Libri > Stephen King, Varie
Segui la storia  |       
Autore: Hi Asija    20/11/2017    0 recensioni
---- I PERSONAGGI SONO QUELLI DI IT RIADATTATI ALL'EPOCA IN CUI E' AMBIENTATA LA STORIA -----
RUSSIA, 1990
Sei neo-adolescenti.
Frequentano la stessa scuola, gli stessi amici e gli stessi luoghi da tempo ormai, si può dire che si conoscono da sempre.
Vivono il periodo più bello della loro vita in una noiosa e monotona cittadina nei pressi della grande e caotica San Pietroburgo, fino a quando, un giorno, un' enorme scritta posta sull'entrata della loro scuola non attira l'attenzione di tutti gli studenti.
"Prevenite i suicidi, ma siete gli stessi che mi chiamano "frocio" e lentamente mi distruggete".
Una vita in un'epoca di disprezzo, odio e rabbia repressa, è abbastanza per salvarne altre milioni in pericolo?
Genere: Avventura, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

~~Prologo;

“Noi abbiamo lottato contro l'apartheid perché soffrivamo e venivamo maledetti per qualcosa riguardo alla quale non potevamo farci niente. È lo stesso per l'omosessualità. L'orientamento è qualcosa che è in noi, non una questione di scelte. Sarebbe folle per qualcuno lo scegliere di essere gay, considerando l'omofobia che esiste.”

- Desmond Tutu


 

Dalle finestre della camera di Ivan non si vede assolutamente nulla, la neve scende troppo violentemente e in modo spropositato per essere solamente l'inizio di Ottobre. Gli uccellini fanno fatica a cantare nello stesso identico modo in cui avevano fatto l'autunno precedente, le foglie sono già cadute tutte e il cielo è di un colore grigio topo. Le macchine passano sfrecciando per quella strada decisamente piccola per essere chiamata "super strada" dagli abitanti di Dukii.
Si ricorda di quando era solamente un bamino di quattro anni, quando per la sua testa gallegiavano solamente pensieri come macchine da corsa e cavalli. Equini dalla lunga criniera bianca e lucida, soffice come le guance di quello che era lui a quell’età. Probabilmente la più bella, pensava Ivan. Quando non aveva nessun problema, i compiti in classe non erano la sua unica preoccupazione, insieme agli sguardi dei suoi compagni puntati sulle sue imperfezioni, puntati sulla sua persona.
Ogni tanto pensava di essere semplicemente in una stupida fase adolescenziale che lo faceva sentire così inerme alle parole e alle pupille dei suoi coetanei, un qualcosa che lo faceva sentire dannatamente fragile e debole nei confronti qualsiasi cosa fosse poco più grande di lui, anche pochi centimetri o millimetri agli occhi di Ivan potevano risultare un enorme muro inscalabile anche dal più bravo scalatore di tutta l’America: la montagna più grande del mondo non sarebbe mai potuta venir comparata alle interrogazioni di matematica o alle lezioni di educazioni fisica che doveva subire per due ore ogni mercoledì e venerdì con la professoressa Makarov. E anche lei, in confronto a Ivan, sembrava così grande, possente, furba e altre svariatre righe di aggettivi enormi che ora non ricordo, ma che probabilmente Ivan avrebbe ricordato per il resto dei suoi giorni. Non era così grande, in realtà; i suoi centosessanta centimetri erano veramente scarsi per la media nazionale russa femminile, ma bastavano a Ivan per sentirsi una nullità in confronto a lei, alle sue parole che uscivano così viscide e luride dalla sua bocca coperta da lucidalabbra che aveva il compito di coprire le imperfezioni di due labbra secche e ruvide di una neo-sessantenne, ma che invece la rendevano solo ridicola agli occhi degli alunni che puntualmente allenava due volte alla settimana da ormai anni.
Hai mai pensasto che se continui ad essere così lento, così fifone anche di una palla lanciata da un tuo amico, probabilmente non crescerai mai? Cresci, Ivan Billvic Denburv.
E quando lo chiamava con il suo patonimico era davvero la fine: solo i suoi amici lo chiamavano “Bill”, e lei non era una sua amica. Bill odiava così tanto quella donna, che spesso sentiva quasi il bisogno di prenderla per il collo e strozzarla: far si che l’aria smettesse di attraversare il canale dei suoi polmoni affatticati a causa del suo evidente sovrappeso.
Ma non lo aveva mai fatto: non aveva fatto altro che limitarsi ad annuire ogni volta che lei diceva qualcosa, anche di davvero cattivo o evitabile nei confronti di Bill, e a scusarsi con un tono di voce spezzato e balbettante.
