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Autore: Hypnotic Poison    27/11/2017    5 recensioni
A Thousand Worlds To Break Our Hearts: World Four.
Le venne da sorridere, senza sapere il perché; appoggiò i palmi sul tavolo e chiuse un secondo gli occhi, allungando la colonna vertebrale e lasciandosi trasportare solo come quella canzone poteva fare. Era stata la loro canzone. Non ricordava il motivo, ad essere sinceri, ma l’avevano sempre associata a loro due.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kisshu Ikisatashi/Ghish, Mint Aizawa/Mina
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'A thousand worlds to break our hearts'
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World Three: The One With The 2 AM Phone Call                                                                                                               World Five: The One With The Wedding Cakes



Our song came on and I needed to talk to you after hearing it.”


Sbuffando sotto al peso delle due buste di cartone che reggeva sotto le braccia, riuscì ad inserire le chiavi nella toppa e a spingere con una spallata la porta di quanto bastasse perché potesse entrare senza far rotolare le uova e i pomodori, per poi richiuderla con un colpo di tacco. Il calore e l’odore familiare della sua casa l’avvolsero confortevoli, riscaldando le membra irrigidite da un’ennesima giornata fin troppo simile alle altre.
Attraversò l’ingresso con passo spedito e posò le buste sul bancone della cucina, potendo finalmente scrollarsi di dosso l’impermeabile bagnato dalla pioggia che aveva deciso di scrosciare di sorpresa a fine pomeriggio, ovviamente nell’ora di punta, quando tutti cercavano di tornare alla propria dimora il più velocemente possibile e ogni mezzo di trasporto si trasformava in un incubo.
Tornò indietro per appendere il soprabito nei ganci di fianco alla porta di ingresso, ne approfittò per controllare che tutto fosse rimasto in ordine, e ritornò in cucina ponderando su cosa mettere sotto i denti, sperando che ci fosse qualcosa di dimenticato nel freezer da poter cacciare in microonde mentre si rilassava con un bicchiere o due di vino.
Tolse la spesa dalle buste, riponendola con ordine tra il frigorifero e i vari ripiani, e nel mentre accese la piccola radiolina sulla mensola alla sua sinistra, quella che sempre le teneva compagnia mentre cucinava. Era sempre sintonizzata su una stazione, la sua preferita, che trasmetteva vecchi classici e novità con la minima interruzione di pubblicità o di deejay troppo loquaci. Mentre le note dell’ultimo singolo di una cantante famosa riempiva allegramente la cucina, infilò la testa nel congelatore per cercare qualcosa che potesse soddisfare il suo appetito senza mandare completamente a quel paese la dieta.
Poco prima dell’unico vasetto di gelato che si permetteva di tenere, vide una confezione di lasagne che si ricordava aver salvato dall’ultima cena con i suoi genitori; non sarebbero state il massimo, ma sua madre era più fissata di lei con l’aspetto fisico, soprattutto ora che andava avanti con l’età, quindi la ricetta era sempre e assolutamente low-carb.
Le infilò nel microonde nello stesso istante in cui riapriva il frigorifero per estrarne la bottiglia di rosso, un prezioso bicchiere già fuori. Canticchiò a mezza voce mentre aspettava che il ronzio dell’elettrodomestico si trasformasse nell’atteso ping, ripromettendosi al tempo stesso di ritagliarsi minimo dieci minuti di tempo per fare un po’ di spesa salutare, almeno ora che aveva il lusso di poterla fare online e farsela consegnare a casa.
Prese un sorso di vino e resistette alla tentazione di sgranocchiare dei grissini, apparecchiò la tavola in maniera semplice, una tovaglietta all’americana, un piatto, una forchetta e un coltello, e il suo bicchiere, nemmeno una goccia pericolosa. Tutto ordinato, allineato, pulito, come il tovagliolo di carta che piegò a metà e ripose lì accanto, dei tocchi di colore contro il marrone scuro del legno antico del tavolo.
Le prime note di una canzone che conosceva bene riempirono la stanza in quel momento; la riconobbe subito, al primo accordo, per quante volte l’aveva ascoltata, nonostante fosse passato parecchio tempo dall’ultima volta.
Le venne da sorridere, senza sapere il perché; appoggiò i palmi sul tavolo e chiuse un secondo gli occhi, allungando la colonna vertebrale e lasciandosi trasportare solo come quella canzone poteva fare.
Era stata la loro canzone. Non ricordava il motivo, ad essere sinceri, ma l’avevano sempre associata a loro due. L’avevano ballata nel salotto che poteva intravedersi oltre la porta a sinistra, l’avevano canticchiata sotto la doccia, l’avevano messa in sottofondo tra le lenzuola. A volte l’avevano anche richiesta ai matrimoni dei loro amici, quando i bicchieri di troppo e l’atmosfera romantica avevano fatto cedere qualsiasi tipo di resistenza.
