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Autore: luxaar    19/11/2017    0 recensioni
Nella magica e fredda Torino due cuori sono destinati a sciogliersi l’uno per l’altro.
Entrambi l’hanno protetto dalle folate di vento, da ogni intemperia, isolandolo per forse troppo tempo.
C’è Aiace che cerca sempre la via più facile.
Afferma di aver scelto la specialità in Psichiatria solo perché sapeva delle maggiori chances di entrata.
E poi c’è Alice che insegue ogni passione momentanea.
Corre fino allo sfinimento, poi cade sbucciandosi le ginocchia e si chiede se si rialzerà mai.
Ma queste due anime apparentemente così diverse impareranno a capire se stessi specchiandosi negli occhi dell’altro? o vedranno solo un’immagine distorta?
Genere: Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Imprecai un altro paio di volte prima di inserire la chiave nella toppa.

Finalmente.

Ogni muscolo tirava come un dannato, mi sentivo così stanco che l’unica cosa che volevo fare in quel momento era lanciarmi sul letto e non alzarmi almeno fino alla domenica successiva.

Ma ovviamente i miei piani furono ben presto stravolti.

Sospirai pesantemente appena sentii la suoneria del mio cellulare.

Era Marco e una sua chiamata significava una sola cosa: guai, almeno per me.

Pensai di lasciarlo squillare a vuoto, ma poi mi ricordai di quando l’anno prima ero riuscito a collezionare 35 sue chiamate perse in neanche un’ora.

E se non avessi risposto alla trentaseiesima avrebbe sicuramente attraversato mezza Torino –a piedi- e sarebbe diventato il migliore amico del citofono.

Sospirai ancora e decisi che se avessi dovuto sapere di che morte morire almeno l’avrei saputo subito.

“Dimmi Marco” risposi stanco e forzando un po’ il tono estenuato.

“Ho bisogno di un piccolissimo favore” alzai gli occhi al cielo e sorrisi ricordando quante chiamate nel corso degli anni fossero cominciate esattamente allo stesso modo.

“E quando mai?” borbottai sdraiandomi sul divano e decretando che non mi sarei più alzato.

“Ti ricordi di mia sorella piccola, Marta? Ora a dir la verità non è così tanto piccola e ha deciso di trasferirsi qui per la specialistica.” Incominciò a blaterare, iniziando come suo solito a prendere le cose alla lontana, prima di arrivare al nocciolo della questione.

Mugugnai in segno di assenso con gli occhi che mi si chiudevano per la troppa stanchezza.

“Fatto sta che è qui da solo tre giorni e già vuole andare ad una festa. Ti rendi conto? Abbiamo incominciato a litigare e alla fine andrò anch’io e quindi…” si fermò in difficoltà, mentre io iniziavo capire.

“Neanche per sogno: io non esco da questa casa e sicuramente non ti accompagno ad una festa di neodiciottenni esaltati” sbottai.

“Marta ha ventidue anni. Ti prego, sarò in debito con te a vita” incominciò a pregarmi come al solito.

“Lo sei già” gli ricordai.

Marco chiuse vittorioso la chiamata senza neanche salutarmi.

Odiavo questa sua abitudine che mi faceva rimanere ogni santissima volta ancorato per svariati minuti con il cellulare all’orecchio come un cretino.

Sconfitto, decisi di posticipare il piano per la serata che prevedeva due soli elementi: lo studio e il letto.

Più che andare ad una festa sembrava stessi per andare ad incontrare il boia che avrebbe decretato la fine della mia vita.

Presi le chiavi della macchina e seguii le indicazioni che quella canaglia del mio migliore amico mi aveva mandato per messaggio.

Fortunatamente il posto non era lontano da casa e mentre riflettevo su quante pagine di semeiotica dovessi studiare per rientrare nel mio piano di studi, mi ritrovai a suonare al campanello.

Per fortuna fu Marco ad aprirmi.

“Un festino in piena regola, eh?” mi sorrise facendomi entrare mentre io cercavo di capire che trauma infantile potesse mai aver subito che lo avesse portato a eliminare i saluti dal suo vocabolario.

Mi addentrai in uno degli appartamenti affittati a studenti più grandi che avessi mai visto.

Un salone enorme pieno di ragazzini già mezzi ubriachi si apriva subito dopo un’ampia entrata.

Vi erano numerosi divani che tappezzavano tutta la zona, al centro un tavolo pieno di alcolici.

