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Autore: Uudenkuu    20/11/2017    2 recensioni
Un breve racconto di una fenice, di una morte e di una rinascita dalle ceneri.
“Devo proprio dirtelo, la tua musica mi ha cambiato la vita. Non esagero, dico sul serio. La mia vita era senza uno scopo, sai,” e Yoongi non capì il motivo di quel bisogno d’aprirsi così tanto perciò strizzò le labbra fini in una smorfia di disappunto, “Ma l’ho trovato. La tua musica me lo ha fatto trovare. Ci credi? Che ho capito di non poter fare l’avvocato? Devi credermi. Sono Park Jimin.”
“Min Yoongi.”
Un barlume di speranza invase le iridi languide del più piccolo.
“Ho trovato un senso, Min Yoongi!”
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Min Yoongi/ Suga, Park Jimin
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Before the show
Part 2

Il tintinnio di una tazzina di ceramica sporca di rossetto e col fondo macchiato di caffè si unì a quella di una seconda tazza, più grande, con residui di cioccolato ancora incrostati ad anello sul bordo spesso. La lavastoviglie venne chiusa da un calcio distratto, un po’ annoiato, e fu seguito dalle urla di un vocione maturo che tuonava, per l’ennesima volta, di fare più attenzione. I mormorii accesi di giovani studenti e le conversazioni filtrate da cellulari di uomini d’affari ronzavano senza sosta fra le quattro mura del piccolo bar della tredicesima. Yoongi sospirò rumorosamente, lisciandosi la maglia bianca della divisa sul ventre magro, e tentò di biascicare delle scuse.  

“Ripetimi ancora di chi è stata l’idea.”

“Tua. Perlomeno quella delle scuole. Peccato che due anni fa eri troppo piccolo per considerare la nostra povertà come parte integrante del patto.”

La voce allegra di Jimin risuonò proprio alle spalle dell’amico. Non c’era nient’altro da aggiungere, il minore in età aveva ragione e Yoongi non aveva nessuna intenzione di ammetterlo. Ma non avevano quasi più bisogno di conversare, quei due, perché lo scorrere incessante e indefinito del tempo aveva consolidato il loro rapporto fino a renderlo telepatico. Erano diventati l’una l’ombra dell’altro, la pietra portante su cui accasciare le membra addolorate, la spalla su cui piangere, la mente da interrogare nei momenti peggiori e quella con cui gioire in quelli migliori. Avevano appreso ed accettato le reazioni dell’altro a ogni qualsiasi tipo di stimolo esterno. Jimin aveva trovato in Yoongi la sua forza e Yoongi aveva trovato in Jimin la sua debolezza.

“Ci penso io ai tipi del tavolo tre. Meglio se non ti ci avvicini.” Continuò il moro, sfoderando un’espressione intenerita. Perché sapeva quanto il ragazzo dai capelli verde acqua, che continuava a tingerseli con ostinazione nonostante cominciassero ad ispessirsi e incresparsi, odiasse le persone saccenti e prepotenti.

Yoongi lanciò uno sguardo furtivo in direzione del tavolo e mandò giù tutta l’amarezza che cominciava ad inacidirgli il sangue. “Se provano a darti fastidio, li riduco in cenere.”

“Siamo all’ultimo anno, non vorrai mica combinare guai proprio adesso. Prima finisci la scuola e poi fai il cattivo ragazzo per i bar. Magari fallo se non ci lavori dentro, a meno che tu non voglia perdere il lavoro.”

E, come Jimin già si aspettava, l’altro roteò gli occhi con fare infastidito. Era un modo per dimostrargli che aveva ancora ragione, perciò la conversazione doveva essere urgentemente terminata. Era inammissibile che avesse torto per una volta, figuriamoci per due di fila.

“Ti preoccupi troppo per me.” Miagolò il moro, avvolgendogli le spalle con il braccio.

“E sta zitto.”

“Invece che amoreggiare, voi due, potreste per favore servire i clienti? Non so se ve ne siete accorti, ma siamo pieni zeppi. Muovetevi o vi licenzio entrambi!”

Jimin si lasciò andare ad una piccola risata imbarazzata, mentre Yoongi produsse il ringhio più spaventoso che avesse mai messo a punto in tutta la sua vita.

