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Autore: id_s    24/11/2017    1 recensioni
Pensa che forse, infine, è riuscita a perdere il senno, impazzire completamente al punto di non distinguere più la realtà dai suoi incubi ricorrenti – davanti ai suoi occhi terrorizzati Gellert compare e scompare, l’attimo prima ride (di lei, della vita, del mondo incapace forse di comprendere fino in fondo l’oscurità della sua mente) e il momento dopo è morto, e la magia di Ariana ha nuovamente nutrito il mostro, è sfociata nella tragedia una volta di più.
Questa storia partecipa al Contest dei Momenti Perduti indetto da Mary Black sul forum di efp.
[3154 parole]
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aberforth Silente, Albus Silente, Ariana Silente, Gellert Grindelwald
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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Titolo della storia: Fiorisce il tormento.
Pacchetto scelto: 8. Il Seme della Follia
Rating: Giallo
Contesto: Dai Fondatori alla I Guerra Magica
Genere: Giallo



 

Mani.

La prima cosa che Ariana ricorda
sempre sono mani fredde, violente e crudeli.

Perché?
Si contorce nel letto, qualcosa dentro di lei le impedisce di respirare – è un peso inconcepibile, quello che percepisce all’altezza del petto, le blocca i polmoni e lei sa, sa di stare per crollare.
Cos’è successo davvero?
Ogni volta che prova a pensarci la sua mente si ribella e tutto si frantuma, e quelle mani sono di nuovo su di lei, picchiandola, facendole male.
Perché?
Sente delle voci. Sono voci sprezzanti, pronunciano parole dure eppure in fondo lei sa, nella sua ingenuità di bambina, sa che il tremolio in quelle frasi non è di rabbia, ma di paura. Paura di cosa? C’è forse qualcosa di cui aver paura? Vorrebbe piangere, piangere perché quelle mani le stanno facendo male, piangere perché il terrore che le blocca le membra è cieco e destabilizzante, la immobilizza e lei non può fare altro che restare così, inerme contro la crudeltà di quelle persone.
I colpi continuano, sempre più forti, sempre più decisi.
- Dalle alla strega! -
- Ci ucciderà tutti, statene certi -
- Lo sapevano tutti che i Silente sono mezzi matti, mamma dice che parlano con il diavolo! -
Le voci adesso hanno dei volti a cui rispondere. È il ragazzo che abita in quella villetta bianca, quella con i fiori alle finestre che sta in fondo alla via; è il figlio del fornaio, e la bambina con le trecce nere che viene picchiata dal fratello quando i genitori non guardano.
Sono pochi, eppure le sembra di non vedere il cielo oltre quel gruppo accalcato su di lei.
Sono solo ragazzini, eppure le sembrano giganti.
Ariana, finalmente, piange.
È un suono flebile, poi, quello che abbandona le sue labbra con quel poco fiato che le resta – un calcio, un altro ancora – prima che il mondo si faccia nero – una mano si abbatte contro la sua spalla con l’ennesimo pugno, dolore cieco.
Il nome di suo fratello. La sua salvezza.
- Albus. . . -
Improvvisamente, il dolore cessa di esistere e tutto si fa buio.

 

 

