullare troppo.

«Perché fai questo?» Chiederlo fu togliersi un peso insostenibile dal petto. «Non siamo… compagni… tu non dovresti…»

Akira non rispose subito, passò il fazzoletto umido un’ultima volta sul lato destro del suo collo e si lasciò andare a un leggero sospiro. «Non preoccuparti, ho finito… E non so dirti perché…»

Goro si sentì quasi tradito dalla freddezza della risposta. Ironico, non era stato lui a tradirlo, in realtà. Per un attimo la mente gli si svuotò del tutto, ma durò un istante soltanto. Una risata sfuggì alle sue labbra ma finì in un colpo di tosse. La voce del proprio disgusto lo chiamò patetico. «Devo dedurne che soffri di una sorta di sindrome da crocerossina, Kurusu-kun?» domandò quando si fu ripreso, «Non puoi salvare chiunque. Sogni così vasti e altruisti finiscono sempre per deluderti.»

«Non voglio salvare chiunque,» rispose il ragazzo, e dal tono di voce sembrava non avesse finito, invece si voltò e senza aggiungere altro si alzò dal letto. Goro sentì il rumore di qualcosa che strusciava contro il pavimento, poi la voce del ragazzo che chiamava Morgana. In men che non si potesse dire, il maledetto gatto nero era tornato al suo fianco mentre Akira si allontanava. Da non lontano giunse il rumore di ante che si aprivano e poi sbattevano. Quando fu di ritorno, Akira teneva in mano una scatolina bianca.

«Adesso devi mangiare un biscotto,» disse mentre si sedeva e tendeva una mano verso il suo viso, come se fosse la cosa più naturale del mondo, «altrimenti non posso darti la medicina.» Goro storse il naso, chiedendosi perché mai dovesse fidarsi di una persona che non sapeva nemmeno perché lo stava aiutando. Tuttavia, non solo non aveva alternative migliori, l’unico motivo che aveva per non accettare era il suo orgoglio, e non si trattava di una motivazione sufficiente per rifiutare. Senza protestare dunque si sollevò sui gomiti, combattendo un giramento di testa, e prese in una mano il biscotto che Akira gli stava porgendo. Lo portò alle labbra e lentamente ne mandò giù un morso. La pasta frolla era buona e dolce, ma gli lasciò un retrogusto amaro in bocca. Aveva fame, ma non voleva mangiare.

«Finiscilo tutto, Akechi-kun.» Akira si guadagnò uno sguardo che era tutto fuoco e saette. Se solo fosse stato abbastanza in forze da potergli tirare un pugno in faccia e rompergli il naso, Goro lo avrebbe fatto. Nonostante ciò, obbedì.

«Ora ingoia questa.» Ancora una volta senza fiatare Goro fece come gli veniva detto e si aiutò bevendo dell’acqua. La medicina era insapore e non fece fatica a mandarla giù. Restituì il bicchiere e fissò Akira intensamente, che sostenne il suo sguardo e i due tacquero per un po’. Anche quando tornò a stendersi, liberandosi dal dolore che gli indolenziva le braccia, Goro non distolse mai lo sguardo. Stava iniziando già a dimenticare il motivo della propria fissazione quando l’altro gli parlò.

«Sai,» disse con calma, «Forse non è il momento più adatto, ma se hai qualcosa da dire dimmela. Te lo si legge in faccia.»

«Io…» iniziò, confuso con se stesso, finché non riuscì ad aggrapparsi all’unica emozione che provava intensamente da una vita e che prima, invece, l’aveva abbandonato, «Io odio… dover dipendere da te.» La propria debolezza lo ripugnava oltre ogni misura. Ripensare alla bruciante sconfitta che aveva subito per mano dei Phantom Thieves gettava solo altro sale sulle sue ferite aperte. Non importavano le loro belle parole. Non importava più nulla di fronte al proprio senso di impotenza. Una parte di lui non sarebbe mai riuscita a liberarsene. Eppure, guardando Akira, non vedeva più soltanto un’occasione mancata, un degno rivale né un nemico giurato. Vedeva una mano tesa verso di lui. Una possibilità spaventosa. «Odio dover riconoscere che ho bisogno di te…» si corresse quasi senza accorgersene.

Quegli occhi così sicuri e profondi, nell’oscurità della stanza, sembrarono brillare per un attimo. Esasperato, Goro si lasciò andare ad un sospiro che sapeva tutto di resa e scosse la testa tra sé. Questa era certamente stata una confessione che il suo vecchio sé non avrebbe mai fatto. Si domandò che fine avesse fatto.

«Capisco…» Akira sembrò pensarci su, assorto, ma un leggero sorriso fece capolino sulle sue labbra. «Ad ogni modo, ora che sei qui, devi vivere. E io ti darò una mano.»

Il silenzio cadde tra di loro lasciando Goro a domandarsi se avrebbe dovuto prendere quella risposta come un incoraggiamento o come una minaccia. Ma era sempre stato così, Akira Kurusu, estremamente silenzioso e di poche parole e, nonostante tutto, aveva un coraggio e una forza ammirevoli. Le poche parole che diceva non erano quasi mai parole a caso. Goro pensò che avrebbe voluto sentirne altre, e che per farlo avrebbe volentieri risposto, tuttavia non passò molto tempo ancora prima che la medicina iniziasse ad avere effetto. I suoni divennero sempre più ovattati. Se disse qualcosa, nemmeno lo ricordò più. Senza accorgersene chiuse gli occhi e scivolò in un sonno profondo.

   
 
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