Non potei fare a meno di notare che almeno erano di qualità. Sorrisi: si trattavano bene i ragazzini.

Ad un certo punto Marco si avvicinò a due ragazze che chiacchieravano in un angolo.

Una delle due era la copia spiaccicata del mio migliore amico in versione femminile.

Facevano paura: stessi occhi verdi, capelli scuri e liscissimi, che lei portava lunghi fino alle spalle e identico sorriso sbruffoncello.

“Immagino tu sia Marta” affermai porgendole la mano.

“Tu invece devi essere il santo che sopporta mio fratello!” esclamò lei travolgendomi con la sua voce allegra, mentre Marco incenerendola con lo sguardo affermava: “A me dovrebbero fare santo molto più di lui, dato che sopporto te”.

Nel frattempo l’altra ragazza mi aveva porto la sua mano, sussurrando: “Alice”.

Bionda, ma al tempo stesso iperabbronzata mi sorrideva con uno sguardo provocante che solo una ragazza ben consapevole della propria bellezza può avere.

Striminzita in un minivestito che più che coprire scopriva, capendo bene che tipo di ragazza fosse, risposi velocemente: “Aiace”

Sorrise sardonica e avvicinando le sue labbra al mio orecchio sussurrò: “Attento a non farti rubare le armi”.

Sussultai.

Erano davvero poche le persone che conoscevano le origini del mio nome.

Colpa di quella pazza di mia madre che aveva ben pensato di darmi il nome del più inetto degli eroi greci.

Purtroppo insegnava Letteratura Greca all’università ed era talmente ossessionata dalle tragedie di Sofocle che aveva deciso di rovinarmi l’esistenza ancor prima che potessi nascere.

Già a partire dall’asilo ho dovuto combattere contro le prese in giro e maestre incapaci di pronunciarlo.

Un nome quasi femminile, incompreso anche a me stesso.

Ricordo ancora quando scoprii la storia di questo fantomatico eroe.

“Il più forte tra gli Achei” affermava ogni volta che provavo a chiedere a mia madre il perché mi dovessi sorbire tutte le spinte dei miei compagni per il bimbo con il nome da femmina e l’aspetto da bambolotto.

Perché non bastava il nome, ma mia madre doveva anche vestirmi da principino inglese.

In realtà Aiace era un valoroso eroe greco, secondo soltanto al cugino Achille.

Alla morte di quest’ultimo reclama le sue armi. Ma alla fine sarà Ulisse ad ottenerle. Per questo egli medita vendetta contro coloro che avevano donato ad Ulisse e non a lui le armi. Ma viene accecato dalla dea Atena ed invece di uccidere i responsabili massacra un gregge di pecore. Risvegliatosi capisce cosa aveva appena fatto e insieme alla consapevolezza giunge anche la vergogna, terribile e senza scampo.

Aiace è l’eroe dell’antichità, fedele alle leggi dell’onore, non può piegarsi, è coerente alle proprie azioni, non è versatile come il nuovo modello di eroe: Ulisse.

E l’unico modo per riscattare il proprio onore, l’unica azione che l’antico eroe greco farebbe, è quella del suicidio.

Per questo Aiace si dà alla morte grazie alla spada datogli in dono da Ettore. Questo era il suo destino.

E dalla terra in cui si trova il suo corpo esangue  sorge un fiore rosso che recita “Ai”, come le sue iniziali, ma soprattutto come il dolore degli Achei e del mondo causato dalla sua perdita.

Stranito dal fatto che quella ragazza conoscesse la storia, pensai a quella scintilla presente nei suoi occhi mentre se ne andava verso il lato del salone dove già altre persone avevano incominciato a ballare.

La bionda si scatenava, mentre ingollava uno dopo l’altro diversi bicchieri pieni d’alcool. Sembrava non avere limiti, mentre ancheggiava sensualmente contro la compagna.

Marta la seguiva allegra anche se un po’ in imbarazzo.

“Sono amiche da tanto?” chiesi a Marco, il quale si era completamente estraniato al cellulare.

Sapevo cosa stava guardando. Seguiva in diretta la partita Torino-Pro Vercelli.

“In realtà neanche troppo: sono coinquiline” mi rispose alzando lo sguardo.

“Ma tu? La partita?” esclamò subito dopo.