“Allora, domani alle sei del pomeriggio, appena finite le lezioni, quinto piano?” chiese il più giovane, prima di allontanarsi verso il fatidico tavolo tre.

“Non fare ritardo.”

Jimin non fece ritardo, perché non poteva permettersi di deludere anche solo la più infima porzione di fiducia che gli era stata recapitata dal più anziano. Non poteva permettersi di rovinare quell’atmosfera tanto familiare e calorosa che si era creata attorno a loro, come una nube densa, carica di tensione emotiva che continuava a stringerli in una morsa, a farli scontrare come particelle accelerate fuori controllo. Fino al momento in cui, tanto furibonda era la collisione, non si fossero annichiliti l’uno nelle braccia dell’altro. I suoi piccoli passi delicati, degno di un ballerino già in avanti con la carriera, echeggiavano nell’ultimo piano ormai deserto. Aveva atteso con le spalle ben piantate sul muro giallognolo che tutti quanti si precipitassero sulle scale, con le teste vuote più degli stomaci, e poi si era diretto all’estremità più umida e buia del corridoio. L’aula di musica era stata posizionata nella zona meno frequentata dell’edificio proprio per evitare disagi durante l’orario di svolgimento delle lezioni e, quando tutti gli studenti evadevano dalla prigionia, si intingeva d’una atmosfera sinistra, quasi medievale. Come se da un momento all’altro dovesse materializzarsi un vecchio conte vampiro o una strega dalle sembianze piacenti. La porta era proprio di fronte a lui, unica posta perpendicolarmente e non parallelamente rispetto alla direzione di propagazione delle scarpette nere, appena dischiusa. La debole e tremolante luce di un tramonto iniziato da pochissimo riusciva a sgusciare fuori dalla stretta fenditura e a disegnare mistici ghirigori sul pavimento, coperto da un sottilissimo strato di polvere. La mano di Jimin si accostò allo stipite di legno, il piede destro si affrettò ad allargare la via che divideva il sogno dalla realtà, il viso fu interamente investito dalle radiazioni aranciate che si diffondevano attraverso l’ampia finestrata sul lato lungo della stanza. Dovevano essere gli unici a frequentarla, perché tutto era come l’avevano lasciato la settimana prima: il pianoforte in fondo sulla sinistra; una trave al di sotto e lunga quanto la lucida finestra; una batteria senza un timpano in fondo sulla destra; degli amplificatori scadenti nell’angolo più vicino al corpo tonico di Jimin; alti specchi lungo tutto il perimetro che mostravano un riflesso ovattato dagli aloni. Il ballerino sorrise e rilassò i muscoli della mano sinistra. Uno zainetto in feltro verdognolo precipitò sul gelido mattonato, l’eco dello scontro permeò le quattro mura.

“Ohi, ohi, mi hai battuto di un paio di secondi.”

La voce gracchiante e roca di Yoongi era inconfondibile, almeno per il suo amico. Forse avrebbe dovuto consigliargli di fumare di meno.

“Possiamo far finta che sia stato tu a vincere. Lo sai che a me non interessa.” Replicò il minore, regalandogli un sorriso che l’altro non poté vedere, perché gli era ancora di spalle.

E il giovane dai capelli verde acqua avrebbe voluto rispondere “ecco perché andiamo tanto d’accordo”, ma il suo orgoglio gli impedì di farlo. Finì per accostarsi a lui, dinnanzi a quell’imponente vetrata che inglobava sfumature calde, sommità di altri giganti di cemento, alberi e piccoli uomini in lontananza, e abbassò la testa di qualche centimetro per poter catturare i suoi occhi. Con i visi accesi da tutta quella rifrazione che rendevano gli sguardi più avvenenti e le espressioni più profonde, i due continuarono a squadrarsi, alla ricerca di una qualche risposta a una qualche domanda esistenziale che ancora non riuscivano a porsi. Fu Yoongi, un po’ imbarazzato dal contatto intimo, a interrompere la collisione atomica.

“C’è una cosa che volevo chiederti.”

Jimin asserì con un brevissimo movimento della testa.