- Che ha la ragazzina? -
Ariana apre d’improvviso gli occhi chiari, smette di dibattersi, scatta a sedere.
Il corpo esile è completamente sudato, ha il respiro corto, la paura ad attanagliarle ancora le viscere in una morsa dolorosa e tenace, non la abbandona mai del tutto, neanche quando la luce si fa spazio nel suo campo visivo e lei torna alla realtà.
Neanche dopo dieci anni.
Nasconde il viso tra le piccole mani pallide, le dita fredde un sollievo contro la sua testa che sta per scoppiare. Non qui, non ora.
Scalcia via le coperte, posa i piedi nudi sul pavimento gelido e rabbrividisce, ma non si ritrae.
In un attimo Aberforth è lì davanti a lei, inginocchiato per guardarla dritto negli occhi.
Ha le iridi azzurre come lei, suo fratello, ma sono di un azzurro più acceso, del colore del cielo d’estate; sono occhi luminosi, non slavati come i suoi. Non sono fatti per ospitare tutta quella preoccupazione che invece lei riesce a scorgervi, sono fatti per sorridere, amare, per la felicità.
Non sono occhi spenti come quelli di Ariana, e per Merlino, pensare di essere la causa di tanto dolore è per lei insopportabile.
- Stai bene? -
La domanda di per sé vuole essere innocente, ma nasconde un altro significato e lei lo sa, lo sa e si spaventa. Nonostante ciò si costringe a non piangere, decisa a non fare null’altro se non spostare la coltre dei suoi capelli scuri dal viso sudato, imponendosi un sorriso.
- Ho solo avuto un brutto sogno… - dice, cerca di minimizzare perché, se c’è una cosa capace di scalfirla più della sua stessa mente, dei suoi ricordi nascosti dietro ogni angolo, è la paura dei suoi familiari.
Aberforth crede lei non sappia, non senta il suo sguardo agitato a controllarla costantemente, anche quando lei stessa non sa dove lui si trovi – aspettando, pronto al momento in cui il mostro sfuggirà al suo debole controllo.
Se ne rende conto, lei, nei suoi sedici anni fatti di paura e dolore, nella sua adolescenza fatta di affetto, consumata dal desiderio di poter andare via, scappare lontano senza doversi preoccupare di poter essere un pericolo per le persone intorno.
Senza doversi chiedere se, in fondo, non sia proprio lei, il mostro.
- Tuo fratello dovrebbe starle meno addosso, Albus. Ha detto che sta bene, no? -
Il sangue, che fino a quel momento aveva percorso in lei una corsa folle e incontrollata, al ritmo furioso scandito dal suo cuore affannato, improvvisamente le si ghiaccia nelle vene.
Vorrebbe girare il capo ma l’ennesimo colpo della paura la fa restare lì dov’è, ferma, con lo sguardo puntato sulle proprie mani intrecciate ansiosamente sul suo grembo.
Irriverente.
Dovendo scegliere una parola con cui descrivere quella voce, Ariana sceglierebbe probabilmente quella – quella, oltre che sottile, ironica, sprezzante, crudele odiosa terribile amata.
Lui lo sa.
Se c’è una cosa che Ariana ha sempre pensato di Gellert Grindelwald, di quel ragazzo fatto di spigoli e ombre e linee scarne, è che lui sappia, che lui possa capire cosa significhi covare un mostro dentro di sé e lasciargli fare da padrone, nel costante timore della prossima volta in cui esso deciderà di attaccare.
O forse, invece, sono solo congetture le sue. Gellert la guarda dall’angolo della stanza, è seduto al tavolo con suo fratello Albus – Albus e i suoi occhi severi, Albus e la sua intelligenza, lui che era sempre stato oggetto della sua ammirazione – e il suo sguardo è derisorio, piantato con irriverenza sulla ragazzina e sul suo corpo scosso dai tremiti di freddo, sui suoi capelli attaccati alla fronte ed i suoi occhi cerchiati di nero.
La deride, lui, ed è la goccia che fa traboccare il vaso – la realtà che non avrebbe mai voluto accettare, che oltrepassa il limite e frantuma il fragile specchio del suo autocontrollo, e infine eccolo lì, il mostro.
La magia esplode da lei con un boato, mentre i ricordi si impossessano nuovamente della sua mente scheggiata.

 

 

Solitudine.

