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Autore: Giuf8    19/11/2017    1 recensioni
E Ethan e Jackson? Come si sono conosciuti? In che zona di Londra? Chi ha fatto la prima mossa? E il primo bacio?
Non potevo proprio lasciare questa storia solo nella mia testa.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Ethan, Jackson Whittemore
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Luna piena
 
Ethan
 
Ethan cercava in tutti i modi di convincersi di non essere un maniaco. Perché non lo era, vero?
Era questo il timore che ormai da un po’ lo tormentava e, mentre saltava su un taxi, si rese conto di non essere più tanto certo della risposta.
Ormai viveva a Londra da quasi dieci giorni, non aveva impiegato molto ai ambientarsi. Aveva da parte un po’ di risparmi con cui era riuscito ad affittarsi un appartamento molto carino e con una gran bella vista sul London Eye.  Deporre gli abiti nell’armadio gli aveva fatto un effetto strano, nemmeno ricordava l’ultima volta che lo aveva fatto, di solito una borsa era tutto ciò che aveva e gli bastava. Si era fermato davanti al guardaroba che sembrava urlargli di tuffarsi tra i negozi londinesi per riempirlo degnamente. Prese nota. Tuttavia dopo aver sistemato le sue cose, un po’ di scartoffie ed essersi ripromesso che, entro un mese, si sarebbe trovato un lavoro, Ethan si rese conto che non aveva poi molto altro da fare. Si sedette sul divano fissando dritto davanti a sé e sentendo il richiamo del computer che aveva acquistato giusto l’altro giorno.
“No, non lo farò” si disse.
Cercò di distogliere la sua attenzione da quell’oggetto, piuttosto inutilmente.
“Ho detto no”.
Si alzò dal divano, le mani in tasca, frustato fece scivolare lo sguardo su tutta la stanza finchè questo non gli si posò di nuovo sul pc.
“Al diavolo”
Era stato fin troppo semplice arrivare alla Southbank International School inserendo nel motore di ricerca il nome del logo della borsa che aveva visto al ragazzo dell’aeroporto.
Ethan ci aveva provato in tutti i modi a scordarsi quello sguardo azzurro, ma per qualche strano motivo gli era stato impossibile. Erano passati già alcuni giorni dal suo arrivo a Londra, eppure quando chiudeva gli occhi gli sembrava di avercelo ancora davanti. Quello sguardo severo e limpido lo tormentava ogni secondo di ogni giorno, perfino di notte non  lo lasciava mai. Per qualche strano motivo non era solo la sua parte umana ad esserne attratta, ma anche il lupo che c’era in lui sembrava esserne folgorato.
Era a questo che pensava mentre il taxi, viaggiando per le piovoso strade di Londra, si avvicinava sempre più alla Southbank International School, dove, gli aveva detto il Dio Google, si sarebbe disputata una delle partite di cricket del campionato studentesco che si teneva ogni anni tra le scuole private.
Scese nell’erba appena tagliata e pagò lautamente il taxista, alla sola idea di rivedere quegli occhi si sentiva già di buon umore. Purtroppo, o per fortuna, dipende da come la si guardi, la Southbank International School teneva alla privacy dei suoi studenti e non comunicava, oltre ai nomi, le foto dei partecipanti al campionato.
Si diresse a passo lento verso gli spalti mentre una pioggerellina sottile gli inumidiva i vestiti. Si accomodò nel posto più in alto sulla destra cercando di no attirare l’attenzione un gruppo di ragazze starnazzanti che attendevano l’arrivo dei loro belli.
Si rese improvvisamente conto di non essere molto diverso da loro, quante volte era stato sugli spalti a Beacon Hills osservado sognante Danny allenarsi? Era impossibile tenere il conto.
Osservò attentamente il campo ancora deserto cercando di indovinare da che lato sarebbe arrivato quel ragazzo. Aveva il viscerale terrore di non riconoscerlo, nonostante i suoi lineamenti gli fossero rimasti scalfiti nella memorie e nonostante, con la sua vista acuta, riuscisse a vedere distintamente i volti degli spettatori che attendevano l’inizio della partita dall’altra parte del campo.
“Ethan, datti un contegno maledizione.”
Si chiese come potesse tenerci così tanto quando nemmeno conosceva in nome di quel ragazzo con cui non aveva praticamnte mai parlato – si rifiutava di considerare il breve dialogo in cui gli dava dell’idiota-.
Non passò molto tempo che le gradinate si fecero gremite di persone tese in un’attesa febbricitante.
Mentre entravano i giocatori si rese conto di trattenere il fiato.
“stupida ragazzina che non sei altro” si disse costringendosi ad espirare.
Osservò, per quanto gli era concesso dai caschi i volti di tutti quelli che entrarono in campo e sentendosi sempre più disperato mano a mano che scartavo giocatori su giocatori.
“Quello no ha la mascella troppo sporgente, quello è troppo basso, quello troppo alto, quello ha il naso storto”.
Sembrava non andarne bene nemmeno uno.
Nel frattempo i giocatori si muovevano in campo e Ethan rimase spiazzato dal gioco, era sinceramente convinto che il cricket si giocasse con dei martelli e che consistesse nel far passare una stupida pallina sotto degli archetti, questo sembrava quasi un sorta di baseball. Gli c’era voluto del tempo per capire a pieno il lacrosse, ma quello, quello gli risultava del tutto incomprensibile e si trovò presto a fare cose imbarazzanti come rimanere seduto mentre tutti scattavano in piedi urlanti, oppure, molto peggio, il contrario. La sua ricerca però continuava a non dare frutti, possibile che si fosse sbagliato?
Proprio in quel momento sentì un rantolo provenire alla sua destra e vide un giocatore stramazzare a terra con l’affanno. Gli si attorniarono un gran numero di persone che lo aiutarono a raggiungere la panchina. L’allenatore si rivolse ai giocatori seduti e fece cenno di entrare in campo al numero 37, un certo Whittemore.
Ethan fissò intensamente le spalle del giocatore… possibile che?
Proprio in quel momento Whittemore si voltò con quegli occhi azzurri che a Ethan sembrava di coniscere da una vita, ma che gli parvero ancora più intensi della volta precedente.
Il trentasette fece ruotare la testa e, prima di entrare in campo, si girò per rendere omaggio alla panchina.
Ethan che era rimasto a boccheggiare osservò il suo sguardo passare sulle ragazze urlanti e raggiunger proprio lui che se ne stava in un cantuccio. Di tutta quella gente sugli spalti il suo sguardo si posò proprio su di lui, senza equivoci, non una persona più in là o una più sotto, ma proprio lui. Ethan si sentì scaldare da dentro mentre osservava gli occhi del ragazzo sbarrarsi per la sorpresa.
Quando l’arbitro fischiò, però, quell’istante svanì. Whitemore raggiunse il campo distogliendo lo sguardo ed Ethan rimase ad osservarlo con la scusante di osservare una partita, anche se i suoi occhi non seguirono mai la palla, ma solo il giocatore con il numero trentasette.
 