Poté avvertire qualche brivido incresparle la pelle mentre ricordava, un po’ sforzandosi, i dettagli confusi dalle onde del tempo che era passato. Quando i piatti sul tavolo erano due, i bicchieri di solito quattro, e il salotto molto più disordinato di come lo lasciasse lei.
Esalò piano, mormorando sottovoce le parole, osò dondolare appena sul posto come se la stesse danzando davvero, stretta contro al suo petto, immaginandosi il suo odore senza essere sicuramente certa che fosse proprio quello. Era crudele, la memoria, quello era certo: certi ricordi sembravano incapaci di sparire, sigillati per sempre nella mente e pronti a tornare punzecchiando, ogni tanto, giusto per mordere un po’; altri, quelli che a volte sembravano i più importanti, scemavano lentamente, senza che ce se ne accorga, lasciando solo la sorpresa di scoprire che su essi non si può più fare affidamento.
Quando la canzone finì, quattro interminabili minuti dopo, il rumore del silenzio era ancora più forte. Aprì gli occhi, l’ordine della cucina quasi rilassante contro al battito del cuore, che la tirava e la tirava verso una decisione che non riusciva del tutto a capire. Afferrò la borsetta, che aveva lasciato sul tavolino dell’ingresso, e ne prese fuori il cellulare, constatando quasi sollevata di non avere messaggi o telefonate a cui rispondere.
Fece un respiro mentre ritornava in cucina, digitando lentamente ad una ad una le cifre che componevano quel numero che, nonostante tutto, aveva imparato a memoria. Si appoggiò al tavolo, le unghie corte e curate che tamburellavano leggere contro il legno scuro intanto che gli squilli le rimbombavano contro i timpani.
«Minto?» la sua voce, un po’ confusa e ovattata, le fece perdere mezzo respiro, ma al tempo stesso si rese conto di quanto fosse calma.
«Ciao,» esclamò, voltandosi e sorridendo, «Ti disturbo?»
«No, tranquilla. Sto tornando a casa
Lei poteva sentire in sottofondo il rumore delle auto e della pioggia che non accennava a diminuire: «Non stai guidando, vero?»
Lui ridacchiò: «Sono in taxi.»
«D’accordo,» continuò a picchiettare sul tavolo, aggiustando un po’ di più la forchetta già dritta.
«Hai bisogno di qualcosa?»
«No, è solo che…» si umettò le labbra, in quel momento si stava sentendo davvero infantile, «Ti sembrerà stupido, ma stavo ascoltando la radio ed è passata -»
«Lo so,» rispose quasi divertito, «L’ho sentita anche io.»
Minto sorrise: «E così ho pensato di chiamarti. Tutto qui. Stai bene?»
«Sì, grazie. Tu?»
La sua voce era un po’ diversa da come se la ricordava, più profonda e roca anche nelle interferenze del telefono, mentre iniziavano a chiacchierare. Dopotutto, però, erano passati tre anni dall’ultima volta che avevano parlato, ed era sicura che anche lui ne avesse passate tante. Come avessero fatto a non trovarsi più, nonostante quel paio di stretti amici in comune, non lo sapeva nemmeno lei. A volte pensava che fosse stato davvero il destino, a tenerli lontani.
Si ricordava ancora benissimo l’ultima volta in cui si erano visti, e le poche volte che vi ritornava indietro con la memoria poteva sentire la cicatrice nel cuore tendersi e dolere, come se stesse faticando a tenere tutto dentro e volesse esplodere un’altra volta.
Lei era in casa, in una giornata molto simile a quella, grigia e carica di pioggia; si era avviluppata sul divano, avvolta nella coperta più calda che avesse e da un maglione bianco, stretta ad uno dei cuscini. La pelle del viso le tirava per tutte le lacrime salate che aveva versato dalla notte prima, quando erano arrivati alla realizzazione che non sarebbe potuta andare avanti, nonostante tutto.
Lui era tornato in casa bagnato fradicio, il giubbotto di pelle marrone ormai irrimediabilmente macchiato, aveva lanciato malamente le chiavi nel cestino di metallo insieme alle sue. L’aveva raggiunta con un sospiro, il viso marcato e buio, e si era inginocchiato accanto a lei.
«No, eh?» le aveva domandato scostandole i capelli dal viso, un po’ amareggiato un po’ con il solito tono ironico che traspariva come avesse sempre avuto la risposta a quella domanda.
Lei aveva tirato su con il naso e aveva scosso la testa, tremando. Non aveva avuto la forza di rispondergli a voce, tant’era la paura che provava per quell’enorme vuoto che le si stava stagliando davanti e che sapeva essere l’unica via.
Lui si era seduto accanto a lei e l’aveva tirata sulle sue ginocchia, abbracciandola stretta mentre le aveva mormorato piano inezie per tranquillizzarla. Il solo contatto con il suo corpo, il suo calore, il suo odore erano stati abbastanza per farla smettere di rabbrividire, la familiarità che l’aveva avvolta rilassandola. Forse avrebbe fatto ancora più male, ma non aveva avuto la forza di staccarsi in quel momento. C’era stato troppo, tra di loro, per accontentarsi di un addio facile. C'era stato troppo anche solo per un addio, eppure entrambi sapevano che la vita, molto spesso, non va come si vorrebbe.
