17
Trappole
Airis
sbatté un paio di volte le palpebre, la mente e la vista
ancora velate dalle nebbie del sonno. Si tirò su a sedere e
si stropicciò gli occhi per scacciare la sensazione di
intontimento. Soffiava un vento freddo nella grotta, che
però la brace accesa riusciva a tenere lontano.
- Potresti dormire ancora un paio d'ore. - le disse Arghail.
La guerriera sbadigliò e si versò un
goccio di vino. L'otre era rimasto vicino al fuoco e così il
suo contenuto era ancora caldo.
- Lo farei, se non dovessimo alzarci tra poco. -
Arghail ridacchiò. Era nella stessa posizione di
quando lo aveva svegliato, con l'ascia appoggiata sulle gambe ben
coperte dal mantello di Airis. Gli occhi indaco avevano assunto una
sfumatura violacea più scura e parevano brillare nella
penombra appena rischiarata dalle braci.
- È successo qualcosa mentre dormivo? -
- Calma piatta, mio Generale. Fa solo un freddo dannato. - si
strinse nel mantello e incrociò le gambe, - Davvero non ne
hai bisogno? -
Airis si passò entrambe le mani sulle braccia. La
giornea era foderata di pelliccia e le maniche della tunica sottostante
erano di lana grezza. Erano dei capi fatti apposta per sopportare dei
climi così rigidi, ma, nonostante tutto, un essere umano
normale, anche col calore del Ghedharvha accoccolato alle sue spalle,
avrebbe avuto quantomeno i brividi.
- Sono solo un po' infreddolita, ma niente di che. - rispose
e si scrocchiò le dita, - Tu, piuttosto? -
- Mi piacerebbe essere a casa mia, davanti al mio caminetto,
con una buona tazza di latte fumante sul tavolino. Non si dorme molto
comodi sulla pietra. -
- Non posso che concordare. -
- Gli unici che sembrano a proprio agio sono Droguan e Rubia.
-
Airis corrugò le sopracciglia: - Non ero
consapevole di avere altri due compagni di viaggio. -
- Oh, sì che li abbiamo. Solo che non parlano
molto. - accarezzò la testa del suo Ghedharvha con un mezzo
sorriso, - Il tuo si chiama Droguan, la mia Rubia. -
- È stato Uravan a dirti come si chiamano? -
- No, con lui non ci ho parlato. Però so per
esperienza che gli animali diventano più docili e mansueti
se li si tratta con la stessa gentilezza con cui tratteresti un amico.
Chiamarli “bestie” è come chiamare un
essere umano “rifiuto”. -
Arghail si soffermò a grattare dietro le orecchie
di Rubia e l'animale emise un verso compiaciuto, muovendo le zampe nel
sonno.
- Ecco perché hai deciso di dar loro dei nomi. -
- Ed è anche il motivo per cui tu vai tanto
d'accordo con gli animali. - scherzò.
Airis gli puntò il dito contro, un sorriso furbo
ad arricciarle le labbra.
- Non mi dimentico le cose che voglio sapere. Mi avevi
promesso che mi avresti svelato come hai fatto a domare questi due,
adesso pretendo una risposta. -
Il capitano sospirò sconfitto. Spostò
l'ascia dalle gambe e l'appoggiò a terra a portata di mano,
mentre si dedicava a pettinare la criniera di Rubia.
- Non c'è molto da dire. I miei genitori sono dei
mercanti, hanno una bottega di tessuti dove vendono tuniche, cappe,
pellicce e tutto ciò che va di moda. Io li aiutavo come
potevo quando ero bambino, occupandomi soprattutto di sbrigare le varie
commissioni che mia madre mi affidava. Una volta sono andato fuori
città per consegnare un tabarro a un loro amico che sarebbe
partito presto. Si chiamava Dendillion ed era un vecchio mercante di
stoffe in pensione. Non so perché, gli piacqui molto e,
invece di mandarmi via subito, mi invitò a farmi un giro
nella sua proprietà. Aveva una stalla con diversi animali,
tra cui diversi cavalli, pecore, capre, conigli e anche alcuni maiali.
