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Autore: Italo    22/11/2017    0 recensioni
Un corpo cavernoso. Un corpo cavernoso urbano. È qui che ci troviamo, non so dire se all’inizio o alla fine del viaggio, o forse entrambi insieme. In alto, mura naturali di pietra nera e intorno altrettanto, sotto di noi pavimento in cemento, di un colore stranamente simile al nero tutto intorno. Ai lati, due scale, forse portavano ad un sottopassaggio - eppure lo so, questa caverna ha la sua porta sulla spiaggia dell’isola di non so quale mare, forse Pacifico - una per lato, con un corrimano in ferro, arruginito, forse quasi pronto a sgretolarsi, anch’esso dello stesso strano appropriato nero tutto intorno.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Un corpo cavernoso. Un corpo cavernoso urbano. È qui che ci troviamo, non so dire se all’inizio o alla fine del viaggio, o forse entrambi insieme. In alto, mura naturali di pietra nera e intorno altrettanto, sotto di noi pavimento in cemento, di un colore stranamente simile al nero tutto intorno. Ai lati, due scale, forse portavano ad un sottopassaggio - eppure lo so, questa caverna ha la sua porta sulla spiaggia dell’isola di non so quale mare, forse Pacifico - una per lato, con un corrimano in ferro, arruginito, forse quasi pronto a sgretolarsi, anch’esso dello stesso strano appropriato nero tutto intorno. Ci lasciamo, io con mia madre, loro, non ricordo che fattezze avessero, forse eran tre, e forse chi mi rivolse l’ultimo saluto era donna. Parla, parole escono dalla sua bocca, quali chi lo sa, ma ricordo il contenuto: coraggio forza speranza, promesse, di un futuro enorme ingigantito strabiliante, non “ Farai strada” ma “ Troverai la tua strada”, quale futuro migliore di questo? Prima di vederci o dopo esserci lasciati, o forse entrambi insieme, io e mia madre ci dirigemmo ad una reggia, arroccata su un promontorio a strapiombo sul mare, forse lo stesso mare incontrato, se prima o dopo non si sa, ma di certo era una diversa isola: quella solo natura, questa di natura incastonata nella natura, di natura adoperata da mani e strumenti sapienti. Ci avviciniamo alle scale, alle loro spalle, nascosta da una rientranza nelle mura di antico affascinante nero, una porta, l’entrata di una cabina, piccola, con spazio per una persona appena. Noi ci entriamo in due. Parte. Era senza bottoni o leve, eppure parte. Si scopre essere un’ascensore, non ordinario – la tranquilla consuetudine è ormai sparita lasciando il posto a un incantato smarrimento – non in un'unica direzione né verso, ma avanti dietro sopra sotto destra sinistra, inizia a muoversi, segue un percorso ben evidente, lo si vedeva tranquillamente da dentro la cabina, segnato dal fil di ferro a cui si reggeva e dal gancio intorno al quale tremava, unica fonte di sicurezza per noi. Ci ritroviamo dapprima in un’altra caverna, appendice alla madre, vuota, con solo il rumore dello stridere del curioso ascensore sulla sua guida di ferro, d’un tratto esso ritorna alla sua funzione primigenia: si sale. I cuori trepidano, ci ritroviamo ad aver abbandonato la nostra cara nuda nera roccia e ad essere al cospetto di pareti figlie d’albero, certamente natura usata, non messasi a disposizione come la nostra grotta, varco tra mondi. Legno tutto intorno, statue, candide, di gesso e di marmo, di donne e uomini di epoche lontane, costumi strani, nudi e coperti solo da foglie o mani o labbra. Era una semplice stanza rettangolare, sui lati gli uomini immobilizzati dall’estro artistico, in fondo, due possibili vie, sinistra destra: scegliamo la destra, l’ascensore incurante scelse la sinistra. Vaghiamo ancora nei meandri di un’altra arcana grotta, neanche qui il nero d’ossidiana petrosa che tanto ci manca. Usciamo, c’è una ferita nella pietra. Di fronte a noi, l’immenso: isole, spiagge, mari interminabili e non finiti, lasciati incompiuti