I ragazzini del vicinato non la volevano, nei loro giochi.
Prudence, la bambina dalle trecce nere, le aveva detto che la mamma si sarebbe arrabbiata, se l’avesse scovata a parlare con lei.
E un’altra volta Ariana aveva sentito il fornaio sbraitare con la coppia di anziani che abitava dirimpetto alla sua casa ogni sorta di insulti contro “i Silente e quella strana figlia con l’aria da diavolo”.
Lei non lo aveva raccontato alla mamma, non voleva farla preoccupareera piccola, eppure in cuor suo capiva la cattiveria nascosta anche nelle parole che non conosceva.
Non racconta niente di ciò che la fa star male: è felice di passare le sue giornate a giocare in giardino, o con Aberforth o ancora Albus.
Ariana adora Albus. È a lui che i suoi occhi di bambina, ingenui e offuscati da tutto l’affetto di cui è capace, si rivolgono con ammirazione e un po’ di riverenza ogni volta che ha una curiosità, una domanda o vuole semplicemente ascoltare una storia.
Vuole ovviamente tanto bene anche ad Aberforth, sempre presente quando Ariana fa un brutto sogno o ha paura e non vuole svegliare i genitori, ma è un affetto diverso.
Albus è il suo modello d’ispirazione.
Pensa che i suoi nuovi giochi gli potrebbero piacere – lei, con la sua giovane età e la sua magia fuori controllo in maniera innocente, con i suoi giochi di luce che ogni volta fanno sì che scaturisca sul suo viso un sorriso estasiato, una risata limpida e priva di ombre.
Lei continua a giocare, è luce che le danza intorno, piccoli fuochi d’artificio, uno spettacolo solo per lei e per il suo adorato fratello, appena lui avrà tempo da dedicarle.
Gioca e ride e non sente la solitudine, ha solo sei anni e neanche un amico, ma questo non le importa perché ha la sua famiglia, le sue luci e va bene così.
Si blocca improvvisamente, però, quando sente un grido sconosciuto.
Ariana si gira di scatto, fulminea: è forse la mamma, ha fatto qualcosa di sbagliato?
Davanti al suo giardino, i volti cinerei e gli occhi sgranati (spaventati, sconvolti, immobili come statue di cera), Prudence e i ragazzini del quartiere.
Lei li conosce – Harry, Edward – perché li sente spesso chiamarsi per nome mentre giocano a casa dell’uno o dell’altro. Li conosce e non ha mai avuto paura di loro, mai come in quel momento.
Prudence scoppia improvvisamente in lacrime – singhiozza, il viso latteo diventa improvvisamente rosso, s’infiamma tutta e sbatte i piedi per terra.
- Lo sapevo che era una bambina cattiva, lo sapevo! -
Quando arriva il primo colpo, Ariana lo incassa completamente impreparata.

 

 

Caos.

La casa è sempre a soqquadro, dopo i suoi attacchi.
Ariana si guarda intorno, guarda le sedie rovesciate e la credenza in frantumi, la profonda ruga di preoccupazione sulla fronte di Albus e la rabbia malcelata di Aberforth
Solo Gellert, inspiegabilmente, sorride.
- Beh, questo sì che è qualcosa… -
Scoppia in una risata quasi isterica, guarda la ragazzina con rinnovato interesse, con occhi famelici. Ariana vorrebbe nascondersi, il suo viso va in fiamme e lei neanche sa perché; vorrebbe scappare, sottrarsi allo sguardo impietoso del ragazzo in piedi di fronte a lei.
Si alza dal letto e scappa via, i singhiozzi trattenuti a stento e i denti stretti mentre tutto, intorno a lei, perde di colore.
Aveva sperato che proprio lui, tra tutti, non assistesse mai a ciò di cui era capace la sua incontrollabile magia – lui con quell’aria da matto, lui che aveva riso della sua distruzione.
Era un folle. Lui sapeva, capiva, era capace di guardare in profondità nel suo buio, nel caos danzante dei suoi pensieri sconnessi, e poi uscirne indenne.
Ariana si raggomitola per terra nel giardino ghiacciato, trema e si dondola su se stessa: cerca di calmarsi ma non può, perché sente ancora quella risata nelle orecchie; prova a riprendere il controllo del suo respiro, eppure gli occhi di lui continuano a lampeggiarle nella mente, destabilizzandola.
Aveva ragione. Lui sa. Sa com’è vivere con un mostro dentro, eppure c’è almeno una cosa che di sicuro non conosce: il terrore di vederlo prendere il sopravvento.
Perché Gellert ha il suo demonio da gestire, e preferisce farlo rivestendosi di esso.

 


Lussuria.