A me erano sempre piaciuti, però i miei genitori si
rifiutavano di prendere anche solo un cane da guardia. Sono rimasto
lì tutto il pomeriggio e lui mi ha indicato il nome di
ognuno di loro, raccontandomi quando lo aveva preso, i pregi e i
difetti. - si passò una mano sulla bocca e poi la
intrecciò all'altra sulla pancia, - Sono tornato
lì spesso, finché non è morto. Mi ha
insegnato tutto quello che so sugli animali, specialmente come
trattarli per essere rispettati da ognuno di loro. -
- Doveva essere un uomo di buon cuore. - commentò
Airis.
- Solo con i miei genitori e i suoi amici pelosi. Dendillion
era giunto alla conclusione che gli animali erano meglio degli uomini e
alla veneranda età di sessantaquattro anni aveva conservato
pochi contatti col resto del mondo. Era una persona particolare,
diciamo. -
- Anche tu la pensi allo stesso modo? -
La mano del capitano tornò ad accarezzare il
Ghedarvha. Trascorse qualche momento prima che le rispondesse.
- Non lo so. A volte penso che aveva ragione, altre che fosse
un vecchio solo e pieno di rimpianti. Eppure, quando mi trovo meglio in
compagnia degli animali, li trovo più genuini e veritieri
nelle loro reazioni. Ho conosciuto molti uomini e donne, ma il calore
che Garwin, il mio cane, mi dona quando torno finalmente a casa, me lo
ha dato solo una persona. -
“Hallende” tirò a indovinare
Airis, ma si guardò bene dall'esprimere il suo pensiero.
Gettò un'occhiata fuori dalla grotta. Il cielo era coperto e
le nuvole grigie della sera precedente stazionavano minacciose sopra le
loro teste, foriere di tempesta.
- Non è una storia noiosa. - mormorò
assorta, - Anche se, vedendo come sono diventati mansueti questi
pelosoni, pensavo avessi scoperto di avere qualche potere. -
Arghail scoppiò a ridere: - Sono solo
più empatico con gli animali che con gli uomini. Mi
dispiace, qui l'eroina speciale non sono io.-
- Ah, ah, ah, quanto sei spiritoso. -
- Simpatia è il mio secondo nome. -
tossì un poi di volte e tornò serio, - Ora
però tocca a me. Cosa significa “Anairë
lapse”? -
Airis inarcò un sopracciglio.
- Lo hai ripetuto un paio di volte nel sonno. Sei molto
più chiacchierona mentre dormi. - spiegò Arghail,
- Ho fatto una domanda troppo personale, forse? -
- Più che altro sei sfortunato, perché
non ti so rispondere. -
Stavolta fu il turno dell'uomo di rimanere perplesso.
- È una frase che mi fu detta da uno degli elfi
che attaccò il mio villaggio. Lo uccisi prima che lui
potesse uccidere me. Non so perché, però le sue
parole mi sono rimaste impresse. -
- Non hai mai provato a scoprirne il significato? -
- No. A essere sincera, credevo di essermele dimenticate. -
sospirò e bevve un lungo sorso di vino, - Mi tornano in
mente molte cose in questi giorni. -
- “È nel silenzio che l'uomo trova se
stesso”, dice spesso Hallende, e io sono d'accordo. Nella mia
testa c'è sempre un gran baccano, solo quando metto a tacere
i pensieri riesco a capire cosa è giusto fare. Bene! - si
batté le mani sulle cosce e si alzò, imitato da
Airis, - Hai ricavato qualcosa dal tuo studio della mappa ieri notte? -
- Dovrebbe esserci un sentiero più in basso.
È stretto e passa in mezzo a valli e zone boschive,
però almeno non rischierai di morire di freddo. -
- Allungheremo il viaggio. -
- Di uno, massimo due giorni. Ce lo possiamo permettere. -
- Conduci tu, allora. Ti vengo dietro con Rubia. -
Airis levò gli occhi al cielo, ma
lasciò che fosse Arghail a svegliare i due Ghedharvha. Non
appena aprirono gli occhi, allungarono il muso per reclamare una
carezza. Le bacche di mirtillo che il capitano offrì loro
furono un ulteriore incentivo a essere più docili e mansueti.
Si misero in marcia poco prima che sorgesse l'alba. Le stelle
brillavano sempre meno e la loro luce fredda si affievoliva, sparendo
nell'aurora del mattino.
Airis si era ripresa il suo mantello su insistenza di
Arghail. Non si erano detti molto: Arghail si era avvicinato e le aveva
rimesso il suo sulle spalle prima di montare, l'ascia appesa alla sella
nuovamente avvolta negli stracci.
