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Autore: JustAHeartBeat    22/11/2017    1 recensioni
Si ritrovò a sfiorare con uno sguardo curioso i lineamenti tondi, lattei, e gli occhi liquidi d’un argento limpido, ma allo stesso tempo inespressivi, si ritrovò a carezzare la linea imbronciata delle labbra sottili, ed al contempo visibilmente morbide, si ritrovò a perdere un battito del cuoricino nell’osservare la fossetta che in quel momento era comparsa al disopra del suo sopracciglio sinistro, inarcato, e si scoprì desiderosa di scoprire se un paio simili sarebbero comparse ai lati della bocca, se le avesse sorriso, si ritrovò ad osservare i capelli tanto biondi da sembrare bianchi, tirati indietro da qualcosa che sarebbe potuto assomigliare al gel babbano, pensando come sarebbero stati scompigliati . Ma come sarebbe tanta bellezza potuta essere nemica? Cos’era Scorpius Malfoy? Il giorno, forse? O la notte? Proprio non lo sapeva, ma Rose non era stupida, e sapeva che il giorno e la notte sono soltanto due facce della stessa medaglia, e Malfoy, era sicuramente entrambe.
Genere: Comico, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Albus Severus Potter, Rose Weasley, Scorpius Malfoy, Un po' tutti | Coppie: James Sirius/Dominique, Rose/Scorpius
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Incest | Contesto: Nuova generazione
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- Questa storia fa parte della serie 'Qualche Lentiggine Di Troppo'
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Buonasera, ragazze!
Lo so, lo so: nessuna si sarebbe mai aspettata di vedermi tornare (chi non muore si rivede, come si suol dire) eppure eccomi qui. Di nuovo. Prima di introdurvi questo nuovo capitolo, vorrei prendere un paio di minuti del vostro tempo per raccontarvi una storia. Probabilmente vi starete chiedendo se col passare degli anni le mie già barcollanti sinapsi si siano lentamente spente, eppure vi chiedo di aspettare qualche minuto, prendere una coperta e leggere, anche solo per buttare uno sguardo addietro a quella che penso sia la storia che accomuna molte delle ragazze (e perché no, anche dei ragazzi) che ancora, dopo anni ed anni, bazzicano su questo sito.
Precisamente sei anni fa, una me infinitamente più insicura e timida fece il suo ingresso, un po’ a tentoni, nell’immensa comunità di EFP, dapprima come lettrice silenziosa per poi racimolare dal coraggio altrui una porzione del proprio e pubblicare il suo primo scritto. Non sto qui a dilungarmi sulle dita tremanti a pochi millimetri dalla tastiera, né al battito cardiaco impazzito con la prima recensione, tuttavia, mi sento in dovere di condividere con voi la contentezza e la sincera spensieratezza dei due anni successivi. In vero, non ricordo periodo più felice, se quello in cui son stata totalmente ed incondizionatamente immersa in questa meravigliosa comunità (community per chi si sente più moderno). Gli anni purtroppo passano, gli impegni aumentano in maniera esponenziale e così anche le cose per a testa. Vorrei raccontarvi molte altre cose: vorrei parlarvi di come questo mondo mi ha cresciuta, da come ogni lettore a modo suo mi ha cambiato, dalle persone meravigliose che ho incontrato, ma non basterebbe un libro per farlo. Vi basti sapere che, quando iniziai questa storia, promisi di portarla a termine. Lo promisi alle ragazze che al tempo mi seguivano e lo promisi a me stessa. Per quanto di tempo ne sia passato, non è nella mia indole rompere le promesse e quindi eccomi qui. Ancora una volta a rompervi le Pluffe (per certi versi non crescerò mai, suppongo ;D).