“Quando ci siamo conosciuti, mi hai detto qualcosa riguardo a degli avvocati. Che non volevi diventarne uno, se non ricordo male. È che hai borbottato così tanta roba che ho smesso di seguirti.”
Un debole sorriso smosse le labbra piene del più giovane, colmo d’improvvisa amarezza.

“Mio padre, sai…” cominciò, ma si rese conto di aver bisogno di un altro punto di partenza, perciò provò ancora una volta, “Io sono orfano. Da parte di entrambi i genitori. Abitavo in campagna prima di trasferirmi qui, l’ho dovuto fare per frequentare la scuola. Tutti gli uomini della mia famiglia erano sempre stati avvocati, perciò si aspettavano che lo facessi anche io.”
E percependo quanto quel parlottio potesse prolungarsi, adagiò le gambe esili sul pavimento e affondò il mento arrotondato fra le mani. Yoongi si accomodò accanto a lui di riflesso, incitandolo a proseguire con lo sguardo.

“Ho sempre lottato per non farlo. Ho sempre litigato con mio padre. Mia madre cercava di sostenermi e mi permetteva di ballare in mansarda, di allenarmi quando lui non era in casa, ma non era abbastanza. Anche mia sorella ha sempre tentato di farmi intraprendere la mia strada. Credevo di avercela fatta.”

“Poi cos’è successo?” chiese il maggiore, solo per spronarlo, perché era abbastanza acuto da poter immaginare il resto.

I denti rotondi e dritti di Jimin affondarono nel labbro inferiore e vi sostarono fino a quando non si ritennero soddisfatti. Gli occhi si inumidirono.

“Incidente d’auto. Nevicava, l’auto è finita fuori strada e sono entrambi morti sul colpo. Il fatto è, Yoongi… L’ultima volta che ho parlato con mio padre, ci ho litigato. Sempre per lo stesso motivo. Tu farai l’avvocato!” e imitò il vocione del padre, “No, io voglio fare il ballerino!” proseguì con il suo stesso tono, reso un po’ più acuto per evidenziare la differenza, “Non è un lavoro! Non puoi fare carriera! Non potrai avere una famiglia! Né un nome rispettabile! E poi gli uomini non ballano!” ancora il padre, “Mia madre è intervenuta e gli ha detto che avrebbero fatto un giro per sbollire un po’ la rabbia. La tensione. Ma nevicava tanto forte e non sono più tornati.”

La voce gli si era affievolita sempre di più, fino a ridursi in un soffio rauco alla fine della frase.

“Quindi avevi deciso di fare l’avvocato per chiedere scusa a tuo papà.”

“Credevo fosse l’unica maniera in cui potevo dimostrargli di volergli bene comunque, nonostante tutto. Poi ti ho sentito suonare e… qualcosa in me è cambiato. Forse mio padre adesso vuole solo vedermi felice. Forse, se fosse qui ad ascoltarci, approverebbe le nostre scelte.”

Yoongi avrebbe voluto rispondergli che suo padre non poteva più volere, né vedere, né approvare niente. Che tutti ritornano alla polvere, una volta morti, che non esiste un aldilà né una maniera efficiente per redimersi. Che proprio per questo doveva tenere da parte i rimpianti per seguire la sua strada, prima di rimetterci le penne e diventare cibo di qualche altro essere vivente, ma non lo fece. La conclusione era comunque stata la stessa per entrambi, fare arte insieme. Consolidare il loro legame con sette note e una danza, scavarsi con le unghie e con i denti un posticino in un mondo che si disordinava irreversibilmente.

“Ti ho ascoltato davvero poco fino ad adesso, eh?” commentò soltanto, con un’amara punta di rammarico sulla lingua.

“Quello è il mio ruolo, Yoongi!” rispose Jimin, subito pronto a scacciare via i brutti pensieri dalla mente dell’amico, e gli appoggiò la testa ovale sulla spalla. Yoongi si lasciò cullare dal tepore del contatto per una manciata di secondi e poi si scostò, per rimanere nei canoni della persona che aveva deciso di diventare.

“E il tuo ruolo non è quello di avere il culo piantato per terra. Su, muoviamoci o finiranno per cacciarci.” Si sollevò con agilità felina, battendosi le mani sul didietro dei pantaloni scuri per pulirli dalla polvere.