- Sei troppo orgoglioso. - lo aveva ammonito, ma lui si era
limitato a fare spallucce, con quell'espressione a metà tra
il serio e il faceto.
Per tutta la mattina il tempo fu clemente. A un certo punto
cominciò a nevicare, batuffoli di neve ondeggiarono
nell'aria, sciogliendosi non appena toccavano il suolo, senza
attecchire, nient'altro che un sottile strato bianco il più
delle volte interrotto da radi ciuffi d'erba.
- Dobbiamo comunque procedere il più spediti
possibile. - ci tenne a precisare Arghail, - Se veniamo investiti da
una bufera ora, non ne usciamo vivi. -
Scesero di quota. Solo quando ne sentirono l'estrema
necessità si fermarono per mangiare un po' di fave e
fagioli, per poi riprendere subito la marcia. Pian piano, la
vegetazione ritornò padrona del paesaggio,
finché, poco dopo l'ora di pranzo, non distinsero in
lontananza il profilo degli Alberi Guerrieri. Il vento faceva frusciare
le fronde, sibilava minaccioso, infilandosi sotto i vestiti pesanti
come un serpente velenoso.
Arghail aveva incassato la testa nelle spalle e, quando
pensava che Airis non lo vedesse, si strofinava le mani per trattenere
il calore. Tremava meno del giorno precedente e le guance avevano
riacquistato un po' di colorito, però il freddo lo sentiva.
- Fermiamoci lì. - Airis indicò un
laghetto semicongelato, - Sia tu che io abbiamo bisogno di riprendere
fiato. -
Arghail fece un cenno d'assenso e si mise al suo passo.
Controllarono i dintorni dello spiazzo prima di sedersi su un
tronco caduto a mangiare con i Ghedharvha, legati al ramo di un albero.
- Come ti senti? - lo interrogò Airis.
- Meglio, decisamente. - rispose, strappò un pezzo
di carne affumicata e lo masticò con calma, - Tu, invece?
Fresca come un fiore? -
- Come sempre. -
- Essere l'eroina della situazione ha i suoi vantaggi. -
- Molti più svantaggi che vantaggi, te lo
assicuro. -
Arghail accennò un sorriso e sorseggiò
dell'acqua. Rubia allungò il muso, annusò quello
che stava mangiando e poi lo ritirò, tornando a mangiare le
foglie dell'albero.
- Prima di arrivare alla capitale, dovremmo trovare un modo
per nascondere i tuoi capelli rossi. Così come sei ti
riconoscerebbero tutti. -
Airis guardò una ciocca. Sopravvivevano alcune
strisce nere, per lo più scolorite, e il rosso si stava pian
piano riappropriando della sua capigliatura.
- C'è la possibilità che Hallende sia
già a Sershet? -
- Potrebbe, ma non sono sicuro che sia già
ripartita da Porto Eamone. È molto brava, e con questo tempo
non so se ha potuto prendere congedo. -
- Speriamo che si calmino, allora. A parte mia madre, non ho
molte conoscenze in città. -
Arghail incrociò le braccia sul petto, meditabondo.
- Potremmo provare a farti entrare con il cappuccio sul capo,
ma è troppo rischioso. Di questi tempi, con la guerra che si
sta inasprendo sempre di più, molte persone decidono di
abbandonare le proprie case per cercare rifugio a Sershet. Per ordine
della regina, i controlli sono diventati molto, molto rigidi. Non ti
lascerebbero passare senza aver prima appurato che non sei pericolosa. -
- Immagino tu non conosca nessuno che ci possa aiutare. -
Il capitano si massaggiò la radice del naso: -
Potrei provare a mandare un messaggio alla consigliera Azlan per vedere
se può darci una mano. -
- Conosci la consigliera?! -
- Sì, l'ho incontrata un paio di volte. -
- Non mi dirai nulla di più, immagino. -
Arghail distolse lo sguardo.
- Mi dispiace... - sospirò e dal suo tono Airis
capì che era sincero.
- Se ci può aiutare a entrare in città,
farò finta che tu non mi stia palesemente nascondendo
qualcosa. - arricciò le labbra in una finta smorfia contrita
che lo fece ridere.
- Sai essere divertente anche tu, allora. -
- A volte. - concesse, mentre masticava una fava.
