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Autore: Diana LaFenice    24/11/2017    1 recensioni
Quando una canzone è tutto ciò che ho, allora è lì che do il meglio di me stessa.
Anna è una ragazza come le altre ma con una smodata passione per la musica. La musica è la sua migliore amica e l'unica che le rimanga accanto nonostante tutto senza giudicarla mai.
Ed è proprio la musica a donare colore al mondo che la circonda.
Genere: Poesia | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Quando una canzone

‹‹È
quando ho soltanto una canzone che do il meglio di me stessa.›› Ecco cosa rispondo alle persone che mi chiedono come faccio a fare quello che faccio. Sono una pittrice.
Spesso mi avete vista disegnare per strada o sui gradini dell'università, ma non vi siete mai chiesti chi sono, vero? E come potreste? Non potete. Non sono la classica bellona che quando passa per strada si voltano tutti. E non sono la persona più popolare del mondo. Anzi, si potrebbe dire che io appaia quasi insignificante. Se mi vedete spesso mi assimilate alle zingare per le mie gonne variopinte da contadina che spazzano per terra. Ma se mi guardate bene vi vengono i dubbi per la mia pelle candida e i capelli ramati e il sorriso che vi rivolgo.
Ecco. Io sono quella ragazza.
Mi chiamo Anna.
E sono un'artista.
Io lavoro quando meno ve l'aspettate.
Io lavoro per strada la mattina presto o nel tardo pomeriggio per la città in ricostruzione. Sono mie le opere che vedete sui nostri grigi marciapiedi o nelle mostre. O ai concorsi d'arte. Sono mie quelle opere che fotografate e postate sui social. E sono felice di vedere come le rendete famose con le vostre foto.
Ho cominciato a disegnare quando ero molto piccola. È stato papà a insegnarmi. E il nonno ha insegnato a lui. Ma loro non hanno mai fatto quello che faccio io. Non ho mai capito perché. Anche se gliel'ho chiesto spesso, ottenendo solo silenzio e rossori di risposta. Immagino si vergognassero.
Alle elementari sapevano tutti che disegnavo.
Poi dopo le medie smisi.
E’ stato dopo il liceo che cominciai a usare la città come tela per le mie opere. Durante le scuole superiori questo era ancora un embrione di pensiero dentro la mia testa. Un’idea con la quale amavo trastullarmi quando non avevo niente da fare.
In quel periodo mi aveva lasciato da poco il mio ex ed ero distrutta. Ci eravamo conosciuti a scuola grazie a un corso di recupero d'italiano. Per me fu amore a prima vista ma non fu così per lui. Quando non me la sentii di andarci subito a letto mi lasciò senza motivo per correre dietro ad altre ragazze.
E sprofondai in un periodo nero domandandomi dove avessi sbagliato e cosa avessi fatto di male. Io non avevo fatto niente. Sembrava che il mondo mi fosse caduto addosso. Avrei voluto aprirmi, confidando nell'aiuto di qualcuno, o confidarmi con qualcuno. Ma non avevo amici e quei pochi conoscenti che avevo si lasciarono avvelenare dalle parole del mio ex. Che prese a dipingermi come una frigida. E non mi andava di parlare coi miei, nonostante tutto il sostegno. Perciò a tenermi compagnia in quel periodo fu la musica. L'mp3 divenne il mio migliore amico. E, dopo tre anni di inattività ripresi in mano tele e pennelli. E scoprii di non aver mai perso la mano. E che mi sembrò di aver ritrovato una parte di me che avevo perso. Come quando si ritrova un anello molto caro che non si sperava più di ritrovare. E più dipingevo più il dolore andava via. In un mese avevo già dimenticato tutto e avevo ritrovato il sorriso. I miei ne furono contenti.
A diciassette anni le cose cambiarono. La mia fama venne accantonata dall’opinione generale e il mio ex trovò qualcun’altra da tartassare. Cominciai a riversare sulle tele ciò che le canzoni mi suggerivano e immaginavo indipendentemente dalle parole. E per me il mondo ritrovò quei colori che aveva perso.
A diciotto anni cominciai a disegnare in classe, beccandomi sì qualche rimprovero dai prof ma anche l'ammirazione dei medesimi e dei compagni. Per la prima volta capii cosa significasse essere al centro dell'attenzione per qualcosa di positivo. Anche se per loro ero niente di meno e niente di più di una geisha, un'intrattenitrice, un'artista. Infatti per disegni e simili mi cercavano sempre. Mi dicevano che avevano qualcosa di magico. Anche di naif per i colori. Ma li amavano e non smettevano di chiedermeli. Avrei potuto mandarli affanculo ma la verità era che mi faceva piacere disegnare per loro. E poi la voce sulla mia bravura si sparse per tutta la scuola. Ma io non sono mai stata un tipo orgoglioso. Per cui non me la presi e feci finta di niente anche alla loro indifferenza.