Bill balbettava da anni ormai, non lo faceva dalla nascita, ma probabilmente era un problema che era riaffiorato con l’inizio delle scuole medie qualche anno prima, nel 1987. Specialisti credono che la balbuzia si impadroni di un soggetto che ha subito forti traumi nel corso del tempo, ma che se ne possa liberare superando il trauma. Gli specialisti, ma non la madre di Bill, la quale era fermamente convinta che suo figlio fosse costretto a vivere il resto dei suoi giorni con quel dannato difetto così imbarazzante che le faceva fare brutte figure con le sue amiche a balli che frequentava ogni sabato sera, nella vicina San Pietroburgo, la città degli amanti, e non dei perdenti come Bill.
Ma quei pensieri venogno interrotti per un attimo dal muggito vicino di alcune mucche che  pascolano nel prato quasi completamente ghiacciato affianco alla casa del ragazzo dai capelli biondi e dagli occhi azzurri.
Bill tossisce e improvvisamente la sua gola punge, il suo naso cola e si chiede come mai la malattia lo deve sempre prendere prima del dovuto. Il raffreddore era una costante caratteristica di Ivan Bill Denburv, i suoi amici lo chiamavano "smoccicone", perché era raffreddato anche in estate.
L’estate, forse una delle cose che gli mancava di più delle scuole elementari, insieme ai cavalli e alle macchine che vedeva la domenica mattina passare per la strada che portava a San Pietroburgo. A Dukii, l'estate faceva fatica da anni ormai a bagnare le piccole e vuote strade della cittadina. Non arrivava da così tanto tempo che l'ultimo ricordo del sole caldo e confortevole era di un decisamente caldo e afoso luglio di qualche anno prima, nella cittadina a due bassi da Dukii, l’unuica cittadina che avesse qualcosa di simile ad un lago, in cui i ragazzini si trovvano durante la stagione estiva per fare il bagno e godersi l’acqua sulla loro pelle bianca e abituata alla neve. Bill e il fratellino Georgi giocavano al lago insieme al resto del gruppo. Un normale pomeriggio tra amici, nessun segreto, nessuna preoccupazione, solo divertimento e acqua.
In realtà, il ricordo più chiaro di quella giornata era la caduta di Stan dalla loro "barca"; una zattera fatta di legnetti troppo deboli per sostenere tutto il loro peso e un paio di elastici e foglie. L’idea era stata di Ryurik Toszver, quella di creare una sottospecie di barca che li avrebbe potuti portare da una sponda all’altra del bacino artificiale senza fare troppa fatica.
Bill sorrise a quel pensiero, sentendo un forte brivido per tutta la schiena che gli ricordava di quell’estate insieme ai suoi amici.

«Bill, sei pronto?» chiese Georgi mentre cercava in modo poco ordinato di indossare il suo piccolo cappotto giallo acceso.

Bill sorrise, ancora incantato nel guardare attraverso la finestra di vetro ghiacciato, come negli anni la sua cittadina sia cambiata. Un’altra folata di vento freddo invade il suo corpo, ma Bill sapeva che non c’era nessuna turbolenza in casa sua, se non la massa concreta di freddi e lontani ricordi che si abbatteva sul suo corpo e sulla sua anima in quell’esatto momento. Si voltò verso il fratellino, ridendo un po' della sua lite con il cappotto. «Io sì, t-tu?»

Georgi annuì, sistemandosi l'indumento e facendo un enorme sorriso al fratello più grande. Relativamente non si assomigliavano molto, ma il sorriso era lo stesso: identico a quello del padre. «Mai stato più pronto», disse infine.

Bill si concesse un ultimo attimo a fissare la flora appassita nel suo giardino, pensando a come sarebbe potuta essere, quella volta, la nuova estate che sarebbe arrivata ad inebriare la cittadina fredda della contea di Oblvast in qualche mese. Il suo sguardo s posò sulle foglie morte immerse alla notevole quantità di neve che ancora cadeva dal ciel grigio e inespressivo, fino a quando non si accorse di un altro sguardo puntato nel suo: esattamente come quello dei suoi compagni di classe durante le lezioni di educazione fisica e durante le interrogazioni di matematica. Era lo sguardo dell’ebreo e misterioso Stan che, posto nel suo innevato giardino, sfiorava lentamente e delicatamente con le dita della mano sinistra la fredda e solida neve caduta proprio quella gelida e lunga notte, come se volesse evitare di farle del male: come se quei solidi fiocchi di neve uniti come dei soldati prima di una guerra, potessero sentire del dolore.

Poi, anche Stan si accorse degli occhi dell'amico puntati sui suoi. Si spostò un po’imbarazzato dalla massa di neve posta affianco alla fontanela del padre di Bill, intascò un mazzetto di neve e lo lanciò sulla finestra dell'amico. Bill fece fnta di schivarlo, ridendo, ma in realtà aveva avuto paura: paura che magari, in quel momento, il vetro isolante della finestra sarebbe potuto diventare acqua o qualcosa che avrebbe potuto far passare quella neve attraverso di esso, così colpendo il ragazzo.