All'improvviso, tutto si fece quieto. Il vento era calato, il
freddo sembrava meno intenso nel silenzio perfetto che li aveva
avvolti. Airis saltò in piedi e afferrò la spada,
e Arghail impugnò l'ascia. Si avvicinarono, schiena contro
schiena, scrutando tra gli alberi. Ogni cosa attorno a loro taceva,
immobile.
Un'ombra passò tra i rami, seguita da altre due.
Il sole sopra di loro ne distorceva la figura, e la troppa
oscurità rendeva difficile capire cosa fossero. Quando
scesero di quota, entrambi si avvidero che erano falchi, grossi come
aquile. Faticavano a volare, la loro apertura alare era troppo ampia
per permetter loro grandi manovre in quelle fronde così
fitte. Tre ben presto si posarono sui rami più sporgenti,
mentre gli altri due esemplari continuarono a sorvegliarli dal cielo,
descrivendo cerchi concentrici.
- Non mi piace. - mormorò Arghail.
Airis serrò la presa sulla spada. Non sarebbe
servita granché se li avessero attaccati, ma stringere
un'arma le permetteva di pensare con più lucidità.
- Avviciniamoci a Rubia e Droguan e speriamo che non ci
attacchino prima. -
Il compagno annuì e cominciarono a indietreggiare.
Uno dei falchi, quello che si era posato sul ramo più basso,
sbatté più volte le ali, stridendo truce, gli
occhi gialli fissi sulle sue prede. Gli artigli neri scavavano solchi
profondi nel legno.
- Per caso sai ammansire quei cosi? -
- Non ho mai avuto a che fare con dei rapaci assassini,
chiedo perdono. -
Airis lanciò un'occhiata dietro di sé.
I Ghedharvha erano legati, ma se avessero corso abbastanza in fretta,
sarebbero riusciti a sciogliere il nodo e...
“Se lasciamo le sacche per scappare, moriremo. Se
non lo facciamo, moriremo lo stesso. Qualsiasi cosa faccia, non
c'è via di fuga.”
Senza preavviso, il falco si gettò in picchiata ed
emise uno stridio altissimo che fece tremare l'aria, come se un nugolo
di frecce l'avesse attraversata, squarciandola. Airis si
coprì le orecchie e Arghail l'abbracciò,
facendole scudo con il proprio corpo.
Attesero che l'attacco arrivasse loro addosso, di sentire gli
artigli e i becchi affondare nelle braccia, nelle gambe, ma non accadde
nulla. Il battito d'ali persisteva, però, così
vicino da coprire quello dei loro cuori, generando un costante
venticello freddo.
Quando Airis alzò lo sguardo, i tre falchi erano
lì, sospesi in aria, che li fissavano con i loro quattro
occhi d'ambra.
- L'orecchino sta brillando... -
L'espressione stupita di Arghail la convinse a spostare la
sua attenzione alla sua destra, a toccare con mano il drago di
cristallo nero. Era leggermente tiepido al tatto, un calore che si
sprigionava dall'interno. In quel momento Airis capì: non
era lei che guardavano, ma l'orecchino.
“Cosa mi hai dato, Urian?”
I falchi volarono in alto, svanendo nella penombra,
silenziosi com'erano arrivati. Quando rimasero soli, Arghail
sospirò e si piegò sulle ginocchia, l'ascia
ancora stretta in mano, prima di raddrizzarsi e slegare i due
Ghedharvha.
- Andiamo via, in fretta. - la esortò, porgendole
le briglie.
Airis non se lo fece ripetere due volte. Montò in
sella subito e piantò i talloni nei fianchi di Droguan per
costringerlo ad andare più veloce. Imprecò quando
colpì con una spalla un ramo troppo basso e gli aghi rossi
le rimasero impigliati nel mantello e nei capelli, ma
continuò a spronarlo finché non si furono
lasciati alle spalle la foresta. Soltanto allora Arghail si concesse di
trarre un vero sospiro di sollievo.
- Erano i falchi dei Fae? - domandò, la pelle resa
lucida dal sudore.
Airis si voltò. Scorse il profilo dei volatili in
lontananza, tre macchie nel cielo. A nord, dove si stavano dirigendo,
il cielo si era aperto e le nuvole erano spumoni sullo sfondo blu.