A diciannove anni partecipai a un concorso di pittura scolastico. Per puro caso venni a sapere che avrebbe partecipato anche il mio ex. Il quale si dilettava di pittura. Neanche lo immaginavo. Penso che non sapesse del mio talento. Altrimenti mi avrebbe chiesto qualcosa. Ma alcune persone sono così: non gli importa niente del mondo oltre loro stessi.
Quando mi vide mi domandò: ‹‹Oh, ciao. Partecipi anche tu?››
‹‹Sì››.
‹‹In bocca al lupo››.
Poi se ne andò. Io lo fissai per tutto il tempo che restò nel mio campo visivo. Il passare del tempo lo aveva imbruttito. E da quel poco che avevo conosciuto di lui mi domandai cosa c'avessi trovato anni prima. Vorrei potervi dire che lo odiavo ma non è così. Il tempo aveva cancellato tutto.
Il tema del concorso era "Il mondo attraverso i miei occhi". Sembra facile a dirsi. Non lo è altrettanto a farsi.
Il mondo cambia a seconda dell'osservatore.
Alcuni dicono faccia schifo.
Altri credono che sia di frutta e canditi.
Ma io?
Io come lo vedevo il mondo?
Passai quasi due mesi a scapicollarmici finché un giorno, a una settimana dal termine della creazione prevista dell'opera; mentre tornavo da scuola con l'autobus, indossai le cuffie e di canzoni in canzone ebbi la mia risposta. Cioè che il mondo era a colori. Tirai immediatamente fuori dallo zaino il quaderno e cominciai a buttare giù lo schizzo iniziale. Ero così presa che di già tanto se mi ricordai di scendere alla mia fermata. Corsi in camera e cominciai a disegnare.
Tempo due giorni ed era pronto.
Quando portai a scuola quella tela grande quanto me a scuola attirai numerosi sguardi incuriositi.
I dipinti vennero appesi per i corridoi.
Gli studenti sarebbero stati i nostri giudici. Avrebbero votato l'opera migliore strappando un tagliandino colorato senza numero tipo Ipercoop e lo avrebbero deposto in un'urna apposita. Il mio era giallo. Poi in base al conteggio i prof avrebbero decretato il vincitore.
Osservai le opere dei miei concorrenti. Erano veramente splendide e al confronto parevano far sfigurare il mio quadro. Anche se le tele erano molto più piccole. E detesto ammetterlo, ma si erano impegnati tutti molto. Lo capivo dai capannelli di persone radunate di fronte alle croste (termine tecnico) e dai loro commenti entusiastici.
Io avevo raffigurato me stessa nell'angolo in basso a sinistra che disegnavo e il disegno prendeva vita dal foglio e da me stessa. Avevo disegnato l'acqua, l'aria, il fuoco, la terra che danzavano insieme. Poi uno stuolo di farfalle e uccelli che passavano da uno sguardo riflettente una diversa realtà a un altro assumendone i colori. Avevo disegnato leggende che si rincorrevano come ricami e figure dipinte su un kimono. Stelle e costellazioni. Continenti con le loro tradizioni. Feste. Vita e morte unite in un caldo abbraccio. Solitudine. Coraggio. Amore. Ma anche dolore e vittoria. Rinascita. Ma non era un guazzabuglio.
Sconsolata rientrai in classe.
Nei giorni seguenti neanche guardai la mia opera. Tanto era ovvio che la vittoria sarebbe andata al mio ex. I prof avevano detto che la sua opera era molto espressiva. Solo per scoprire due settimane dopo di aver vinto io. Ma lo dissero i miei compagni. Io non capivo di che parlassero. ‹‹Vieni a vedere. Vieni!›› Mi trascinarono in piedi tutti felici e commossi. Pensavo scherzassero ma era tutto vero.
Vinsi perché ‹‹Hai cercato di rappresentare il mondo ma hai fatto anche di più. Ci hai commosso. Abbiamo sentito la musica i suoni e la passione che ci hai messo. Ci hai messo anche te stessa, letteralmente. Il tuo quadro è una poesia››.
Tutti mi applaudirono. E persino il mio ex fece una faccia ammirata anche se minimizzò tutto dicendo: ‹‹Niente male››.
Dopotutto era arrivato secondo. Solo per farmi terra bruciata attorno per tutto il periodo che fummo a scuola e oltre. Finché un giorno non mi trasferii.
Adesso ho ventisette anni e mi sono trasferita in un'altra città. Vivo da sola e per pagarmi da vivere dipinto e lavoro in un bar.