Lo guardò negli occhi, poi abbassò lo sguardo. Stan era arrivato.

Stan era solamente il soprannome di un nome che non sopportava sentire: il suo. Stanislav Uris era un quattordicenne che odiava quasi ogni cosa della sua persona: a partire dal nome, passando per l'aspetto e concludendo con le sue origini.
Stanislav: il fatto che fosse un nome di origine slava non diceva proprio nulla di lui: il suo vero nome  era Simon, ma da quando i suoi avi si erano dovuti trasferire in Russia a causa delle persecuzioni da parte dei nazisti, tutto era cambiato. I suoi nonni erano stati salvati solamente grazie alla bontà di un finto funzionario dell’armata spagnola, che durante la seconda guerra mondiale li aveva nascosti nelle case protette della allora distrutta e inerme Budapest, ospitatrice di numerosi atti impensabili compiuti nei confronti della comunità degli avi di Stan. Erano rimasti nascosti là dentro, fino a quando quel giovane in realtà italiano, dopo l'entrata a Budapest dell'Armata Rossa, dovette abbandonare il suo ruolo di diplomatico spagnolo, in quanto filo-fascista e perciò ricercato dai sovietici. Li spedì dritti in una casa protetta nella sperduta e cupa Dukii: più distrutta e inerme di Budapest, nonostante fosse neutrale alla guerra.
Erano infine cresciuti lì, creando una famiglia, crescendo un bambino che sarebbe diventato in seguito il rabbino della piccola comunità ebrea di Dukii e che a sua volta avrebbe avuto un figlio come lui: Stanislav, o meglio Stan. Il ragazzo che sarebbe dovuto "eccellere nella gloria".
Un nome così inutile che non diceva nemmeno la verità su di lui, che non sarebbe mai eccelso in gloria, perché non sapeva nemmeno leggere la Torah.
Non era brutto, aveva i classici tratti da ebreo scampato per grazia divina alle mani sanguinolente dei nazisti: naso all’insù, la pelle olivastra e dei ricci, morbidi e chiari capelli che toccavano le sue spalle a malapena. Delle gambe affusolate che lo rendevano il più alto del suo gruppo, eppure, quando si guardava allo specchio, vedeva solamente quello che non avrebbe mai voluto vedere riflesso nel vetro: Stanislav Uris, quel quattordicenne di Dukii, con quel cognome da ebreo, falso dalla testa ai piedi.
Probabilmente la cosa che odiava di più, la cosa che faceva si che si disprezzasse così tanto, era l'appartenere ad una comunità così singolare. E non era figo, come pensava quel burlobne di Ryurik: era straziante e logorante, perché non poteva essere se stesso, sbagliare, fare le cose che facevano i suoi amici.
Sentiva continuaente gli occhi dei suoi genitori, dei suoni nonni, di Yahweh puntati come riflettori continuamente accesi su ogni sua minima azione, sbagliata o giusta. E quante volte lo avevano scoperto proprio perché lo guardavano sempre, anche se non c’erano. Quante volte avevano rovinato gli unici momenti in cui Stan poteva essere libero di essere meno falso del solito.
Come quell’estate del 1987, quel quattro luglio così afoso e allo stesso tempo fresco, come una folata di vento, come quella che aveva sentito quella mattina Bill.
Una folata di vento che quel 4 luglio aveva portato un cambiamento per la comunità di Stan: Klaus Barbie, l'ex ufficiale nazista soprannominato il boia di Lione, era stato condannato all'ergastolo per crimini contro l'umanità.
Stan sarebbe dovuto ritornare a casa alle undici precise di quella mattina, ma alle quattro e un quarto del pomeriggio, si trovava ancora in quella cava artificiale insieme a quelli che i suoi genitori reputavano i suoi amici “comunisti alleati con Hitler”.
Ma Stan era tutto il contrario di quello che i suoi genitori avevano sperato per tanti anni di ottenere come figlio. Stan era silenzioso, furbo. Ascoltava sempre tutto, ma non metteva mai in pratica. Era testardo, menefreghista e cinico, ma se c'era una cosa che però aveva imparato ascoltando la sua religione, era che "si nasce con la tendenza a fare sia il bene che il male". E lui lo aveva fatto già troppe volte, e quel giorno al lago, lo aveva fatto ancora.
Era per l’appunto il 1987, i ragazzini più fortunati potevano inebriuare le loro orecchie con Crazy Nights, l’ultimo capolavoro dei Kiss, che solamente chi era abbastanza furbo da rubarlo agli stranieri poteva ascoltarlo.
