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Autore: cartacciabianca    23/06/2009    4 recensioni
[ SOSPESA ]
In una New York devastata dalla Guerra tra sani e portatori, sono emersi un gruppo di patriottici eroi. Uomini e donne sottoposti a crudeli esperimenti allo scopo di sopprimere definitivamente il Virus e ogni suo esponente. Sono gli Angeli, nati dalle ricerche fatte sul precedente campione Zeus e protettori della specie umana. La battaglia per il dominio sul pianeta volge al termine dopo due anni di scontri sulla frontiera della scienza e della tecnologia meccanica. Due anni di sangue e vittime innocenti capitate nelle mani dei predatori più spietati.
"Mi sentii puntare sulla schiena qualcosa di estremamente freddo, sottile e affilato più di un rasoio.
Ingoiai a fatica, trattenendo il fiato e sollevandomi sulle punte degli stivali. Dalla mia bocca schiusa venne solo un flebile sospiro quando Alex affondò la lama tra le mie scapole traversandomi orizzontalmente da un capo all’altro. Un fiume di sangue mi bagnò la divisa, raccogliendosi poi sul terreno impolverato tra i miei piedi. Quel rosso vivo e accecante mi finì anche negli occhi, mentre il dolore risucchiava nel suo vortice la sensibilità del mio corpo.
Inclinai la testa da un lato scoprendo una parte di collo, sul quale Mercer posò appena le labbra.
-Sai… ora capisco cosa ci trovava quel Turner di tanto interessante in te- mi sussurrò all’orecchio dopo aver risalito il mio profilo di piccoli baci, minuziosi come graffi. –Quando sanguini così sei davvero eccitante- rise."

[Alex Mercer x nuovo personaggio + altri nuovi personaggi]
Genere: Azione, Horror, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lemon, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1°
- Prologo, Caduti nell'Inferno

«Siamo Angeli caduti nell’Inferno.

Il Governo degli Stati Uniti d’America ha analizzato il Campione Zeus estraendone un gene due volte più potente.
Siamo stati scelti dal popolo, pescati dalla folla nell’anonimato.
Siamo stati catturati come bestie e divenuti vittime dei loro scopi.
Siamo e continueremo ad essere utili alla nazione, ma… quando non serviremo più, sappiamo tutticon chiarezza cosa ne faranno di noi.
Non so con precisione quanti di voi sono come me.
Ma so per certo che siamo quasi un centinaio e sparsi nel mezzo dell’epidemia con un obbiettivo preciso:
trovare e annientare ogni sorta di esponente positivo del Virus.
Abbiamo accettato questa nostra missione, perseguito con animo il nostro destino.
Abbiamo creato una nostra base, un luogo dove riconoscerci e proteggerci.
Lo chiamiamo il Paradiso, perché in ogni angolo di quartiere di questa merda di città presiede almeno uno di noi!
Faccio questo appello a chiunque voglia unirsi alla nostra battaglia.
Angeli o umani, col gene Zeus nel sangue oppure no non fa alcuna differenza!
Il Virus è un nemico comune, che ha preso piede oltre le barricate di Manhattan e sta mietendo milioni di innocenti nelle principali città americane…
New York per prima…
Ma adesso San Francisco e Los Angeles…
Domani Washington D.C…
Ci sarà un giorno in cui l’epidemia toccherà l’oriente e defluirà in Europa.
Le nostre ali dovranno impedire tutto questo prima che il genere umano venga spazzato via dalla faccia della Terra.
Sto trasmettendo questo appello di fratellanza da una stazione mobile, accerchiato da un branco di Cacciatori che non aspetta altro che la mia carne siero positiva…
Oggi è il 19° giorno dell’infezione.
Io sono il Dottor Mark Walker.
Voi, e il luogo nel quale state ascoltando questo messaggio, siete il Paradiso.
Chiudo».