Jimin attese che l’altro si posizionasse sullo sgabellino di fronte allo strumento per mettersi in posizione. Incrociò le gambe, allineando i piedi, e curvò la schiena per permettere alle mani di chiudersi in una coppetta all’altezza delle ginocchia. Inclinò la testa verso la batteria, schiuse gli occhi, in attesa di essere investito dalla musica, e fece un lungo respiro un po’ strozzato dalla scomoda posa. Le dita sottili di Yoongi planarono sulla tastiera un po’ appiccicosa del pianoforte e vi posarono dei baci dolci, delicati, quasi accennati, effusioni iniziali di una lunga e frastagliata sinfonia in mi minore. Jimin cominciò a muoversi con grazia, distendendosi verso il soffitto come un fiore appena risvegliato dal calore della primavera e lubrificato dalla brina, come un animaletto riportato alla vita dopo un lungo periodo di letargo dal dolce squittio dei colleghi già attivi.

Le luci più prepotenti del tramonto ormai inoltrato continuavano a perforare i vetri sottili dell’aula e ad investire i due corpi tutti intenti in una fusione epifanica a dir poco incomprensibile. I serpenti rosati scivolavano sulle mani di Yoongi, che adesso si erano lasciate andare a carezze più insistenti e passionali; alla sua schiena che dondolava prima avanti e poi indietro al ritmo cadenzato di quella melodia così struggente; ai capelli un po’ bruciati che sobbalzavano, tutti presi dall’euforia del momento; al viso rilassato, le cui sopracciglia inarcate e le labbra strette tradivano una profonda concentrazione. Poi, dopo aver finito la curiosa incursione sul musicista, si precipitavano ad avvolgere ed abbracciare il corpo del ballerino, fasciato da una tutina di cotone colorato, che volteggiava per aria accompagnato da veli di pulviscolo e polvere a fargli da eco. Le movenze erano perfettamente in sintonia con il ritmo, le braccia e le gambe si esibivano in rotazioni e piegamenti e distensioni che ricordavano l’andamento pulsante e vorticoso di una vita appena concepita. C’erano la nascita, la sofferenza, l’apprensione, la rabbia, il bisogno di sentirsi riconosciuti, l’amore, la frustrazione, la voglia di cambiare, la soddisfazione, la miseria e la ricchezza, la giovinezza e l’età adulta.
Yoongi, di tanto in tanto, lanciava occhiate estasiate a Jimin, ben sapendo che quest’ultimo non era in grado di scorgerlo. Si lasciava invadere dalla vista di quel corpo, consacrato solo ed esclusivamente alla propria musica; si lasciava guidare dalla sua forza di volontà e la sua voglia di sopravvivere. Al suo coraggio di aver deciso di cambiare vita, nonostante il ricordo del padre incombesse su di lui come una tempesta. E le orecchie di Jimin si beavano del genio dell’amico, i suoi timpani vibravano e fremevano nell’udire quelle note che stavano disegnando la sua strada, che gli stavano mostrando il suo destino. Che gli stavano facendo comprendere il vero senso della vita.

Ma il crescendo della melodia andava man mano spegnendosi. La danza si riduceva a lievi e deboli fruscii, fino a quando non si ridusse in cenere. C’era la morte. I due incrociarono gli sguardi.

C’era la rinascita. 












Note dell'autrice

Volevo aspettare giovedì per pubblicare il secondo capitolo, ma AAAAH, non ce l'ho fatta. Ci tenevo così tanto a presentarvi questa seconda parte che non ho resistito alla tentazione, quindi eccola qui. La parte fluff di questo racconto breve è ciò che più mi fa sciogliere il cuore. In particolare, ho cercato di immaginare la scena finale nei minimi dettagli e di renderla evocativa per far comprendere il tipo di legame così profondo che si sta formando tra i due ragazzi. Viene anche fornita qualche informazione in più sui loro passati. 
Spero che sia di vostro gradimento! Un ringraziamento enorme a chi recensisce, ma anche a chi viene qui per dare un'occhiata. I commenti sono sempre ben accetti, alla prossima!
Baci fotonici, 

Orion
   
 
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