Mentre i ragazzi cercavano di guidare dall’altra parte della cava quella barchetta ideata dalla mente infantile di Ryurik, per tutta la baia aveva riecheggiato insieme a I'll Fight Hell to Hold You, l’urlo furioso e ricco di rabbia della signora Uris. Stan aveva smesso di remare, di cantare quella canzone, di respirare. Aveva abbassato lo sguardo ed era caduto nell’acqua troppo gelida per essere la temperatura standard di quel luglio.
Per chiunque, quell'esperienza sarebbe stata imbarazzante e umiliante, ma Stan non aveva detto nulla: aveva nuotato fino alla spiaggia e se n'era andato, lasciando lì, sulla sabbia i suoi vestiti nuovi. Vestiti che i suoi genitori avevano pagato con i soldi che avevano tenuto per comprare l’abito adatto per l’evento che avrebbe reso Stan un vero yuomo: il suo Bar Mitzvah, e non sembrare grande agli occhi dei suoi amici.
Non aveva proferito parola, si era asciugato un po’, poi aveva seguito i suoi genitori. Aveva sussurrato un “vi odio” strozzato, ma poi aveva sorriso.
 I ragazzi avevano riso benevolmente di lui, come qualsiasi altro undicenne avrebbe fatto. Tutti tranne Bella. Lei aveva solamente guardato l’amico andarsene, e si era sentita in colpa, perché era stata proprio lei a convincerlo a restare con loro, invece di andare a festeggiare con la comunità la carcerazione del nazista.
Lo stesso senso di colpa che continuava a sentire la ragazza che si stava avvicinando a Stan, che con i capelli rossi e gli occhi azzurri puntati verso la neve che sporcava le sue scarpe, cercava di nascondersi da quel peccato che si poteva ancora annusare nell’aria fredda e tagliente a causa del vento.

«Ciao, B-Bella», le sorrise Bill, che seguito dal fratellino aveva raggiunto i ragazzi, e che come tutte le mattine di scuola, avrebbe aspettato il resto del gruppo nel suo giardino, per andare, come tutte le mattine scolastiche, a scuola insieme.
Bella non rispose, nemmeno Stan osò farlo, guardarono semplicemente in basso e respirarono quell’aria fredda. Georgi starnutì, poi cominciò a giocare con la neve.
Bill guardò ambedue i ragazzi, poi cercò di inventare qualcosa. “Uhm, sta-sta sera avevo p-pensato che a-a-avremmo potuto guardare S-S-S...”cercò di dire Bill, poi prese un respiro profondo. Erano solo Stan e Bella, infondo. “Star Wars, il R-ritorno dello Jedi, p-però. Io e E-Eds siamo riusciti a sfilarlo al signor B-Brink...”
I ragazzi avevano annuito, ma solo Stan aveva risposto con una semplice annuita con il capo coperto da un cappello di lana che lop faceva sembrare più piccolo di un quattordicenne.
Bella continuò a guardare a terra, senza proferire parola.
L'infanzia di Bella Lukin è stata un inferno, e ormai qualsiasi cosa la distruggeva o la spaventava. Nessun cartone animato, e non a causa della censura la quale Bill aveva citato poco prima, ma per una scelta di suo padre.
Bella aveva una famiglia problematica: suo padre aveva perso il lavoro.
Sasha Lukin era stato un cecchino, uno dei più bravi di tutta l’Unione Sovietica. A caratterizzarlo erano una mira precisa e il fatto che non sbagliasse mai nessun colpo. Con il tempo, la crisi e la scarsità di posti di lavoro, era diventato più simile ad un sicario che a un cecchino. Era nata Bella, e tutto era rovinato. Sasha Lukin non era un tipo che  a ventisei anni era pronto a fare il padre, a cambiare pannolini e cose così. Sasha Lukin era pronto a sparare, fare fuori qualcuno, sentire quel brivido di aria fredda, vento ghiacciato percorrere tutta la sua spina dorsale fino ad arrivare alla testa, al cranio, fino a quando non avrebbe sentito quella sensazione nel suo cervello: un’orgasmo sadico e masochista.
Ma con il passare del tempo, tutta quell’adrenalina era finita, quella sensazione non la sentiva più, a causa della bambina che aveva fatto nascere insieme a Alana Smithson, un’inglese intelligente e furba che aveva tentato di uccidere in seguito Sasha per sfilargli dalle mani sporche di sangue e di peccati quella che era la sua eredità che faceva traboccare soldi e banconote dal bordo della vasca in cui era contenuta.
Alana Smithson amava Bella, ma amava anche il suo lavoro, e il fatto che una donna potesse avere quel tipo di lavoro durante l’Unione Sovietica significava davvero tanto per lei. La maggioranza della popolazione lavoratrice femminile era "intrappolata” nei settori a basso salario, medicina, istruzione. Il principio della stessa paga per lo stesso lavoro era contemplato dalla costituzione: c’erano troppe differenze, la donna era un piedistallo più in basso dell’uomo, il quale abbondava le posizioni lavorative più importanti e dominanava tra quelle ben pagate, le quali erano ESCLUSAIVAMENTE per il sesso maschile. Succedeva così che in media il salario di un uomo è maggiore di quello di una donna, e tale divario sembra addirittura crescere col tempo.