Lei aveva alzato lo sguardo verso di lui, il naso che gli aveva sfiorato la guancia; l’aveva guardato con gli occhi pieni di lacrime e pieni di lui, memore di tutto ciò che si erano detti solamente scambiandosi un’occhiata. Lui aveva ricambiato, accarezzandole una guancia col pollice, scrutandola in un silenzio denso e pesante. Lei gli aveva stretto la mano, le unghie che gli avevano graffiato la pelle, mormorando solamente il suo nome.
«Kisshu…»
Lui aveva raccolto con fervore nel pugno i capelli scuri alla base della nuca e l’aveva stretta contro di sé, baciandola con forza. Il suo sapore era stato mischiato alle lacrime, alla disperazione di quel contatto, all’amore di un tempo.
Si erano spogliati in fretta, la coperta di lana bianca l’unica cosa a proteggerli dal freddo che sembrava filtrare da tutte le pareti. Eppure lei aveva potuto avvertire soltanto il calore di lui, la voglia e la necessità che li avevano circondati. Si erano cercati con la convinzione di doversi aggrappare a quell’ultima volta, di doversi dare tutto quello che era rimasto e tutto quello che non si erano mai dati. Lui l’aveva baciata, stretta, morsa, graffiata come se ogni lembo del suo corpo avesse potuto dargli la forza che gli mancava.
L’aveva desiderata come all’inizio, come se non l’avesse mai avuta e ne avesse assoluto bisogno, come non avrebbe fatto più.
L’aveva guardata con tutto l’amore del mondo.
Lei aveva sentito il cuore affossarsi sempre di più nel petto, si era spinta sempre di più contro di lui come se avesse potuto essere l’unica cosa che gliel’avrebbe fatto riemergere. Quando era scivolato dentro di lei, premendole le dita nelle cosce come se avesse voluto fonderle per non staccarsi davvero, lei non aveva potuto trattenere il singhiozzo né la lacrima che traditori le erano scappati. Dalle sue labbra era uscito un ti amo soffocato mentre gli aveva avvolto le braccia intorno alla schiena per tenerlo ancora di più a sé, e lui le aveva cancellato la traccia umida con le labbra, baciandole il collo e la clavicola, mormorandole all’orecchio mentre si era spinto sempre di più dentro di lei.
«Voglio solo che tu sappia chi sono.»
Lei gli aveva graffiato le spalle e si era lasciata andare, svuotando la testa e il cuore dai pensieri, dalle paure, da tutto quello che avrebbe potuto distrarla da quel momento. L’aveva amato con tutta se stessa un’ultima volta, desiderando di poter portare via con sé tutto quel calore.
Erano rimasti lì, abbracciati sul divano, per quelle che le erano sembrate ore. Avevano riso, e pianto, parlandosi come avevano sempre fatto, senza illudersi con vaghe promesse che sarebbero state troppo difficili da rispettare. Poi, quando il Sole aveva iniziato a sparire lentamente sotto l’orizzonte tingendo il cielo di rosa, lui si era alzato per rivestirsi, osservandola sempre con un sorriso.
«È arrivato l’arcobaleno,» aveva commentato guardando fuori dalla finestra.
Lei aveva sorriso triste, ancora avvolta dalla coperta era scesa dal divano e gli si era avvicinata. Lui le aveva accarezzato la guancia prima di posarle un bacio sulla fronte che l’aveva costretta a ricacciare indietro le lacrime. Le aveva sfregato le braccia per consolarla, prima di sorriderle ancora e avviarsi verso la porta, chiudendola lentamente alle sue spalle.
Non vi sarebbe più rientrato. Solamente qualche giorno dopo, quando finalmente lei aveva avuto il coraggio di uscire di casa per prendere una boccata d’aria che non otteneva dal suo balconcino, aveva trovato sul tavolino d’ingresso la Polaroid che avevano scattato qualche mese prima, quando tutto quello non era esistito. Sul cartoncino bianco, la calligrafia disordinata di lui le aveva scritto semplicemente “Sempre”.
Minto si appoggiò alla parete della cucina, che aveva percorso in ogni angolo durante la telefonata, e si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Allora buona serata, Kisshu. Comportati bene.»
Lui, dall’altro lato del ricevitore, rise di gusto e sguaiato, come solo lui sapeva fare: «Perché dovrei, passerotto?»
Le strappò un sorriso, e con un ultimo saluto terminò la chiamata, appoggiando il cellulare a faccia in giù sul tavolo. Il microonde si era fermato, non se n’era accorta. Si accorse, però, dal pizzicore del suo occhio destro, che una lacrima indisponente le aveva attraversato il viso, fermandosi sul mento in bilico. Lei la cancellò con il dorso della mano e si scosse nelle spalle, schiarendosi la gola.
Si sentiva rintontita, ma decisamente in pace. Avrebbe solo voluto che la pioggia si fermasse, per poter vedere l’arcobaleno.