- Sì, direi proprio di sì. -
- Credevo Urian fosse dalla tua parte. -
- Non penso ci sia dietro lui. -
Sfiorò l'orecchino. Brillava ancora, anche se la
luce era diminuita assieme al calore che emanava. Li aveva fermati. Non
sapeva come, ma li aveva fermati.
- È più probabile che sia stata
un'iniziativa degli altri Fae. A parte lui, tutti ci guardavano male. -
aggiunse e riprese le redini.
Arghail si passò una mano sulla faccia e si
massaggiò la fronte.
- Qualsiasi sia la verità, ci conviene ripartire.
Fuori dalla foresta siamo dei bersagli ancora più facili. -
si avvicinò e gli batté una pacca sulla spalla
per richiamare la sua attenzione, - Se non ci fermiamo più
fino a sera, dovremmo arrivare a un'altra zona boschiva. Cercheremo
lì un riparo per la notte. -
Si rimisero in marcia. I Ghedharvha procedevano a passo
sostenuto, senza farsi quasi mai distrarre dai ciuffi d'erba che di
tanto in tanto spuntavano tra le rocce. Era come se avessero assimilato
l'inquietudine dei loro cavalieri e volessero anche loro arrivare il
prima possibile a destinazione. Più d'una volta, nel
pomeriggio, passarono sopra le loro teste vari falchi e aquile, ma le
bestie che avevano tentato di attaccarli non si rifecero vive.
Verso sera si inoltrarono in una foresta di pini. La neve
giaceva al suolo in macchie grigiastre e informi e aveva spruzzato di
bianco i rami più in alto. L'aria era più umida
che fredda e aderiva alla pelle come un vestito troppo stretto.
“Almeno non si gela.”
- Fermiamoci qui, siamo abbastanza riparati. -
Scelsero un pino vecchio, con le fronde abbastanza ampie e
serrate a costituire un tetto verde sopra le loro teste. Decisero che
fosse meglio non accendere il fuoco, per evitare di segnalare la loro
posizione ai falchi assassini o a qualsiasi altra creatura di
passaggio. Tennero la guardia alta per tutta la cena, masticando piano,
senza proferire parola. La paura acuiva i loro sensi e ogni rametto
spezzato, ogni fruscio poteva nascondere una minaccia.
- Due ore ciascuno, se ti va bene. Comincio io. - propose
Airis.
Arghail la squadrò circospetto: - Siamo sicuri che
mi sveglierai per darti il cambio? -
- Dormire sulla sella è scomodo, preferisco il
terreno, almeno posso sperare di chiudere occhio. -
intrecciò le dita sul pomolo della spada e vi
appoggiò il mento, - Quello che hai fatto oggi è
stato molto stupido. -
Il capitano aprì la bocca per ribattere, ma Airis
lo precedette.
- Sono un soldato, prima che una donna, e devi trattarmi come
tale: mi sono guadagnata il diritto di essere considerata una tua pari
e pretendo il rispetto che mi è dovuto.-
- L'ho fatto perché siamo compagni. Ci dobbiamo
coprire la spalle a vicenda. -
- Stronzate. - gli lanciò un'occhiata obliqua e il
suo tono si indurì, - Prima il mantello, ora questo. Non
sono una ragazzina indifesa, ficcatelo in testa.-
Arghail si fece serio e la fissò con
così tanta intensità che per Airis fu impossibile
distogliere lo sguardo.
- Non sono tanto stupido da pensare che abbiate bisogno di un
cavaliere che combatta le vostre cause, Generale. Quello che ho fatto,
l'ho fatto per te, così come lo avrei fatto per chiunque
altro, uomo o donna.-
La guerriera non rispose, impressionata dalle sue parole,
dall'ardore con cui le aveva pronunciate. Il fastidio però
rimase lì e la istigò, facendole venire ancora
più voglia di prenderlo a pugni. Scosse la testa e rivolse
gli occhi al cielo, oltre le chiome degli alberi. Era limpido, raso blu
intessuto di una moltitudine di stelle. Archi sottili e brillanti raggi
di luce iridescenti si perdevano nell'infinito e, come tende ingrossate
da un gentile vento estivo, ondeggiavano in un ventaglio di giallo,
rosso e verde.
- I Fuochi della Volpe. - mormorò Arghail senza
fiato.
Airis ci mise un attimo a capire cosa le avesse detto. Erano
uno spettacolo comune nelle terre innevate, ma il suo mondo, quando era
arrivata lì, era stato ancora tutto buio.