Ma Alana Smithson insegnava tedesco in una delle università più importanti di tutta la Russia, e tutto ciò serviva.
L’immagine di una donna alpotere distruggeva psicologicamente Sasha Lukin, il quale si era sfogato per quattordici anni sulla povera e piccola Bella.
Ah, Bella Lukin. L’unica ragazza del gruppo, rossa come il fuoco, con gli  ochhi azzurri e le lentiggini che spaziano su tutto il suo volto candido e pallido, simile al colore del latte delle mucche che pascolano nella fattoria posta a pochi mettri dall’abitazione di Bill. Quella Bella piuttosto attraente e silenziosa. Era la penultima matricola del gruppo. Ne era entrata a farne parte poche settimane prima dell’avvenuto alla cava, quell’estate del 1987. Non perché non si conoscessero, sia chiaro, perché quella rossa così bella la vedevano tutti i giorni a scuola, ma semplicemente perché non avevano mai preso in considerazione il fatto di far entrare nel loro gruppo una “Wonder Woman”, come l’aveva definita Ryurik. L’unico membro del gruppo che ancora esitava a pensare in modo convinto e concreto a Bella come una componente ufficiale del “club dei perdenti”. Bella viveva nella parte più povera e vuotya di Dukii, n una casa fredda e fatta di legno che ricorda un po’ lo stile siberiano. Vi erano bandiere inglesi e tedesche poste all’esterno della dimora, e forse il fatto che fosse in un angolo remoto del paesino faceva sì che non venisse messa a fuoco dai comunisti estremisti che caratterizzavano la zona di San Pietroburgo in quegli anni. Quello che succedeva all’infuori di quella casa non era nemmeno così triste: Bella giocava a tiro con l’arco, aveva una mira infallibile che aveva erweditato dal padre.
Bella Lukin, la rossa. Quella con i capelli da puttana.
Ma quello che succedeva all’interno di quelle mura era inenarrabile. Urla, pianti e voci straziate provenivano da quella casa miracolamente ancora in piedi.
Urla come quelle che Bella sentiva in quel momento, ma che in realtà erano solamente le urla di Ryurik Toszev, accompagnato al su fianco dal resto dei perdenti: Edvard Kaspbrav e Benjamin Hanscomovski.
“Terra chiama Bella Lukin, mi riceve o è troppo impegnata a pensare a...” tentò di dire Ryurik,urlando e venendo fermato dalla gomitata di Edvard. Ci fu uno scambio di sguardi tra i due: quello di Edvard era sconsolato, mentre quello di Ryurik era divertito e irrequieto. “Che ho detto?”chiese Ry, ridacchiando e sistemandosi gli occhiali, quegli occhiali così grandi e spessi che facevano sembrare i suoi occhi spropositatamente non in proporzione con ilresto del suo viso. I suoi ricci e lunghi capelli ondeggiavano nell’aria fredda.
Ryurik Tosziev, ci sarebbe talmente tanto da dire sul suo conto che forse tutte le pagine di questo libro non basterebbero. Conosciuto anche come Richie o semplicemente Ry, era il membro più irrequieto del gruppo. Aveva quella spiccata capacità, però, di far ridere tutti in qualche modo. Non arrivava mai ad essere così tanto crudele, cattivo e crudo cpn quello che diceva o intendeva dire con  le sue battute pessime e evitabli.
Non andava bene a scuola, non perché non ne avesse le capacità, ma perché non sentiva il bisogno di essere bravo in qualcosa: sapeva far ridere le persone e gli bastava quello.
Prendendo in considerazione la persona di ognuno di loro, probabilmente Ryurik Tosziev risulterebbe il più debole, il più vulnerabile nonostante la sua corazza forte come quella di una Tartaruga. Spesso non andava a scuola, per la paura di incontrare le persone che rendavano la sua permanenza in  quell’edificio una vera schifezza: Erik e Viktor Zaslavski, i figli del “datore” di lavoro di suo padre. In seguito ad una crisi generale creata dal regime della presidenza di Michail Sergeevič Gorbačëv, il padre di Richie aveva perso il lavoro, e l’unica cosa che gli era rimasta era coltivare i campi dell’antagonista della sua adolscienza, Sergeey Zaslavski, un agricoltore che esportava le sue coltivazioni in tutto il Sud America e negli Stati Uniti. Come per destino, leggenda e tradizione, i figli di Zaslavski erano diventati i nemici di Ricghie, e tra padre e figlio, l’umiliazione era salita alle stelle negli ultimi mesi.