Ora, prima di iniziare, volevo ringraziare di cuore Chiara e MalandrinaLunastorta che hanno recensito lo scorso capitolo. Grazie davvero, ragazze, a breve arriveranno le risposte alle vostre meravigliose recensioni! <3
Volevo inoltre fare un piccolo appello ad un’altra mia lettrice ed una grande amica che ancora oggi, a distanza di anni ed anni mi supporta (mi sopporta, più che altro) e che, ci tenevo a dirlo, è stata uno dei più grandi regali che questo posto mi abbia concesso: un grazie enorme anche a Fancy_Fondente <3.
Bene, dopo queste lunghissime note, vi auguro una buona lettura e ci ‘vediamo’ in fondo al capitolo!
 
 
Chapter XXIII
 
Sigarette
 
“La natura umana ha i suoi limiti:
essa può sopportare la gioia, la sofferenza,
 il dolore fino a un certo punto,
 e soccombe se questo è oltrepassato.”
-Goethe, I dolori del giovane Werther

 
 
Rose non aveva mai amato il suono di un respiro come quando, seduta sul bordo del lettino scricchiolante di Dominique, avvertì il suo petto alzarsi ed abbassarsi sotto le coperte. Forse per la prima volta in sedici anni si rese conto di quanto il suo sibilo sottile, esile e smunto sapesse follemente di vita. La stessa vita nella quale aveva riposto mille e mille speranze, la vita per la quale aveva pianto, pregato, che aveva agognato e che era stata sospesa in un limbo informe per troppo tempo.
È sorprendente quanto si rivaluti la vita quando si conosce il prezzo della morte. Quasi prodigioso, avrebbe osato dire. Per un momento, anche solo un piccolo istante, si scostano le cose irrilevanti, i problemi inutili, le insicurezze immotivate, qualche dubbio sparso, un paio di ricordi aspri e ci si trova davanti ad un infinita distesa di tutto ciò che valeva la pena di viversi appieno, ma che era rimasto remissivamente sommerso dal resto. Reagire al dolore è sempre un po’ come entrare in una cantina vecchia e lugubre: si spolvera un po’, si impila un’abbondante dose di scatole, una spazzata a terra, si buttano vie le cose rotte ed ecco uno spazio ampio, ordinato ed almeno un centinaio di volte più luminoso di prima.
Era pomeriggio inoltrato, il sole s’era lentamente spento e l’unica luce che filtrava dalla finestra era quella che il cielo concede quando è troppo acerbo per tingersi di notte ma troppo maturo per essere chiamato giorno.
Per quanto i vetri appannati fossero la chiara prova del freddo pungente all’esterno del San Mungo, le stanze erano riscaldate da un incantesimo di cui la ragazza non sfuggiva il nome.
“Non voglio parlare, Rose. Scusami” sussurrò Dominique, con gli occhi ancora chiusi. Rose quasi trattenne un singhiozzo nel sentire la voce trascinata e piatta della cugina. Sapeva che avrebbe dovuto essere disperata almeno un miliardo di volte più di quanto non fosse, ma proprio non ce la faceva. Tutto ciò che riusciva a pensare in quel momento era che davanti a lei v’era un corpo non più esamine, un volto che per quanto pallido conservava il rossore della pelle cotta dalle lacrime sulle gote, degli occhi stanchi e sofferenti ma vivi. E le bastava. Si sentiva indefinibilmente cattiva per questo, ma non poteva farne a meno.
Sapeva benissimo quanto nulla di quella situazione potesse essere cancellato, quanto sarebbe rimasto per sempre parte di tutti, parte di Dominique. Sentiva nella cugina, dalla voce tremante al semplice sguardo, tanto indescrivibile dolore da temere che potesse semplicemente averle sostituito il sangue nelle vene. Nello sguardo l’atroce rimpianto sembrava aver preso il posto delle iridi gelide. Sembrava ci fosse senza esserci davvero, come se la sua presenza fisica non giustificasse anche quella dell’anima. Come se una parte di lei fosse sparita. Come se una parte di lei fosse morta.