- Sono... sono davvero bellissime. - riuscì a dire.
- Non li avevi mai visti? Ma com'è pos... -
Arghail si zittì prima di terminare la frase, - Mi dispiace,
mi ero dimenticato. -
- Meglio, significa che per te non sono mai stata cieca. -
gli diede una pacca sulla spalla e tornò a sedersi, - Se
succede qualcosa, ti sveglio. -
- Svegliami anche per darti il cambio. -
Airis sospirò sconsolata. Aveva incontrato ben
pochi uomini così cocciuti in vita sua e lui doveva esserne
il capo.
- Hai bisogno anche del mio mantello? -
- No, ci penserà Rubia a non farmi morire
assiderato. - si stese vicino al Ghedharvha e si coprì come
poté, - Tieni gli occhi aperti. -
- Lo farò. Ora dormi. -
Arghail annuì e chiuse gli occhi. Si
addormentò dopo poco, vinto dalla stanchezza. Aveva la mano
stretta a pugno sul petto, dove fino a poco tempo fa portava l'anello.
Lo faceva ogni notte, persino nella posizione più scomoda:
era come se senza si sentisse perduto e dovesse tenerlo tra le dita per
non smarrire la strada. Anche lei, in passato, aveva avuto bisogno di
aggrapparsi a qualcosa per non sprofondare. Adesso, senza
più il peso del cristallo al collo, sentiva una forte
nostalgia.
“Mi manchi, Delia.”
Rivolse la sua attenzione al cielo e rifletté sul
fatto che i Fuochi della Volpe si potevano ammirare nei mesi
più bui, quando l'estate svaniva e l'autunno incalzava.
“Un altro effetto dell'esplosione.”
Tuttavia, non riusciva a preoccuparsene. L'angoscia si era
acquattata in un angolo della sua mente, nascosta assieme a Ledah, a
Lysandra, a Aesir, ammaliata dal balletto celeste. Toccò la
stoffa della tunica all'altezza del tatuaggio.
“Appena arriveremo alla capitale, lo
controllerò. E farò tutto ciò che
sarà giusto fare per vincere.”
Intanto la volpe correva veloce nel cielo, continuando a
colpire la coltre di neve.
Il quinto giorno, Airis svegliò Arghail poco dopo
che era sorto il sole. Fecero colazione scambiandosi giusto qualche
parola sull'ultimo turno di guardia e lei gli riferì che, a
parte qualche starnazzo notturno, non era successo nulla.
- Ottimo. Come stiamo messi a provviste? -
- Dovrebbero bastare per ancora qualche giorno. Se
iniziassero a scarseggiare, stringeremo i denti. -
Arghil assentì. Aveva i capelli tutti
scompigliati, anche peggio dei suoi, e delle brutte occhiaie.
- Ci credi che non vedo l'ora di arrivare a Sershet? Ho
bisogno di riposare in un vero letto. -
- Non credevo che lo avrei mai detto, ma anche io. -
concordò Airis.
- A tal proposito... hai intenzione di andare a casa tua? -
Le si bloccò il respiro in gola. Si
alzò di scatto e diede subito le spalle ad Arghail, fingendo
di controllare le cinghie che assicuravano le borse a Droguan.
- Non lo so. -
- Ho toccato un tasto dolente? -
- No, solo che non ho ancora deciso. - mormorò e
in parte era la verità.
Con tutto quello che era accaduto, non si era mai soffermata
a riflettere su cosa avrebbe fatto una volta arrivata a Sershet. Non
aveva un piano, non aveva avuto il tempo, o il coraggio, di studiarne
uno. Ora sentiva il cuore pesante e aveva le viscere aggrovigliate,
mentre il dialogo che aveva avuto con Davsten prima di partire per
Llanowar le si riaffacciava alla mente. Erano volate parole pesanti
quel giorno, e lei alla fine se n'era andata salutando soltanto sua
madre. Ora loro la credevano morta e l'ultimo ricordo che serbavano era
quel litigio. Non se lo sarebbe mai perdonata.
“Idiota.”
Inspirò l'aria frizzante del mattino e
lasciò che il freddo scacciasse gli ultimi strascichi del
sonno.
Arghail trattenne lo sguardo su Airis ancora una frazione di
secondo, prima di montare in sella e attendere che fosse lei a fargli
strada.