E il fatto che Richie non chiudesse mai la bocca, facendo spesso battute e scherzi in ogni situazione non si fermava nemmeno davanti ai due gemelli Zaslavski che spesso cercavano di picchiarlo e che più volte riuscivano a procurargli un occhio nero e un’ulteriore umiliazione davanti al gruppo dei perdenti. Nonostante potesse sembrare menefreghista e insolente, probabilmente era l’anima del loro gruppo. Aveva instaurato in particolare un rapporto con Edvard Kaspbrav, che lui chiamava amichevolmente Eds, ma senza l’appoggio del diretto interessato, il quale preferiva essere solamente Eddie.
Bill balbettò qualcosa, seguito da uno sbadiglio di Stan. “In ogni caso”, disse, tossendo, così attirando l’attenzione della rossa. Bella alzò finalmente lo sguardo, il quale mostrava un livido sulla guancia sinistra, in linea d’aria con lo zigomo ricoperto di lentiggini. I ragazzi sembrarono non accorgersene, mentre Stan la guardò con un’espressione sconcertata, insieme ad un alzata di sopraccoglio. Lei scosse la testa, come se volesse dire Non importa, lui può farlo. Continua a parlare, Stanislav Uris. Fallo, perché i tuoi simili non lo hanno potuto fare negli anni quaranta.
Bill prese fiato. “Io avevo p-pensato chesta sera avremmo potuto v-vedere Star Wars a c-casa mia, se vi va”, disse. “Io e Ry s-siamo riusc-sciti a sfilare Il Ritor-torno dello Jedi al professore, e ab-abbiamo aspettato per guardarlo tutti insieme.”
Georgi rise. “Lo hai già detto, buco.”
Bill annuì. “Lo- lo so, Georgi.”
“Io non posso.”
L’affermazione di Eddie aveva attratto l’attenzione di tutti, compresa quella di Bella, che ora non temeva più che i ragazzi si accorgessero del suo livido poco femminile.
“Perché?”chiese Benjamin all’amico.
“Perché a mia madre potrebbe venire un attacco di panico se scoprisse che sto guardando un film vietato dalla censura e che  Richie ha soprattutto rubato al professore. Mia madre potrebbe pensare che Star Wars è il nome di qualche film pornografico americano che parla di accoppiamenti fra alieni in qualche galassia in cui tutto è poco igenico e...”non continuò, strasse il suo inalatore dalla tasca esterna del suo zaino, mise in bocca la cannuccia e premette il grilletto. Un sapore di liquirizia si era diffuso nella sua gola, la quale stava riportando l’ossigeno ai polmoni di Eddie.
Ry tossì, avvicinandosi al ragazzo. “Forse potrebbe pensarlo perché ha visto la mia sbarra spaiatrice...”
Bill lo guardò disprezzante. “Beep beep, Richie.”
Eddie estrasse l’inalatore dalla sua gola, poi prese un respiro profondo. Anche questa volta, l’asma e l’ansia non lo avevano portato via. Un altron giorno con Lei era cominciato.
Edvard Kaspbrav era il più piccolo del gruppo: un tredicenne ipocondriaco, fragile e asmatico, che portava sempre con se’ il proprio inalatore. Credva fermamente che l’asma fosse la sua nemica, mentre l’inalatore il suo amico, la sua arma contro il resto.
In realtà Edvard aveva svariati amici, anche fuori dal gruppo di perdenti, ma non se ne rendeva conto. Lo vedevi e sembrava un normalissimo ragazzino, ma in realtà era più limitato degli altri:costretto dalla madre a rimanere chiuso in casa i giorni di neve più forti, mentre i suoi amici uscivano a divertirsi e a fare pupazzi che più gli assomigliavano. Probabilmente, se Eddie avesse creato un pupazzo a sua immagine e somiglianza, al posto di un ramo piegato in modo che formasse la bocca, avrebbe messo il suo inalatore. Quello era ciò che lo descriveva e caratterizzava al meglio.
Sua madre, Myra Kasprav era una viziatrice di prima categoria, che a volte superava il limite dell’accettabile e faceva diventare giorno dopo giorno il figlio più debole e instabile. Le sue paure erano troppe e con il passare del tempo diventavano dei veri e propri incubi dei quali era convinto si sarebbero avverati quando avrebbe varcato la soglia di casa sua: la sua fortezza, dove sua madre lo proteggeva.
Solo una volta si era imposto contro di lei.
Era l’autunno del 1989, il muro di Berlino era appena crollato e nelle sale ancora aperte e inermi alla censura davano A Spasso Con Daisy, con Morgan Freeman. Inutile dire che Freeman era un idolo per Eddie e un’ispirazione per Ryurik, il quale aspirava un giorno a diventare un attore del suo calibro.
Pochi giorni prima i fratelli Zaslavski si erano presi gioco della fragilità di Eddie, e gli avevano accidentalmente rotto il braccio. Ed accidentalmente, Myra Kasprav aveva dato colpa a quello che lei reputava il mostro della vita di suo figlio; Ryurik Toszev. Non l’asma.