Rose era certa, in cuor suo, che Dominique non si sarebbe mai perdonata, che avrebbe passato i mesi successivi, gli anni, forse il resto della sua vita a passare davanti lo specchio senza il coraggio di vedervisi riflessa, che non avrebbe neppure tentato di guarire, che non sarebbe più tornata quella di prima. Ma in quel momento, si sentiva egoisticamente felice.
Piegò le labbra in un debole sorriso. “Non parleremo, Dom” le concesse, prendendole la mano tra le sue. Erano fredde. Si alzò dal letto per recuperare nell’armadio una coperta di lana dalle maglie larghe di un giallo canarino che dava la nausea solo a guardarlo e gliela stese addosso. La bionda accolse il gesto rannicchiandovisi meglio. Aveva riniziato a piangere silenziosamente.
Per quanto la riguardava, Dominique non capiva come fosse possibile vivere ancora. Non capiva proprio come si potesse respirare e convivere allo stesso tempo con la sensazione di avere il cuore strappato dal petto, l’anima monca, il corpo incavo, le mani sporche.  Ogni volta che qualcuno entrava nella stanza non faceva che proiettare l’immagine del suo bambino tra le braccia. Un bambino che non ci sarebbe stato. Aveva pensato che finalmente sarebbe finito tutto, che non avrebbe più dovuto mentire, che sarebbe potuta andare avanti. Ma niente era finito, niente sarebbe mai finito, in primo luogo la farsa che era abituata a portare avanti.  E piangeva ancora. Inutilmente. Per nulla. Sapeva di non avere il diritto di piangere, sapeva di non meritare l’occasione di poterlo fare. Quando chiudeva gli occhi era di nuovo lì, nel bagno, l’istante prima di pronunciare l’incantesimo. Spesso non lo pronunciava, spesso si gridava di non farlo, trovandosi impotente davanti ad una voce che non poteva controllare, davanti all’immutabile compiuto. Ed era come se le venisse succhiata via l’anima intera.
Lo meritava: meritava di essere viva, meritava di avvertire quel dolore sferzarle il corpo ogni stante con maggiore intensità, meritava di sentire il fiato mozzo in gola e soffocare lentamente ad ogni ricordo senza avere il sollievo della morte. La morte sarebbe stata il dono più bello e lei ne era indegna.
Si mosse un po’ sui cuscini. “Stai scomoda? Chiamo un medimago, chiedo se sia possibile avere un altro cuscino”. Nemmeno il tempo di finire la frase e Rose era già in piedi, diretta verso la porta. “Torno subito”. Dominique però, scosse il capo violentemente. “No, sto bene così”, bisbigliò solamente, poi si decise ad aprire gli occhi per fissare un punto non ben definito fuori dalla finestra. La Rossa sospirò. “Dom.. io..” si rese conto che le si stava spezzando la voce. Non continuò. Bastò lo sguardo che le rivolse, un piccolo, unico sguardo e seppe di aver detto tutte le parole che non aveva la forza di pronunciare. Poi, silenziosamente com’era entrata, uscì dalla stanza.
 
Nella sala d’attesa Albus sedeva mollemente su una delle sedie. Visitare sua cugina gli era sembrato quasi surreale: Dominique lo aveva accolto con il capo reclinato sul letto, quasi a peso morto, lo sguardo fisso e le lacrime che le rigavano le guancie. Non era stato in grado di bisbigliare neppure la più flebile delle parole, come se emettere qualsiasi suono avesse potuto compromettere la sorta di equilibrio che aveva stabilito tra il dolore e lo strazio disegnato sul volto. Erano rimasti semplicemente nella stessa stanza per un po’, in silenzio.
Si portò una mano al labbro rotto, avvertendo sotto i polpastrelli l’increspatura del taglio procuratogli da James qualche giorno prima. Certe ferite per quanto disinfettate impiegano troppo a rimarginare. Alcune non lo fanno.  Quella ne era l’esempio lampante ed Albus non sopportava la casualità con la quale nessuno avesse il coraggio di parlarne. Tutti quegli anni da Serpe a vivere nell’ombra di una famiglia giallo-oro, gonfia dell’orgoglio del coraggio e nessuno, dal valoroso Harry Potter alla coraggiosa Hermione Granger, aveva in coraggio di affrontare la realtà. Nessuno a parte lui. Lui che era un Serpeverde.