per potersi unire al cielo, azzurro rossastro giallo, il palazzo ci si rivela: guglie, archi, finestre, ogni singola ruga della sua pelle ci si svela. Era costruito così: le fondamenta inesistenti, appoggiato alla roccia che da tanta parte lo circondava, di pietra a mattoni, grigia, con coperture guglie e quant’altro viola, palazzo fiabesco; si vocifera che qui ci abitasse un signore pallido, affamato di vino umano, che abitava in solitudine con le sue tre mogli, succubi, odiato dal popolo come un uomo dal bestiame. Poi la sua casa venne posta su quest’oasi di sabbia e vento, troppo sole e gioia, rischiavano di rischiarare le sue membra e la sua anima, per sempre. Si trasferì, in qualche scatola o qualche mobilio, c’è addirittura chi sostiene sia il tappeto verde steso nella prima stanza, così da essere condannato ad ospitare l’ombra di chiunque entrasse in quel minuscolo ascensore, da padrone a senza valore. Lo spazio di tempo che restammo all’aria aperta nella contemplazione di quella vastità fu ridotto, rientrammo subito nel palazzo: finalmente riusciamo a scendere, chissà come, prima eravamo su, ora eravamo giù. Cercammo appagamento della nostra curiosità, ma trovammo solo ripetizioni a dismisura delle varie piccole componenti della prima stanza: pareti lignee, tappeti verdi, statue in finta bellezza e poi teche di sabbia rovente soffiata. Ci fu un’unica stanza che vale la pena citare: come le altre in realtà, senza verde però e con vetro al posto di albero su di un lato: e qui si riaprì l’ammirazione del sogno che era di fronte ai nostri occhi, credetemi, non si può esprimere a parole, ci sono zone del cuore a cui solo i silenzi possono accedere. Riprendemmo infine l’ascensore, ci riportò su: eravamo in un borgo cittadino adesso, al soffitto del castello e al cielo si sostituirono lastricato e casa, persone e tradizioni. Qui incontrai gente amica della prima isola, ed è qui che i due momenti, inizio e fine, capo e coda, si rincorrono l’un l’altro fino a riprendersi. D’improvviso quella cittadina, quel piccolo spiraglio di paese così simile al mio natio, in cui dominava il grigio, - ma più vicino al nero amico nostro d’ossidiana petrosa di quanto non fosse il palazzotto arroccato – si sovrappose al ricordo o forse all’esperienza dell’isola. L’ISOLA Non ero solo qui e probabilmente mia madre la incontrai solo dentro al cavo di pietra urbano. -Intendiamoci, ciò che chiamo “madre” è da pensarsi più come d’aria che come di carne, forse ora li chiamate spiriti, dei o mostri, ma lungi dall’essere colei che affettuosamente mi consegnò alla luce a alla sua visione cercò di educarmi. - Si viveva in capanne, foglie di palma come madri ad abbracciarci per coprirci dal freddo e come amanti a scaldare le nostre carni e offrirci riparo fra di loro come soffitto e pavimento e tutto quello che in mezzo ai due c’è. Chi c’era qui: il maestro, gli allievi, io e tanto altro che nell’amplesso della mia mente si getta nel flusso dei ricordi e lì si decompone rendendosi indistinguibile. Non posso dire altro, non compete alla mia mano comunicare questo, solo il mio cuore può offrirsi come gracile ponte per portarvi qui a sedere e mirare l’infinito. Credetemi, non c’è cantore né poeta che possa usare la sua maestria se non per, al massimo, delineare i vaghi contorni di quella vastità che si figura di cantare. Questo sogno vago e indefinito finisce, o forse vi inizia, qui, in questo luogo e nodo di tempo, dove l’amato incontra l’amata e al contempo si fuggono, dove la mano cerca lo scettro o la carne e trova solo vuoto, dove la mente cerca riposo e trova solo vacuità. Un’esoticità smodata, questo è tutto ciò che ricordo, nient’altro se non il suono di tribù lontane nel tempo e nello spazio, di esploratori e guerrieri, di lunghi viaggi in mare tra le epoche e voli tra le menti.
   
 
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