Jacksn
 
Era stufo marcio di starsene seduto in panchina. Non lo sopportava e, soprattutto non ne capiva il motivo, la settimana prima aveva giocato alla grande e ora veniva trattato come uno di serie B. Quasi che i suoi lamenti fossero stati ascoltati Carl, che aveva deciso nonostante il parere del medico, di ricominciare a giocare, si accasciò in campo.
“Grazie Dio, era ora”.
Sentiva già i muscoli tesi dall’adrenalina che gli scorreva nel vene, nonostante finora non avesse fatto altro che rimanermene a guardare. Si alzò in piedi scattante, pronto a sostituire Carl, ma una sensazione lo fermò. Fu quasi sicuro di sentire il suo lupo sussultare e mugugnare mentre si voltava alle spalle, perché, ne era certo, anche lui aveva percepito quella sinistra e vibrante percezione di essere osservati. Guardò le tribune, ma a una prima vista non sembrava esserci nulla di diverso dalle altre partite. Poi lo vide. Se ne stava in disparte cercando di non attirare l’attenzione, ma, in mezzo a quell’accozzaglia di ragazze, genitori e gruppi di amici, sembrava un pesce fuor d’acqua. I suoi occhi si incrociarono con quelli neri dell’altro e li rimasero, imprigionati. Avrebbe riconosciuto quello sguardo in mezzo a mille, perché era lo stesso che lo tormentava da giorni a quella parte, dalla sua partenza per il Galles.
Si voltò cercando di ignorarlo, non era possibile che fosse venuto per lui, giusto?
Sarebbe stato ridicolo e poi come diamine avrebbe fatto a sapere in che scuola andasse? Magari era solo una strana e assurda coincidenza. Eppure, mentre Jackson giocava sapeva perfettamente che, sebbene la sua mente era occupata a prevedere le mosse degli avversari, una parte più profonda e istintiva sentiva su di sé lo sguardo di quello sconosciuto. Centinaia di persone erano andate a guardarlo giocare nel corso della sua carriera sportiva, ma mai Jackson ne aveva percepito lo sguardo in quel modo.
 