Qualche chilometro più in là, il taxi si fermò davanti all’indirizzo datogli, i tergicristalli che non avevano tregua. Kisshu raccolse le proprie cose e pagò, lanciandosi a testa bassa sotto il temporale, la ventiquattrore appoggiata in testa per cercare un minimo di riparo. Riuscì a riprendere fiato solo in ascensore, dove si scrollò i ciuffi bagnati della frangetta. Il cellulare nella tasca sembrava pesare un poco di più, quella sera. Lo sfiorò con le dita, ci picchiettò sopra, poi abbozzò appena a un sorriso sincero.
Voglio solo che tu sappia chi sono.
Le porte dell’ascensore si aprirono, lui scivolò fuori con già le chiavi di casa in mano, desideroso di scrollarsi i vestiti bagnati e potersi finalmente rilassare. Diede mezzo giro al chiavistello, aprì la porta, e appoggiò ordinato la ventiquattrore appena oltre la soglia.
«Ciao, sono a casa!»













§§

Io a volte mi stupisco della mia crudeltà. Dai, ditemelo che un po’ vi siete commosse! Non posso essere solo io!

Giuro che sto periodo maligno passerà e torneremo ad essere felici e contenti :3 Anche se immagino che lì da qualche parte ci sia chi è felice che le Kishinto vadano male LOL

Per quanto riguarda la loro canzone, ho avuto una specie di epifania quando ero già oltre i ¾ di storia – c’è una frase specifica che vi farà capire che canzone sia 😉 Fatemi sapere se la beccate :D

A proposito: questa è l'ULTIMA Kishinto (Epilogo finale a parte ^^) - so che avevo detto che avrei alternato, ma non sono riuscita a scrivere nulla delle nuove - maledetta vita adulta – e non volevo lasciarvi troppo col fiato sospeso e il buon umore :3

Grazie a tutte voi bellissime anime che nonostante il dolore mi sopportate e supportate con le vostre letture e recensioni :D Vi amo moltissimo <3

A presto, promesso!!!!!

   
 
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