La sera stessa dopo la rissa con suo fratello gli era stato chiesto di controllarsi, di accettare il dolore degli altri,, di vivere nel rispetto e di ritrovare il se stesso che a detta di Ginny stava perdendo. Lui, stupido com’era ci aveva anche provato. Aveva guardato attorno a sé la propria famiglia stringersi, radunarsi accanto ad una Fleur sconvolta dal pianto, aveva guardato i cugini più piccoli aspettare inermi  che qualcuno riportasse a casa Dominique, senza sapere dove fosse, senza avere la minima coscienza di cosa fosse successo. Dunque aveva guardato se stesso e.. nulla. Non si vedeva. Non si vedeva più. S’era specchiato più volte, aveva provato a ricordarsi come fosse essere Albus Potter prima di tutto quel macello, aveva tentato e tentato più volte. Senza alcun risultato. Nello specchio, riusciva  a vedere solamente la pallida imitazione di un ragazzo moro. Solo contorni vuoti. Solo un’immagine tremula.
C’è chi dice che per stabilire i termini in cui si è se stessi bisogna stabilire prima la propria posizione all’interno di qualcosa di più grande. Albus non sarebbe stato in grado né di pensare alla prima, né tantomeno di concepire la seconda. Si era reso conto, da qualche giorno a quella parte, che probabilmente aveva perso il punto di se stesso un’infinità di tempo addietro ed avesse semplicemente continuato a vivere per inerzia, senza porsi troppe domande, vivendo giorno per giorno sulla linea del precedente e nulla di più. Il problema maggiore, come ripeteva sempre Rose, risulta essere sempre alla base di una piramide troppo alta per essere iniziata da capo.
“Albus, non hai mangiato nulla, sicuro di non voler nemmeno un sandwich?” gli chiese sua madre, appellando a mezza bocca un pacchetto di gomme babbane dalla sua borsa. Il ragazzo accettò l’involucro di carta stagnola che la donna gli aveva passato, alzando il capo l’istante in cui Rose marciò nuovamente nella sala, al termine del proprio turno di visita. Mentre questa si lasciava scivolare sulla sedia adiacente, addentò uno degli angoli del panino senza sentirne realmente il sapore farinoso ed unto.
 “Non pensavo potesse fare così male vederla” gli bisbigliò la ragazza, portando ambedue le mani nelle tasche della felpa azzurra. Albus si girò ad osservarla. Aveva il viso provato dall’insonnia, gli occhi lucidi, le iridi opache, il naso arrossato, sembrava che persino le lentiggini fossero impallidite, i capelli sciolti sulle spalle, più crespi e trasandati del solito. Il ragazzo non poté fare a meno di chiedersi quanto stesse soffrendo anche lei, tra un silenzio e l’altro. Sapeva che non era stata sola, ad Hogwarts e che Scorpius stesso si era appurato che non si lasciasse lentamente divorare dal dolore ma allo stesso tempo aveva rimpianto il non esserle rimasto accanto come avrebbe dovuto. “Nemmeno io” le rispose, finendo il suo pranzo senza nemmeno rendersi conto di aver riempito lo stomaco. La voragine che aveva destro non avrebbe mai potuto essere riempita dal cibo.
Si alzò dalla sedia, si spolverò via dal giacchetto le molliche di pane che erano cadute e dunque si volse verso Rose. “Ti va una boccata d’aria?” le chiese. La ragazza non disse nulla, lo guardò solamente per un istante. Poi assentì col capo. Il ragazzo aspettò pazientemente che la cugina si infilasse il cappotto, trovandosi così ad essere l’unica fonte di rumore presente in stanza assieme alle tazzine da tè volanti ed al rumore delle pagine di giornale sfogliate da un paio di maghi barbuti a qualche metro da loro.