Il fischio di fine partita lo riscosse, si diresse insieme agli altri negli spogliatoi dove si rinfrasco con una doccia e raccolse le sue cose e, uscendo, si diresse dall’altra parte del campus dove si trovava il suo alloggio. Aveva fatto solo qualche metro quando una voce da dietro lo fermò.
“Gran bella vittoria, complimenti.”
Si chiese come fosse possibile che una voce che si sia ascoltata solo una volta nella vita suonasse così famigliare.
“Aspetta… fammi ricordare… Tu eri quello che cercava di uscire dall’entrata all’aeroporto” gli disse socchiudendo gli occhi come se cercasse di ricordare qualcosa di molto lontano.
“L’idiota, sì” rispose l’altro sorridendo e andandogli un po’ più vicino.
Il cuore di Jackson fece un balzo. “Maledizione Jackson è un ragazzo, smettila” si disse, ma il suo battito non ne voleva proprio sapere di rallentare.
“Sai non mi capita spesso che mi chiamino così” continuò l’altro osservandolo a fondo con quegli occhi neri che sembrava essere al contempo impenetrabili e sinceri.
“Ti sembrerà strano ma nemmeno a me hanno mai dato del… com’è che era brutto muso?” ribatté cercando di ignorare quanto fosse secca la sua gola.
L’altro fece una risata lasciando correre i suoi occhi lungo la figura dell’altro.
“Me lo immagino” mormorò.
Calò un silenzio teso, finche Jackson non chiese:“Gioca qualcuno in squadra che conosci”
“Oh, no” disse l’altro che sembrava essere stato colto in contropiede dalla domanda “Non ancora almeno”.
“Senti io dovrei andare ora” disse Jackson avviandosi.
“Perché non viene come me? Avrai una fame da lupi dopo la partita e io non sono pratico della zona, potresti indicarmi qualche posto carino”
Jackson sorrise tra sé “Fame da lupi… non sai quanto”.
“Io non…” si ritrovò a boccheggiare “Cioè magari tu non hai capito, ma non sono…”
“Gay?” finì l’altro e Jackson si trovò a deglutire annuendo.
“Beh” sospirò il ragazzo alzando le spalle “Un gran peccato dal mio punto di vista”.
Jackson se ne stava già andando quando quello continuò: “Ma un motivo in più per accettare di uscire con me, cosa può succederti di male?”
“Quello in pericolo sei tu, non io” pensò Jackson il fiato corto per il poco spazio che gli separava e che faceva agitare il suo lupo in un modo del tutto nuovo.
“Allora che fai vieni?” sussurrò l’altro facendo riscuotere Jackson dal suo torpore.
“Va bene” acconsentì e non seppe esattamente da dove arrivasse quella decisione, se da lui o dal lupo, che se fosse stato possibile vederlo, avrebbe scodinzolato felice come il più patetico dei chihuahua. Si ritrovò a scuotere il capo, quasi potesse denigrarlo.
“Ethan”
“Come?” chiese, preso alla sprovvista mentre era immerso nei suoi pensieri.
Il ragazzo rise, mentre si avviava verso un taxi poco distante. Aveva una risata meravigliosa, incredibilmente contagiosa e che riusciva a coinvolgere tutti il viso. Rideva con gli occhi.
“Il mio nome… Ethan”
“Ah…” esclamò sedendosi sul sedile posteriore insieme a lui.
“Jackson sei proprio un cretino, cosa diavolo vorrebbe dire ah?” imprecò fra sé.
L’altro lo guardò sorridendo “Posso sapere il tuo nome o è un segreto di stato?”
“Maledizione Jackson collega il cervello”, ma tutto ciò che riusciva a pensare era quanto poco spazio lo dividesse da Ethan.
“Jackson” disse alla fine. Sperava che il suo aspetto esteriore non lasciasse trapelare quanto fosse agitato e sconvolto nel profondo. Solitamente era molto bravo a celare le sue emozioni, la sua vita si basava su quello, ma ciò che sentiva era ignoto perfino a lui stesso.
“Jackson…” disse l’altro osservandolo diritto negli occhi e lasciando che ogni lettera di quel nome gli accarezzasse le labbra e rotolasse fino a lui facendolo fremere “…allora, dove andiamo?”
 