È ciò che Ariana scorge negli occhi calcolatori del ragazzo dai capelli biondi ogni volta che lui parla con suo fratello, ogni volta che, per un caso o semplicemente una fatalità da lui ben architettata (e Ariana è maggiormente predisposta a credere alla seconda possibilità), le loro dita si incontrano per un attimo: contatti brevi ai quali Albus non presta neppure attenzione, ma Gellert sì.
Lei osserva da lontano. Le è sempre piaciuto guardare Albus studiare, la sua concentrazione, il suo modo peculiare di ripetere a fior di labbra le parole dei testi: da quando c’è Gellert niente è cambiato, anzi.
Da un po’ di tempo la ragazzina s’è resa conto di come, quando lui è nella stanza, i suoi occhi vengano irrimediabilmente attratti dalla sua figura slanciata e aguzza, verso le sue labbra pallide e graffianti come vetro – capaci, nei sogni più reconditi dell’anima di Ariana, di ferirla a morte o mandarla all’inferno, che inferno poi non è, finché insieme a lei ci va anche lui.
Lei ha gli occhi grandi e il cuore pieno di gentilezza, le sue iridi dal colore sbiadito uno specchio limpido e sincero sui pensieri più nascosti della sua anima.
Lui è un’anima scaltra e calcolatrice, non gli sfugge niente e in fondo sa quello che la piccola Silente nutre per lui: glielo legge addosso, nel suo modo di arrossire ad ogni sguardo, nelle scuse inventate frettolosamente per lasciare la stanza non appena Gellert tenta di rivolgerle la parola.
Capisce anche le cose non dette, di Ariana, ma l’apatia in lui non lascia altro che vuoto e arido deserto, nessun appiglio per le emozioni – forse l’odio, talvolta la rabbia, la bramosia di riuscire a riscattarsi, riescono a far breccia; mai niente di puro o nobile, come invece sono i sentimenti della ragazzina.
Ariana continua ad osservarlo da lontano, percepisce la brama e il desiderio con cui quegli occhi iniettati di sangue osservano suo fratello e ne rimane ferita.
Qualcosa in lei è scheggiato da molto tempo, ora quel che resta del suo essere va in frantumi e i cocci, si sa, fanno male.

 

 

Senso di colpa.

Ariana ne è annientata, si lascia divorare dall’interno da esso ma non dice nulla, non parla, non comunica.
È solo una bambina ma si cucirebbe le labbra, se potesse – se questo le rendesse più facile tenere un segreto anche ai suoi fratelli, le
persone più importanti della sua vita. Da quando suo padre ha quasi ucciso quei ragazzini, accecato dall’ira nei confronti di chi aveva aggredito la figlia amata nel posto per lei più sicuro (la sua casa, la casa in cui lui l’avrebbe dovuta proteggere), per poi essere portato ad Azkaban, Ariana si è abbandonata al più totale silenzio.

D’un tratto la bambina sorridente, felice, speranzosa nei confronti della vita si tramuta in sguardi terrorizzati, lacrime durante la notte e poi testarda caparbietà nell’autoinfliggersi quella pena a soli sei anni: qualcosa dentro le si era spezzato, rotto da quei colpi duri e impregnati di veleno che le si erano abbattuti contro.
I suoi famigliari la guardano e vedono nei suoi occhi di bambina le ombre di quel dolore, di quei momenti in cui lei era stata sola, incapace di difendersi da quel primo, sofferente contatto con la violenza.
Lei ha sempre l’aria terrorizzata, anche quando è giorno e il sole inonda la casa, anche quando la mamma la tiene in braccio e le accarezza i capelli; qualsiasi rumore la fa scattare sull’attenti, qualsiasi figura estranea la fa scoppiare in pianti irrefrenabili.
Lo spettro della felicità che la famiglia Silente avrebbe potuto avere aleggia ancora in quella casa che lentamente perde colore, sbiadisce nel grigio e congela, annienta ogni emozione: quello che un tempo era stato un posto felice diventa per Ariana una gabbia, ovunque lei guardi vede pericoli, la notte rivede il momento in cui il padre è stato portato via e niente, niente, è più capace di trattenerla.
La magia che aveva cercato di reprimere, quel mostro che l’aveva resa foriera dell’odio e del terrore degli altri, scoppia improvvisamente – maestosa, potente, una valida amica ma, se costretta, anche il peggiore dei nemici.

 

Attesa.

È notte fonda e Ariana non dorme, fuori al giardino l’aria fredda della sera è una catena contro le sue caviglie nude, contro le gambe magre coperte blandamente dalla camicia leggera – continua a tremare, lei, un po’ per la brezza che continua a lambirla pigramente e un po’ per i suoi incubi. Continua ad avere davanti agli occhi il corpo di Gellert Grindelwald ormai privo di vita, e il di lui canzonatorio sorriso si scompone dietro le iridi slavate della ragazza, ormai pallido spettro di ciò che in vita era stato.
Lei si porta le mani tra i capelli – le sembra di impazzire, i pensieri continuano a gridare, ad imporsi con violenza gli uni sugli altri per farsi ascoltare e lei semplicemente non ce la fa, non ha la forza per seguirli e accontentarli.
- Era solo un sogno. . . - ripete come un mantra, le braccia strette intorno al suo corpo magro, le labbra una linea sottile ed esangue.
Pensa che forse, infine, è riuscita a perdere il senno, impazzire completamente al punto di non distinguere più la realtà dai suoi incubi ricorrenti – davanti ai suoi occhi terrorizzati Gellert compare e scompare, l’attimo prima ride (di lei, della vita, del mondo incapace forse di comprendere fino in fondo l’oscurità della sua mente) e il momento dopo è morto, e la magia di Ariana ha nuovamente nutrito il mostro, è sfociata nella tragedia una volta di più.
Lei urla, urla tra le lacrime che non vuole più trattenere – e adesso non c’è più un cinereo ragazzo dai capelli biondi, lì per terra sul terreno umido di rugiada, adesso il corpo scomposto e senza vita è quello di una donna, una donna i cui capelli neri giacciono come un velo sul suo volto, coprono i suoi occhi.
Due occhi azzurri color del cielo.
Gli occhi di Aberforth.
Gli occhi di sua madre.