In questi anni ho avuto molti amori e finalmente ho qualche amico. Però non ho mai messo da parte il mio primo amore, cioè l'arte. E ora ho occasione di dimostrare quanto valgo. Questo mondo è complicato. E se non hai le conoscenze giuste non vai da nessuna parte. Spesso mi dicono che le mie opere sono troppo infantili. Anche se in realtà quello che faccio di infantile non ha nulla. Per lo più muovono critiche ai colori e le varie sfumature che uso. Ma più vado avanti più il mondo ha bisogno di colori. Per questo ho cominciato a dipingere abusivamente per strada. Sia tele che opere con gessetti colorati. È una faticaccia e spesso mi fanno male la schiena, le ginocchia e le mani. E spesso me li cancellano. Ma ne vale la pena quando vedo le persone sorridere o commuoversi di fronte alle mie creazioni.
Poi verso il 21 di giugno c'è stato il terremoto. Sono morte trecento persone e alcuni tra i palazzi più antichi sono crollati anche per la scarsa manutenzione o perché non a norma di sicurezza. Fortunatamente il mio condominio era ancora in piedi e, a parte una crepa, non era successo niente.
Sono stata fortunata.
Molte persone si sono messe a fare volontariato. I cantanti hanno raccolto fondi di beneficenza per aiutarci. È venuto persino il presidente del consiglio a farsi pubblicità in vista del prossimo, ennesimo referendum. I credenti gridano al miracolo perché le statue della Madonna e dei Santi si sono salvate. Ma tempo pochi mesi che la notizia del terremoto è già passata di moda e nessuno si ricorda più di noi. Ed è qui che entro in gioco io. Mi sono ricordata di quello che mi dissero al concorso del liceo. Forse non posso salvare tutte quelle persone. Ma potrei restituire loro un sorriso. Per questo ho cominciato a riempire la città di opere d'arte.
I passanti che cercano di ricostruirsi una vita mi lanciano occhiatacce e mi urlano che è fatica sprecata. Che tanto la pioggia e i lavori futuri cancelleranno tutto. Ma non li ho mai voluto ascoltare.
Nessuno le guarda mai ma non mi arrendo.
Un pomeriggio dopo pranzo, mentre sto lavorando a un disegno in trompe l’oeil un ragazzino mi si avvicina. ‹‹Che cosa stai facendo?›› ‹‹Dipingo››.
‹‹Ma perché?››
‹‹Perché voglio che smettiate di piangere. Perché voglio vedervi sorridere di nuovo. Ed è l'unico modo che conosco per farlo››.
‹‹Ma come fai?››
‹‹Con la musica. L'ascolto sempre. Ho stoppato l'mp3 perché sto parlando con te››.
‹‹Capisco.›› Poi aggiunge ‹‹Sai che le persone non vogliono che tu dipinga?››
‹‹Ah, sì?›› Replico con un sorrisetto divertito. Lo guardo. Non avrà più di sedici anni. ‹‹E tu?››
‹‹Io?›› Annaspa in cerca di parole. Poi arrossisce come un peperone e scappa via. Non l'ho più visto. E intanto ho completato la mia opera. Ho riprodotto un giardino sulle macerie. Muri e strada. Sembra di essere in un parco. E a me fa molto Robin Hood della Disney.
Ma ai miei concittadini non piace. E hanno firmato una petizione per cancellarle. La mia opposizione non è servita a niente.
Sono sprofondata nel dolore più nero. Credevo di fare del bene e invece... 
E non ne sono riemersa finché un giorno non mi sono accorta che dei ragazzi stanno seguendo il mio esempio. Stanno cominciando a riempire la città di disegni come tanti streetarter. Ma più di ogni cosa, mi accorgo che stanno cercando di fissare le mie opere con tinte che resistono agli agenti atmosferici. E che per ogni centimetro cancellato le rifanno. E cercano di proteggerli con le cerate. Lo fanno di sera quando sono sicuri che i genitori non vedano. Poi postano il loro operato sui social. Una sera li ho visti e tra di loro c'è il ragazzino che ha parlato con me. Mi hanno detto che hanno capito quello che faccio e vogliono aiutarmi. Non ho mai visto così tanta determinazione negli occhi di un adolescente. Benché meno in così tanti tutti insieme. ‹‹Tu dipingi e dicci cosa fare. Noi ti aiuteremo››.
Non posso fare a meno di commuovermi. Rischiano la loro vita - perché ci sono state altre scosse; anche se di magnitudo inferiore e l'allarme non è cessato - e vanno contro la loro città per me. ‹‹È un sogno...›› Mormoro. Ma i ragazzi rispondono scuotendo il capo. E dentro di me la musica si accende e mi riempie illuminandomi.
Improvvisamente vengo colpita dalla loro emozioni e dalla loro intensità.
Emozioni che cerco di fissare ogni giorno nel colori.
Emozioni che giorno dopo giorno si attenuano sempre più in me. Mentre la musica resta sempre uguale. E io no.