La realtà era che Richie aveva solamente accompagnato Eddie all’ospedale, e mai aveva sfiorato il figlio della signora Kasprav.
“Ti porto da quei cazzoni che ti rimettono apposto il braccio”, aveva detto Richie.
Eddie aveva esitato. “Non osare toccarmi!”
Ma ormai lo stava già facendo accomdare dietro di lui, sulla bici troppo vecchia e distrutta per venire usata ancora, targata “Toszev”.
Il pomeriggio del cinema, Myra aveva rifiutato categoricamente di mandare suo figlio al cinema con quel mostro di Ry. E per la prima volta, Edvard aveva realizzato che il problema di sua madre era ad un livello psicosomatico. Aveva preso la porta, aveva guardato negli occhi Myra e aveva sussurrato “solo stronzate”.
“Dico solo le cose come stanno, Tartaglia. Piuttosto, questo rebenok deve venire con noi?” chiese Ry, indicando Georgi, il quale lo guardò storto.
Bill Tartaglia scosse la testa. “N-no, devo solo accompagnarlo a s-scuola. È pochhi metri pr-prima della nostra, Ri-Richie..”
Ben scosse la testa. “Cosa significa rebenok?”chiese infine.
Bella rise, poi abbassò lo sguardo quando si accorse che quello di Ben si era spostato su di lei. “Rebenok è un modo scherzoso per dire bambino, infante...”spiegò.
Ben annuì. “Nei confronti di Georgi sembrava quasi offensivo.”
“Qualsiasi parola proferita da Ry sembra o nella maggiore dei casi è offensiva”, commentò Eddie.
“Oh! Stattene zitto, Eds.”
“Ti ho detto di non chiamarmi Eds, Ryurik.”
“E io che non devi rivolgerti a Toszev con questo tono.”
Ben rideva, i suoi nuovi amici gli piacevano: erano sicuramente migliori di quelli che aveva a Monaco, che lo prendevano in giro per la sua forma fisica.
Benjamin Hanscomovskiera un quattordicenne tedesco di origini ucraine, l’ultimo arrivato e il più serio del gruppo.
Sin dal primo giorno è stato soprannominato “Ben” da Richie, che lo reputava simile a Ben Stiller. La realtà era che Ben era timido, introverso e intelligente come il personaggio di Ben Stiller in quasi tutti i suoi film. Ed aveva proprio ragione: Ben era un ragazzo altamente astuto e dotato di mente molto attiva.
Prima di conoscere i ragazzi, venica presodi mira dagli stessi Zaslavski e passava la maggior parte del suo tempo libero in biblioteca a studiare come la Federazione Russa negli ultimi anni avesse subito migliaia d cambiamenti di regime, presidente e Costitutizione.
Ben era ostacolato, però, dalla sua obesità, che lo rendeva la vittima favorita degli Zaslavski insieme a Richie. Ben aveva anche una spiccata dote per la crazione di ingegni utili a difendere se stesso e gli altri, per questo lo chiamavano anche “big body little heart”, anche se in realtà aveva tutt’altro che un corpo minuto.
Suo padre aveva una carrozzeria abbastanza fruttante nella periferia di San Pietroburgo, e spesso l’aiuto di Ben era ben accetto.
Sua madre, invece, era un’attrice trasferitasi negli USA quando Ben era solamente un bambino di sei anni, e probabilmente, come pensavano i medici, il problema dlla sua obesità compulsiva, era proprio il trauma passato con la separazione da sua madre, che ormai era ricca e rifiutava categoricamente di vedere il figlio e chiamarlo tale.
Ben ci ripensò. “Rebenok”ripetè sottovoce. “Lo dovrei insegnare a papà.”
Eddie guardò l’orologio posto sul suo polso destro. Le 7.55. “Ragazzi, sono le otto meno cinque, io non voglio oprendermi un’altra sgridata per colpa vostra, forse è meglio se ci muoviamo perché...”
“Perché sennò verrà un attacco di panico a te e a tua madre”, disse Richie.
Eddie annuì. “Esatto, quindi andiamo.”
E così fecero, quei sette ragazzi che si allontaavano da quella che probabilment Eddie avrebbe chiamato la fortezza di Bill Tartaglia, lasciando i genitori a casa e portando el loro preoccupazioni nella tasca sinistra del loro cappotto, una tasca della misura di una tartaruga d’acqua domestica, ma che poteva contere così tanto, così tanti problemi che si faceva fatica a credere potessero appartenere a degli adolescenti che vivevano la loro adolscenza in un paesino dell’Unione Sovietica.
Se qualcuno li avesse guardati dall’alto, probabilmente avrebbe pensato che branco di perdenti .