L’aria fredda del pomeriggio li sferzò come uno schiaffo in pieno volto. La rossa, che aveva dimenticato la sciarpa sulla sedia della sala d’attesa, sentì la pelle ghiacciarsi e tendersi sotto la stretta ferrea del vento gelido. A stento trattenne un brivido, proteggendosi il più possibile con il cappotto di lana nero. Ogni respiro liberava un piccolo rivoletto di condensa.
Probabilmente tra poco più di una mezz’ora sarebbe finito l’orario di visita e Rose avrebbe dovuto riprendere il treno per tornare a scuola, eppure, nel cielo v’erano ancora dei rigagnoli cremisi, sfuggiti al manto scuro della sera inoltrata. Gli alberi secchi ed austeri conservavano ancora sui rami il frutto dell’abbondante nevicata del giorno precedente, così come anche i marciapiedi lastricati di ghiaccio e l’asfalto bagnato. Nel vasto cortile anteriore del San Mungo, tutto taceva.
Albus si diresse verso una delle panchine adiacenti ad un grande orologio a pendolo, sospeso ad almeno due metri buoni da terra. La ragazza lo seguì. Il marmo sotto di loro era umido ma nessuno dei due sembrò curarsene più di tanto.
“Come va il labbro?” gli chiese la Grifondoro, rannicchiandosi contro lo schienale della panchina con le gambe strette al petto. Il cugino fece spallucce, recuperando da dentro la tasca della giacca un pacchetto di quelle che Rose riconobbe essere Chesterfield Blu. Sigarette. Albus aveva con sé un pacchetto di sigarette.  La ragazza lo guardò interrogativa mentre questi, con disinvoltura, accendeva con un clipper babbano l’estremità della sigaretta, che già aveva  provveduto prontamente a schiacciata tra le labbra. “Da quando questa brillante novità, scusa?” continuò, scuotendo il capo ad ogni parola. Lui, mentre prendeva la prima boccata di fumo, gettò  lievemente il capo all’indietro. “Dalla settimana scorsa. Alleggeriscono la testa. Ne vuoi una?” rispose solamente. Rose sgranò gli occhi. “Tu stai scherzando, spero”. Un’altra scrollata di spalle. “Senti, Ro, non mi sembra tutta questa azione sconsiderata rispetto la situazione attuale, no? Rilassa, e poi ne fumo poche”. Tutto ciò che la ragazza riuscì a formulare fu uno sbuffo sarcastico. “Allora si che va bene” ribatté, distogliendo lo sguardo dal suo interlocutore a favore di un ben più interessante tordo, poggiato leggero s’uno dei rametti più piccoli di una grande quercia. Albus brontolò qualcosa di non ben definito.
Cadde il silenzio, intervallato da qualche respiro particolarmente pesante. “Se mi vedesse Dominique mi ritroverei direttamente al reparto Lesioni da Incantesimo, eh?” bisbigliò Albus, lasciandosi andare ad un piccolo sbuffo di risata. La cugina ebbe appena la forza di inclinare leggermente le labbra in un abbozzo di sorriso. “Ha passato metà esistenza a cercare di far smettere James” concordò dunque. Anche lui sorrise. “Ti ricordi quando l’estate scorsa ha utilizzato il suo primo incantesimo da maggiorenne per far levitare tutti i pacchetti di sigarette e farli svolazzare per tutto il cortile della Tana?”. Eccome se se lo ricordava Rose, aveva riso talmente tanto in quell’occasione che aveva temuto di poter perdere un polmone. La situazione però aveva smesso di essere divertente quando erano quasi stati beccati da nonna Molly e nonno Arthur di ritorno da Diagon Alley. Entrambi scoppiarono a ridere.