Abbiamo avuto un'idea. Abbiamo collegato un impianto stereo all'altoparlante e lavoriamo a ritmo di musica.
Ogni giorno si aggiungono persone e finalmente scorgo qualche adulto e coetanei. E pure genitori e disoccupati che ci portano da mangiare e bere se siamo stanchi. Alcuni registrano video e alcuni studenti del dipartimento di disciplina di scienze dello spettacolo hanno girato un documentario sulla città e quello che stiamo facendo. Mi hanno intervistato. E hanno partecipato a mostre e concorsi cinematografici e hanno vinto.
La voce si è sparsa e ora, a distanza di due anni le telecamere dei tg sono di nuovo da noi. Ci chiamano "La città dei miracoli" perché abbiamo riempito d'arte questo posto e abbiamo trovato il modo di risollevarci da soli senza l'aiuto dello Stato, sfruttando questa mostra d'arte in scala di città. Abbiamo fatto tutti i permessi quindi è tutto legale. I turisti hanno cominciato ad arrivare a frotte già nel primo anno. E pagano per aiutarci. I volontari procurano i colori. E ora abbiamo anche gli scultori. Abbiamo richiamato altri artisti che ora lavorano con noi.
E un giorno mi sono vista arrivare proprio il mio ex del liceo. Lo stesso che mi ha rovinato la vita subito dopo il concorso. Ora ha trentadue anni. Lavora come impiegato e sta già meglio rispetto al giorno del concorso. Mi ha offerto un caffè. Sono stata tentata dal rifiutare ma di fronte al suo sguardo implorante e alla sua supplica ‹‹Almeno ascolta cosa ho da dirti›› non ho rifiutato. Dopotutto non sono più una ragazzina, e vorrei capire perché farmi questo.
‹‹Ti ho odiata quando vincesti a scuola, mettendomi in ombra, sai? Oh sì. Io che ti odio. Ma è vero. Non lo sopportavo di essere ignorato così. In questi anni però ti ho seguita sui social. Alle mostre e i concorsi e ora qui. Eri la mia ossessione. Ho provato a copiarti perché pensavo che sarei diventato qualcuno ma mi sbagliavo. Ho anche provato a ostacolarti e un po' ci sono riuscito. Ma non era soddisfacente come credevo. Mi sono iscritto all'università e sono diventato professore di storia dell'arte alle medie. Quei ragazzini mi hanno cambiato. Io sono cambiato e mi sono accorto di essermi comportato come un ragazzino. E ti chiedo scusa. E quando mi sono trasferito qui e c'è stato il terremoto e tu hai avuto il coraggio di fare qualcosa li ho incoraggiati a seguire il tuo esempio››.
‹‹Perché?››
‹‹Perché grazie a te ho capito cosa dovevo fare per salvare me stesso e quel ragazzini. E per chiederti scusa per tutto ciò che ti ho fatto. Anche quando stavamo insieme››.
‹‹È un po' tardi per questo. Non credi?› Gli dico con calma.
Lui sorride. ‹‹Lo so. Ma volevo dirtelo. Non sto facendo il cascamorto. Voglio solo fare la mia parte. Se vuoi posso aiutarti a gestire tutto questo è ampliarlo. Tu dimmi cosa devo fare e sarò felice di aiutarti. Fosse anche portarti da bere››.
‹‹Grazie. Ma non occorre. Puoi sempre dipingere assieme a noi.›› Gli sorrido.
‹‹Mi piacerebbe molto››.
‹‹Allora vieni. Prendi un pennello e unisciti a noi.›› Gli dico con un cenno del capo. Sempre sorridendo. Sono contenta per lui.
‹‹Volentieri.›› Ci avviamo al piano di lavoro e gli porgo un pennello e una tavolozza. Li prende e mi accorgo che, da come li impugna, che non ha mai smesso di dipingere neanche lui. Però una volta davanti al muro lui esita e gli chiedo cosa c'è. ‹‹Mi potresti insegnare?››
‹‹A fare cosa?››
‹‹A dipingere come te?›› Suggerisce, ma nella sua voce leggo molto di più. 
‹‹Non c'è un metodo. Dipingi quello che hai nel cuore.›› Dalla faccia che fa sembra che non sappia neanche lui che cosa abbia nel cuore. Ma ho il sospetto che lo scoprirà presto. Lui pare aver capito e ci mettiamo a dipingere e mentre la mia creazione prende forma mi chiede: ‹‹Come ci sei riuscita a fare tutto questo?››
‹‹Sono partita da una canzone. Perché a volte una canzone è tutto ciò che si ha. Dalla musica ho tratto tutto››. È vero ho solo la musica. Ma quanti viaggi ho fatto grazie a lei. E sono tornata da questo viaggi apposta per riportarli e colorare il mondo. Non voglio un mondo grigio e morto. Perché io amo la vita e la vita, come la musica, è a colori.
   
 
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