“Ero troppo stanco dopo gli allenamenti e avevo in programma una serata studio” mormorai, ben consapevole che si sarebbe sentito in colpa.

Annuì.

“Andiamo a bere?” subito dopo mi propose e io lo seguii al tavolo, chiarendo però che non avrei bevuto perché avevo la macchina.

Giunti al tavolo centrale e tentatore, girai il capo e incontrai gli occhi di quella ragazza che tanto stava occupando i miei pensieri.

Continuava a ballare provocante e un ragazzo le si stava strusciando addosso con un’impudicizia tale che mi sentii io imbarazzato per lei. Ma il suo sguardo mi aveva incatenato, sembrava febbrile, famelico, quasi, oserei dire, malato.

Rividi, come in un flash, il video di un paziente in piena fase maniacale che la settimana prima ci aveva fatto vedere il professore.

Un flusso di informazioni arrivò al mio cervello: la disinibizione eccessiva, i comportamenti socialmente inappropriati, il delirio di onnipotenza, il sentirsi pieni di energie, l’aumento del desiderio sessuale, ma soprattutto quello sguardo.

Ricordo esattamente gli occhi dell’uomo: brillavano ma  al tempo stesso sembravano come offuscati.

Ne rimasi talmente impressionato che non feci altro che pensarci per tutto il fine settimana.

“Quando un paziente è in fase maniacale ve ne accorgerete subito: basta guardare i loro occhi” aveva affermato il prof. Famà prima di rispedirci tutti a casa.

Scossi la testa: forse stavo impazzendo a furia dei miei sfiancanti turni da povero specializzando del primo anno in Psichiatria.

Ero diventato paranoico e vedevo disturbi ovunque.

Sorrisi verso quella ragazza vittima delle mie diagnosi e mi avviai al divano per riposarmi almeno un po’.

Dopo neanche mezz’ora di pace in cui ero anche riuscito a sonnecchiare, Marco mi strattonò: “Aiace svegliati, cazzo”

Lo guardai malissimo, ma poi pensai che forse era giunta l’ora di tornarsene a casa e feci un sospiro di sollievo.

“Serve un medico, Cristo, sbrigati” la sua voce era tesa e preoccupata e mentre mormoravo un “Sono solo uno specializzando, per giunta in Psichiatria” lo seguii fino al bagno, gremito di gente.

Sentii dire “Lasciatelo passare: è un medico”  e mi addentrai verso il centro di quel trambusto.

Era Alice e, riversa sulle fredde piastrelle del bagno, sembrava non reagire a nessuno stimolo.

Portai l’indice e il medio al suo polso e notai che era bradicardica.

La presi in braccio e mentre la portavo sul divano sussurrai: “Ma quanto hai bevuto, piccoletta?”.

Chiesi di portarmi una coperta di lana, dello zucchero, del bicarbonato e un po’ d’acqua e cercai di fare ciò che mi avevano insegnato: contrastare l’ipotermia che poteva essere causata dalla vasodilatazione data dall’alcool; evitare l’acidosi metabolica con il bicarbonato; scongiurare l’ipoglicemia con un po’ di zucchero.

Già dopo poco tempo sembrava infatti essersi ristabilita.

Marco e Marta mi osservavano attenti, mentre io usavo un fazzolettino di Spongebob, che Marta aveva recuperato dai meandri della sua borsa, per eliminare il sudore dalla fronte della bionda.

Uscimmo finalmente fuori da quell’appartamento e di fronte alla macchina del mio migliore amico, la mia serata peggiorò ancora un po’, se possibile.

“Senti, perché non la porti a casa tua? Noi non sapremmo cosa fare se si sentisse di nuovo male” bloccai subito Marco. Non ne avevo la minima intenzione: che la portassero all’ospedale, non avrei fatto da badante ad una ragazzina che aveva deciso di giocare con l’alcool per la prima volta.

“Sta bene.” Affermai, guardandolo male.

“Per favore” mi pregò Marta con il labbro tremante e gli occhi lucidi, davvero spaventata per l’amica.

Incominciò a respirare male e a non incamerare aria.

Ancora con la sua amica in braccio mormorai “La porto a casa mia, ma tu respira profondamente, ecco brava” le sussurrai, mentre sconfitto mi appropinquavo alla mia macchina.

Una volta arrivati di fronte al mio palazzo presi nuovamente in braccio la ragazzina e giunto all’ascensore imprecai “Merda”.

 

  
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