 


Vuoto.

Questa volta il suo attacco è stato totalizzante, violento, la magia si è impossessata completamente di lei – Ariana ha solo quattordici anni ma si è abituata già a vivere in un inferno terreno in cui lei è ad un tempo vittima e carceriera, eppure per una volta ha pensato davvero che sarebbe morta.
Ha visto se stessa, il proprio corpo in preda agli spasmi, quasi come una spettatrice esterna – lontana dalla realtà terrestre, lontana da quei momenti impressi nella carne e nella memoria, quegli attimi di incontrollata furia per i quali il prezzo da pagare è sempre alto.
Non riesce a focalizzare il mondo intorno a sé, le ossa le fanno male, il respiro è corto e spezzato e ogni nuova boccata di ossigeno brucia come fuoco nei polmoni; non vede che ombre intorno a sé, ombre e figure sfocate – percepisce un grido di disumano dolore, impregnato di una sofferenza così profonda da scuoterla e provocarle ancora un nuovo spasmo; qualcuno (o qualcosa?) la sta toccando, alzandola dal pavimento bagnato sul quale giaceva inerme, qualcosa di caldo e confortevole va ad avvolgerle le spalle magre.
Quando riacquista conoscenza, dopo ore ed ore (o forse giorni, mesi, ormai ha perso la cognizione del tempo), la morte le sembra infine un’alternativa piacevole, desiderabile e allettante in confronto allo spettacolo che i suoi occhi le presentano, quello a cui sperava di non dover assistere mai.
È un funerale che si sta svolgendo dentro le mura di casa sua.
Il funerale di sua madre.

 

Rabbia.

Albus è arrabbiato – Ariana percepisce ogni singola sfumatura nella sua voce, la rabbia, la frustrazione e qualcos’altro, un astio diverso generato da un sentimento più profondo e angosciante.
È Aberforth che gli risponde a tono, conciso, spietato – lei ascolta in silenzio, non comprende tutte le parole ma si avvicina piano, timorosa quanto desiderosa di capire; è un fantasma quasi del tutto trasparente in una sera come tante altre, in cui il cielo è un po’ più scuro e le stelle non ci sono, non c’è luce e non c’è suono alcuno nel quartiere addobbato a festa da un candido manto di neve fresca.
È sempre difficile carpire qualcosa ai suoi fratelli – Albus, sempre preso dai suoi studi, e Aberforth con il suo terrore di perderla con una parola, una carezza di troppo.
Lei odia quella sensazione di impotenza, l’essere un peso sulle spalle delle persone che ama di più: non la guardano più alla stessa maniera da anni, ormai, e in fondo anche loro sanno che la colpa di ogni loro rovina è solo sua.
Ariana si ferma, immobile e statuaria, quando vede Albus tirare fuori la bacchetta.
I muscoli intorpiditi della ragazzina sembrano per lei un peso impossibile da spostare: osserva, basita e incapace di reagire, gli incantesimi che i due fratelli scagliano l’uno contro l’altro, con ferocia e senza pietà, senza guardarsi negli occhi; non si sposta, Ariana, resta inerme - unica spettatrice di quella spietata lotta – anche quando un incantesimo devia il suo corso e si dirige esattamente nella sua direzione.
È un attimo.
Non ha il tempo di dire nulla, nessun suono scappa alle sue labbra che disegnano un cerchio perfetto di stupore: l’ultima cosa che Ariana vede sono due iridi glaciali e una risata indolente, il volto dell’ultima emozione che l’ha fatta sentire viva.

 

   
 
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