Stanislav Uris con quel naso e cognome da ebreo;
Ivan Bill Denburv che a parte "Georgi" non sapeva dire niente senza balbettare;
Bella Lukin con i suoi lividi e quei capelli da puttana;
Benjamin Hanscomovski, così grosso da sembrare un mappamondo;
Ryurik Toszev, con quei tappi di bottiglia che aveva per occhiali e i suoi voti più bassi di Smigol, la sua bocca mai chiusa e un velo di mistero sul perché di essa;
Ed Edvard Kasbrav con l’altezza da elfo, l’inalatore perennemnte in bocca e la paura del mondo.
 C'era una parola per definirli? Oh sì. C'è sempre una parola. Nel loro caso era perdenti. O amanti. Amanti in una città perfida, amanti in un mondo perfido, un modno che ti imponeva di essere un perdente, perché  non ti faceva conoscere la sua interità.
“Va bene, Georgi”, disse Bill, fermandosi davanti alla scuola del fratellino e vedendo la sua in lontananza. “Ti vengo a riprendere alle 15 in punto, okay? Il Mostro di Rostov è a San Pietroburgo, ieri era all’ortobotanico. Non farti prendere da nessuno, non farti prendere dagli stupidi. Perché noi non siamo...?” chiese Bill.
Georgi rise. “Noi non siamo stupidi!”
Rise anche Bill, abbracciando il fratellino. Ed era vero, il Mostro di Rostov era proprio dietro l’angolo, ma non poteva dirlo a Georgi. Non poteva dirgli che a pochi chilometri dalla loro casa, una prostituta, era stata uccisa e che Il Mostro le aveva reciso la  lingua i seni, e li aveva portati con sé.
Georgi entrò a scuola, Bill non distolse lo sguardo fino a quando non vide la porta chiudersi dietro le spalle del fratellino.
“Però adesso il Mostro ha un paio di tette da portarsi appresso, è un eroe nazionale”, commentò Richie.
“Ryurik...” rise Stan. Anche Edvard rise.
E risero fino a quando lo sguardo di Benjamin non incontrò malevolmente uno striscione di tessuto bianco che circondava gran parte dell’istituto di Dukii.
Le gambe di Ryurik, che fino a pochi minuti prima stava facendo svariati commenti fuori luogo e aveva cercato di evitare di farsi vedere dai fratelli Zaslavski, un po’come la maggior parte del gruppo, si erano fermate e tremavano un po’.
Stanislav aveva lo sguardo puntato in alto, guardava attentamente la figura che lggadra si  muoveva sull’edificio.
Bella non era da meno, guardava sconcertata Stan al suo fianco, pensava che quello era lo stesso sguardo, la stessa espressione che aveva quando era caduto dalla zattera ed era tornato nella comunità, l’estate del 1987.
Edvard respirava a malapena, aveva una mano posata sulla spalla di Richie e tentennava sul prendere il suo inalatore e premere il grilletto ancora una volta in così poco tempo. “Oh, cielo...”
“Lo sta toccando, Eds”, gli aveva risposto Richie, che si era spostato dall’amico.
Bill guardava assente il ragazzo, deglutiva, cercava diurlare, ma nulla usciva dalla sua bocca. Ed era peggio delle interrogazioni di matematica o delle ore con la professoressa Makarov. “J...”tentava di dire.
“Jackson Miletov”completò Ben.
Lo stesso brivido attraversò la schiena dei ragazzi, sfiorando la loro testa. Da uno stereo, della musica veniva riprodotta. Della musica censurata, ma che tutti conoscevano nonostante le barriere: Don’t Stop Me Now, dei Queen.
“Tonight I'm gonna have myself a real good time
I feel alive and the world I'll turn it inside out - yeah
And floating around in ecstasy
So don't stop me now don't stop me
'Cause I'm having a good time, having a good time.”
Recitava una parte di ciò che era scritto con una bomboletta di spry nero sulla stoffa bianca post sulla scuola.
“Prevenite i suicidi”aveva letto incertamente Richie, sistemandosi gli occhiali e cercando di mettere a fuoco a causa della sua miopia.
Bill aveva sospirato, spaventato. "Ma siete gli stessi.”
“Che mi chiamano "frocio"”, continuò Eddie.
 “E lentamente”lesse Bella.
“Mi state”sussurrò Stan
 “Distruggendo”, concluse Ben.
E cominciò il ritornello della canzone, alcuni cantavano, cantavano innocentemente, perché forse non avevano idea di cosa fare in quel momento, cantavano perché forse, se Jackson Miletov in quel momento stava cadendo dal tetto dell’edifico che tanto faceva dannare i perdenti, lo stava facendo perché davvero lo voleva. Si stava divertendo, stava galleggiando nell’euforia del momento, e quindi, nessuno lo avrebbe fermato.  

  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Stephen King, Varie / Vai alla pagina dell'autore: Hi Asija