Percorsero una buona parte della strada in silenzio, i sensi
all'erta focalizzati su ogni movimento sulle loro teste. L'inquietudine
era un sentimento costante che aleggiava tra di loro, più
soffocante dell'umidità nell'atmosfera.
Airis spesso toccava l'orecchino per ritrovare la calma e
arginare il fiume di pensieri che rischiava di farla annegare.
Quando il sentiero cominciò a declinare, si
sentì più tranquilla. Le montagne si chiusero su
di loro man mano che si inoltravano in una gola molto stretta, dove la
neve si era accumulata così tanto da ghiacciare le pareti.
Il vento sibilava tra le rocce e le sporgenze, sferzava la strada e le
loro spalle. Arghail si alitò sulle mani e le
strofinò sui vestiti. Erano rosse e intorpidite, e si
serravano a fatica sulle redini.
- Una volta valicate queste montagne, saremo alla capitale in
tre, massimo quattro giorni. Lì potrai finalmente riposare
in un vero letto. - scherzò Airis.
- Non vedo l'ora, guarda, comincio a sognarlo anche di notte.
- borbottò, si raddrizzò sulla sella e trasse un
profondo respiro, massaggiandosi il fondoschiena, - Non ce la faccio
più nemmeno a cavalcare. -
- Adesso capisci perché preferisco viaggiare a
piedi? -
- Addirittura? Sei strana, lasciatelo dire. -
La guerriera si concesse una risata.
- Lo so, anche mio pad... -
Una freccia si piantò nel terreno a pochi pollici
dalle zampe di Rubia. Il Ghedharvha nitrì e
arretrò spaventato. Droguan tirò le briglie
così forte che Airis quasi perse la presa. Un altro sibilo
tagliò l'aria vicino al suo viso e rimbalzò con
su un masso alle sue spalle. Le ombre di tre falchi oscurarono il cielo.
- Imboscata! -
Si buttarono a terra, poco prima che i rapaci riuscissero a
ghermirli. Rotolarono per un paio di braccia e si rialzarono
leggermente scossi. I due Ghedarvha imbizzarriti tiravano cornate a
destra e a manca, senza mai colpire il bersaglio, scalciando come
forsennati per difendersi dalle artigliate che li colpivano da ogni
lato. Rubia tentò di scappare, ma le sacche erano tante e
pesanti, e i due falchi che l'avevano assalita la raggiunsero subito.
Emise un nitrito agghiacciante quando le strapparono un occhio.
- Andiamo, andiamo! -
Arghail la strattonò e Airis si rimise in piedi.
L'orecchino era caldo e brillava con forza.
“Non ci proteggerà, stavolta.”
Il suo sguardo corse alla spada. Giaceva a terra, sporca di
fango e ghiaccio sciolto.
- Corri! -
L'urlo di Arghail bastò a metterle le ali ai
piedi. Si precipitò verso di Rubia a zigzag, veloce come non
lo era mai stata, il fiato che si condensava in nuvolette di vapore
davanti al suo viso. Afferrò la spada e, senza fermarsi, con
Arghail alle calcagna, deviò verso la parete di pietra. Una
freccia le aprì un taglio sulla spalla e un'altra la
costrinse a cambiare traiettoria all'ultimo. Le ombre si nascondevano
tra i massi, troppo in alto perché potesse vederli. I
nitriti e gli scalpiccii disperati di Rubia e Droguan le giungevano
attutiti, così distanti da disperdersi nell'eco del suo
cuore al galoppo nel petto. L'unico suono netto erano i suoi passi e
quelli di Arghail, e i loro respiri spezzati.
I loro aggressori li seguivano da sopra. Erano
così veloci e leggiadri che quasi faticava a sentirli.
“Fae.”
Quel pensiero le raggelò il sangue e
bastò per farla accelerare. Era un'intuizione emersa dal
nulla, priva di basi, ma alimentò la paura come il vento le
fiamme di un incendio.
“Manca poco, ce la posso fare.”
Il sudore le imperlava la fronte e le bruciava gli occhi,
dandole l'impressione che il valico fosse più lontano di
quello che in realtà era.
Improvvisamente, delle figure saltarono giù dalle
pareti di roccia, atterrando a una trentina di piedi davanti a loro.
Airis rallentò fino a fermarsi, mentre Arghail si
bloccò di botto e quasi le venne addosso.