Rose aveva dimenticato l’ultima volta in cui aveva passato un po’ di tempo da sola con suo cugino. A pensarci bene dovevano essere stati anni. Le sembrò passata una vita da quando si divertivano a sgattaiolare nella cucina della nonna per rubare una fetta del dolce che era stato preparato solamente per la colazione della mattina successiva, quando passavano notti intere a giocare a scacchi o gobbiglie, o ancora quando non esisteva speranza di vita superiore ai dieci minuti per qualsivoglia segreto. Al tempo il loro sembrava un legame eterno. Ricordava di non essersi neppure mai posta il dubbio che potesse incrinarsi in qualche e modo. Ironica la vita. Le si strinse il cuore al pensiero di quante cose inutili le avevano strappato la possibilità di occuparsi di quelle importanti.
“Mi dispiace” gli sussurrò, senza sapere bene a quale delle troppe cose le dispiacessero si stesse riferendo. Albus aggrottò le sopracciglia, prendendo un’altra boccata di fumo, ancora un po’ impacciatamente. La ragazza sospirò. “Mi dispiace di aver chiuso il rapporto che avevamo” continuò, senza dargli la possibilità di rispondere. “Mi dispiace di non esserci stata come avrei dovuto”.  Sospirò. Se possibile il solo pronunciare quelle parole la fece rendere conto di quanto fermamente ci credesse. Non riusciva ad immaginare quanto Albus si fosse sentito escluso dopo lo Smistamento. Non poteva immaginare quanto fosse stato difficile ritrovarsi ad essere la pecora nera, doversi giustificare, partire sempre, anche se nell’ingenuità ed anche nella sincera incoscienza dei genitori, un po’ svantaggiato.
Non c’era stata quando durante il natale del loro prima anno, Albus si era trovato stretto in un maglione Weasley scarlatto, l’umiliazione del non sentircisi a proprio agio scritta sul volto. Non c’era stata quando durante il loro secondo anno Martin Groove, un Serpeverde all’ultimo anno, aveva deciso che un Potter non andava bene tra le Serpi. Non c’era stata quando durante il quarto anno Chelsea Logan, l’unica ragazza alla quale Albus si fosse mai interessato lo aveva mollato per un altro. Non c’era stata. Quelli, quelli come molti altri avrebbero dovuto essere i momenti in cui avrebbe dovuto essere al suo fianco. Ma non lo aveva fatto.
 “Mi dispiace di non avere dato a Scorpius una possibilità quando me lo hai chiesto”. Allungò la mano per sfilargli dalle dita tremanti la sigaretta, poi se la schiacciò tra le labbra ed aspirò Senza sapere neppure cosa fare, l’unica reazione che il suo corpo fu in grado di avere fu quella di sputare fuori quella boccata di fumo eccessivamente abbondante. Albus la osservò tossire schifata con un velo di divertimento disegnato sul volto. “Non dovevi mandarlo giù, dovevi soffiarlo fuori” la corresse, paziente, come se le stesse insegnando l’alfabeto. Rose lo fulminò con lo sguardo. “Lo sto facendo!” fu in grado di esclamare tra un colpo di tosse e l’altro.
Il fumo amaro le grattò prepotentemente le pareti della gola, fin giù, tanto che alla ragazza parve di sentirlo fin nei polmoni. Tuttavia capì cosa intendesse suo cugino: non appena espirato il primo soffio aveva avvertito il proprio capo alleggerirsi vorticosamente, tutto in un sol colpo, quasi come se insieme al fumo stesse gettando via anche i propri pensieri. Se un tutti, una parte significativa. Per una frazione di secondo. Ci mise un paio di minuti a riprendersi, gli occhi inumiditi dal troppo tossire.
Prima di ripassargli la sigaretta la guardò per un attimo. L’estremità accesa brillava nella foschia serale con tanta intensità che avrebbe potuto benissimo essere scambiata per una piccolissima lampadina, mentre il torso veniva mangiato dal vento, accorciandosi visibilmente ogni ticchettio di orologio. Alla fine, pensò la ragazza, non siamo poi così diversi dalle sigaretta. Alla fine ci si ritrova tutti un po’ ad avere l’occasione di fare fumo il tempo necessario a spegnerci.