Finirono per ritrovarsi in un locale che Jackson aveva scoperto qualche mese dopo il suo arrivo, le rifiniture in legno del bancone, gli specchi enormi e le luci soffuse gli conferivano un’aria accogliente e ariosa. Mentre mangiavano quello che era definito il miglior bacon burger di Londra non parlarono molto, per lo più si osservavano di soppiatto tra un boccone e l’altro sorridendo quando lo sguardo dell’uno incrociava quello dell’altro.
Ethan notò che Jackson aveva della salsa nell’angolo della bocca, il suo primo pensiero fu immaginare quanto sarebbe stato bello toglierla con un bacio, cercò di trovare un contegno. Comunque il momento duro poco perché l’altro corse subito al tovagliolo rovinando tutto i desideri peccaminosi di Ethan.
“Che c’è?” domandò Jackson notando che gli occhi dell’altro non si scollavano dalle sue labbra.
“Oh niente niente” si affrettò a dire Ethan abbassando lo sguardo, mentre un sorrisetto furbo gli increspava le labbra e una tinta porpora gli colorava le guancie.
“Diamine quanto è bello” Jackson trasalì per il suo stesso pensiero, ma era emerso nella sua mente prima ancora che potesse insabbiarlo in un angolo remoto come se non fosse mai esistito. Scosse il capo per schiarirsi la mente.
Ethan lo osservava quasi potesse vedere la lotta interiore del ragazzo che gli stava di fronte, ma non disse nulla in proposito, iniziò a parlare di cose futili come quanto un hamburger dovesse obbligatoriamente essere accompagnato con delle birre. Jackson nemmeno si rese conto di come avvenne quel cambiamento, ma fu estremamente sconvolto quando il barista gli si avvicinò di soppiatto e disse:”Ragazzi non voglio interrompervi, ma stiamo per chiudere”.
Nessuno dei due si era reso conto del tempo che passava e, me che meno, del locale che si andava svuotando. Pagarono velocemente e uscirono nella fredda notte londinese.
Ethan si offrì di accompagnarlo al suo alloggio.
“Non devi preoccuparti di me, so difendermi”
“Lo so, ma mi è di strada e poi ho bisogno di camminare un po’”.
“Dove abiti?” sorpreso nel constatare come quell’argomento non fosse mai venuto a galla.
“Vicino al London Eye” disse Ethan scuotendo le spalle.
“Ma è dall’altra parte!”
“Lo so, ma ho voglia di camminare molto stasera” rise l’altro.
Jackson non era mai stato trattato in quel modo. I suoi genitori gli volevano bene, certo, ma non ci avevano pensato due volte a farlo andare in Inghilterra non appena aveva iniziato ad essere un problema per loro. Nel branco di Scott aveva trovato parte dell’affetto che gli era sempre mancato, ma non aveva mai dimostrato quanto dovesse loro e, comunque, non era mai stato un membro effettivo quanto… quanto Lydia per esempio. Lei si che lo aveva amato, a suo modo, ma lui era troppo chiuso per riuscire a capire quanto fosse bello quello che avevano. Mai nessuno comunque era riuscito a trasmettergli le emozioni di quello sconosciuto che camminava al suo fianco, spalla contro spalla, i respiri condensati in un unico nuvola di vapore.
“Oh guarda, c’è la luna piena”
Jackson alzò gli occhi al cielo. Se ne era completamente dimenticato. Non che fosse un problema per lui, aveva imparato a gestirla, tuttavia ne avvertiva ancora l’influsso. Tranne quella sera, in quella notte fredda per qualche il motivo il suo lupo era calmo, assopito, c’era solo lui, Jackson e quel bellissimo ragazzi dagli occhi neri.
“Oh al diavolo”
Si sporse verso Ethan facendolo arretrare finché non si trovò a sbattere contro il muro. Le sue labbra andarono a cercare quelle dell’altro che erano piegate in un sorriso. Fu un bacio dolce, calmo, senza foga e senza urgenza. Si sentirono percorrere di pura elettricità, le gambe molli, il fiato corto. Si staccarono per guardarsi negli occhi, sorridendo ebeti sotto la luna.
   
 
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