Quattro uomini, vestiti con abiti da cacciatore, li fissavano
dall'entrata della gola. Uno aveva i capelli fulvi come quelli di
Urian, gli altri sfoggiavano chiome castane o persino azzurro chiaro.
Avevano tutti un arco in mano e una faretra sulla schiena; alla cintola
era appesa una spada dalla guardia stretta, ancora foderata. Un falco
si posò sul braccio di quello più alto, un uomo
con la mascella squadrata e un sopracciglio solcato da una cicatrice
bianca. Il volatile aveva le zampe e il becco lordi di sangue.
- Merda. - sputò Arghail.
Airis strinse la spada. Non avrebbe trovato parole migliori
per definire la loro situazione in quel momento.
- Dacci l'orecchino, umana. - ordinò il Fae dai
capelli fulvi, - Appartiene al Darhaid, le tue mani luride non sono
degne di toccarlo. -
- È stato lui a darmelo. Estìar mi ha
scelta tra i candidati, Cyril mi ha investita e Urian mi ha messo alla
prova. In nome di ciò che sono, vi comando di lasciarmi
passare. -
Non era la sua voce, quella. Veniva da dentro di lei e
attingeva da una conoscenza antica, che non sapeva di possedere. I
contorni della gola divennero sfocati per un istante, si liquefecero al
limitare del suo campo visivo, per poi riassumere consistenza al primo
battito di ciglia.
I Fae la scrutarono intimoriti. Due, i più
giovani, persero le loro espressioni tracotanti e indietreggiarono. I
falchi alzarono il capo di scatto e appuntarono lo sguardo su di lei,
immobili.
- Sei un'umana, non sei degna di portare quell'orecchino. -
reiterò con un ringhio il Fae con la cicatrice, - Nessuno di
voi bestie lo è mai stato. -
- Airis, non so perché stai provando a ragionarci,
è inutile. - le fece notare Arghail.
“Non so nemmeno io cosa sto facendo.”
- Toglietevi dai piedi, non ho intenzione di ripeterlo una
seconda volta. - dichiarò e svolse la spada dagli stracci,
divaricando le gambe.
La risata che proruppe dalle labbra del Fae era armonica,
argentina. Se non avesse avuto una luce feroce negli occhi, Airis ci
sarebbe cascata.
- Vuoi davvero morire, allora. Vorrà dire che ti
mangerò mentre starai agonizzando a terra. Ho sempre amato
il sapore della paura. - le labbra tremarono e si schiusero sui denti
da squalo, - È da tanto che non assaporo carne umana fresca.
-
Airis inspirò piano. In quell'istante, il balugino
metallico dell'ascia richiamò la sua attenzione da sotto il
corpo esanime di Rubia.
- Riesci a recuperarla? - bisbigliò all'indirizzo
di Arghail.
Il Fae intanto si stava avvicinando. I suoi compagni lo
fissavano, indecisi sul da farsi. Quelli più giovani, due
ragazzi con i capelli verde acqua e il viso imberbe, si scambiarono
delle occhiate insicure tra di loro, prima di seguire gli altri. Tutti
avevano sguainato le spade, ma i falchi erano volati su uno sperone di
roccia. Il terzo, con ancora i brandelli di carne tra gli artigli, si
unì quasi subito. Non appena prese il volo, Arghail
afferrò l'ascia con uno slancio fulmineo e
affiancò di nuovo Airis.
- Spero tu abbia un piano. - le sibilò tra i
denti, attento a non perdere di vista nessuno dei nemici.
Airis fece saettare lo sguardo a destra e a sinistra. C'era
una rientranza nella parete di roccia a una decina di piedi alle loro
spalle.
- Hai ancora fiato? -
Arghail rimase un attimo interdetto. Arretrò con
lei, l'ascia stretta tra due mani davanti al viso, e girò
leggermente il capo.
- Potrebbero essercene altri nascosti. -
I Fae erano a una cinquantina di braccia e al loro capo
bastò seguire la traiettoria degli occhi di Arghail per
capire cosa avevano in mente. Il sorriso sulle sue labbra si fece
più largo.
Erano circa dieci di passi di corsa, quasi completamente allo
scoperto, sotto il tiro di altri arcieri, per infilarsi in una grotta
buia che conduceva chissà dove: un suicidio annunciato.
- Non abbiamo altra scelta. - rispose semplicemente.
Condivisero un ultimo sguardo d'intesa, poi Airis
scattò.