“Scorpius non è mai quello che sembra fino a quando smetti di affidarti all’apparenza.”. La rossa aveva più volte avuto l’occasione di ascoltare il cugino immergersi in uno dei suoi monologhi pro-Malfoy, eppure quella volta avvertì la verità dietro le parole arrivarle addosso con la forza di un autotreno.
Scorpius non è mai quello che sembra. Aveva imparato a capirlo da sé. Aveva imparato a notarlo nelle sue piccole incoerenze, nelle parole austere accompagnate da uno sguardo dolce, in una stretta forte piena della fragilità del dubbio. Aveva persino imparato a riconoscerlo nel solo sguardo. Scorpius non è mai quello che sembra. Si rese conto di quante volte avesse sospettato che l’unico proposito del ragazzo fosse stato quello di vederla debole, per una volta. Aveva sempre immaginato di dover lottare per dimostrargli di non essere in grado di sottostare a qualcosa. E Scorpius, in fin dei conti, aveva sempre cercato di farla vacillare. Persino con i baci, persino con le carezza, persino con la passione. Eppure quei giorni non era stata forte. Quei giorni era caduta su tutta la linea. Quei giorni gli si era rivelata con la stessa facilità con la quale si sarebbe sfogata con Dominique. Lui, dal canto suo, aveva passato il suo tempo a riportarla in piedi. Con le parole, con i piccoli gesti, con le emozioni.
“Lo so” bisbigliò, più a se stessa che ad Albus. Questi sorrise appena. “Lo so che lo sai.” Le rispose casualmente, spegnando la sigaretta in una delle grosse pozzanghere d’acqua. Rose si voltò a guardarlo negli occhi. “Quanto sarebbe stupido se ti dicessi che alla fine mi ci sono affezionata?” gli chiese, la fronte corrucciata e le braccia conserte. Albus fece spallucce. “Non so, quanto sarebbe brutto se ti dicessi che so benissimo che avete una tresca da almeno due settimane?”. La ragazza aveva aperto e chiuso la bocca un paio di volte. Poi si era accorta di non essere imbarazzata, si era accorta di quando non ci fosse in lei neppure un briciolo di vergogna e di  quanto in fondo, condividere un segreto con suo cugino ancora una volta, le avesse dato un profondo senso di leggerezza.
In fin dei conti, se proprio dobbiamo essere sigarette, bisogna che facciamo in modo che la vita fumi via nel migliore dei modi.
 
 

Eccoci qui, a fine capitolo, come sempre.
Bene, bene, bene.. cosa dire? In realtà il capitolo per quanto riguarda i contenuti penso che parli da solo, quindi, dal mio punto di vista, mi limiterò a dirvi che penso sia stata una delle cose più complicate abbia mai scritto. In primis perché (mea culpa, ovviamente) ho dovuto rileggere l’intera storia per poter tornare a pensare con la testa dei personaggi. Dunque perché l’argomento non è semplice ed ammetto di essere stata troppo avventata nella decisione di affrontarlo. Ad ogni modo spero sempre di dare il meglio di me, per quanto questo possa essere limitato.
Ne approfitto inoltre per dire che, come mi ha anche fatto notare MalandrinaLunastorta nella sua recensione, rileggendo tutto ho notato un’infinità di terribili Orrori ortografici che non avevo mai visto (Ho scritto ‘Ha’ di ‘avere’ senza H.. appena l’ho visto ho avuto una crisi di pianto isterico) ed ho pensato che una bella revisione sia più che necessaria, quindi, non appena finirò la storia, provvederò ad aggiustare tutti i tremendi errori che ho commesso (mi sento di parlarne come se fosse un crimine, credo proprio sia il caso)
Penso che le comunicazioni di servizio siano terminate,  un bacione a tutte ed alla prossima!
Bacionissimi(?) [1]
JustAHeartBeat
 
[1] Scriverlo dopo quasi un anno è commuovente.

 
   
 
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