GIORNO DELL’INFEZIONE 569°
POPOLAZIONE INFETTA: ---


L’aria divenne tersa, irrespirabile. Il cielo era scomparso per sempre dietro una nube rosso sangue. I grattacieli andavano in frantumi col passare del tempo, perdendo pezzo dopo pezzo travi e componenti di metallo che si rovesciavano a terra con boati assordanti, mentre i focolari ancora accesi qua e là continuavano a far danni. I marciapiedi smontati, le mille crepe nel terreno e i buchi nei palazzi.
Le strade di New York, intasate delle carcasse di automobili, elicotteri e carri bruciate dall’esplosione, erano quel giorno deserte.
Un presagio, una visione, un quadro apocalittico che neppure i capitoli peggiori del Libro dell’Apocalisse.
C’era silenzio, ma non quel genere di silenzio perché non si ha da fare, da dire o di che pensare. Era un silenzio voluto, da tanto trattenuto e ostentato.
Mi trascinavo a fatica, un braccio attorno al ventre e le ginocchia piegate, stanche che avrebbero ceduto a breve, ne ero certa. I miei passi silenti vagano nella desolazione di Broadway, dove il caccia The End era piovuto e precipitato, radendo al suolo il quartiere.
The End, la fine, la soluzione ai loro problemi; o più comunemente la bomba nucleare installata nell’artiglieria di un aereo militare che, precipitato nel centro di Manhattan aveva spazzato via i palazzi e interrotto definitivamente l’epidemia.
Gli alveari diffondevano per le strade la loro puzza morta, assieme ai cadaveri della gente innocente buttati via, carbonizzati accanto a quelli dei cacciatori e dei portatori malati.
Ciò che restava attorno a me, dunque, non poteva essere altro che un campo di rossa desolazione.
Indossavo i miei vestiti ancora integri, ma in me si muoveva una sgradevole sensazione di dolore che partiva dai muscoli delle gambe e arrivava sino alla base del collo. Ansimai, ma in fine non riuscii a resistere oltre, e fermandomi nel centro di quel campo desolato e polveroso, mi accasciai a terra.
La mia guancia premeva contro il sangue di corpi sventrati e ustionati senza pietà, avvertivo sulle labbra il freddo del metallo di forse alcuni frammenti di un’auto volata chissà dove per l’esplosione.
Non tentai subito di alzarmi, godendomi quel poco di riposo che mi era concesso. Mi girai di fianco, rovesciandomi a pancia in su e soffocando in gola un tenue lamento.
I miei sensi vigili, svegli, amplificati captarono subito la sua presenza. Mi stava osservando, nascosto lì dove lui pensava non potessi vederlo.
E invece si sbagliava di grosso.
Sapevo benissimo che era lassù, sulla cima di quelle rovine dell’Empire, in piedi sul pizzo di una trave.
A quel punto provai ad alzarmi e, poggiando un gomito a terra e facendo leva su di esso, mi misi a sedere il più comoda possibile tra le macerie. Dopodiché alzai il mento e guardai dove la sua figura nera, piccola e ben eretta copriva i raggi del sole del tramonto, allungando la sua ombra sino ai miei piedi.
Il fumo andava diradarsi. Erano trascorse poche ore dall’esplosione, ma l’energia nucleare e tutti i suoi gas più tossici si spostavano svelti sospinti da una brezza bollente, quasi desertica.
I miei capelli scuri e ondulati mi ricadevano in boccoli sporchi e unti sulle spalle. Il mio viso tondo, giovane, aveva perso tutta la sua fanciullezza. Persino il mio sguardo, i miei occhi marroni avevano perduto la loro lucentezza arrossandosi in un modo spettrale e permettendo la comparsa di quelle occhiaie che consumavano le mie guance bianche.
La mia pelle chiarissima, cadaverica quasi. Mi guardai le mani che avevano impercettibilmente cominciato a tremare, ed io con loro.
Non capii cosa mi stesse succedendo, non capivo un bel niente. Mi sentivo debole, stanca… Andai subito nel pallone dei sensi, non riuscendo a mettere a fuoco la vista e percependo il fiato mancarmi nei polmoni.
Sciocchi umani illusi che avevano pensato bene di sganciare una bomba nucleare per sbarazzarsi sia degli zombie assatanati che di noi…
Risentivo degli effetti del nucleare sulla mia pelle, ne avvertivo la consistenza e il malessere non riuscendo a controllare i mie poteri. E pensare che un tempo, perché c’era stato un tempo, giusto dieci giorni prima, in cui ero riuscita a tener testa al più temuto di tutti i portatori sani…
Era cominciato tutto pochi giorni prima, prima che The End si schiantasse sulla città a recasse fuori tutto e tutti, abbandonando New York in quello stato.
Lo guardai con entrambi gli occhi spalancati; “mi dispiace..” dissi muovendo le labbra in mute parole, ma lui, da lassù, non mi diede alcuna risposta.
Si limitò a gettarsi nel vuoto, con un salto nel vento che gli sollevò appena i lembi del giubbetto e la maglia bianca sotto di esso.
Un istante più tardi, la sua figura composta e leggiadra si schiantò con ferocia al suolo, sollevando uno strato di polvere che mi travolse a tutto spiano, assieme al boato dell’asfalto che andava in frantumi.
Il ragazzo, lo vidi, si tirò su lentamente continuando a fissarmi da lontano.
Chinai la testa, colpevole e assoggettata, sfuggendo ai suoi occhi di un azzurro quasi grigio, innaturale. Metà del suo viso era celato sotto il chiaro cappuccio, le braccia lungo i fianchi, ad una decina di metri da me.
Mi accorsi che stava venendomi in contro troppo tardi, perché tentai la fuga voltandomi tutt’altra parte e tirandomi in piedi.
-Vattene, lasciami stare!- gridai.
Mecer continuò ad avanzare nella mia direzione, ed io a sfuggire dalla sua.
-Cosa vuoi? Cosa vuoi ancora da noi?!- gli urlai contro girandomi a guardarlo, continuando ad indietreggiare frettolosa. –Basta, hai vinto! Lasciami in pace!-.
M’inquietava parecchio vederlo venire verso di me così tranquillo, quasi fosse certo che in un modo o nell’altro sarei morta comunque; per mano sua o no.
-Vattene, basta… ti prego…- mormorai flebile. –Mi dispiace, mi dispiace Alex…- aggiunsi.
Inciampai su qualcosa alle mie spalle e caddi a terra di schiena.
Serrai i denti e tenni il dolore per me e per me soltanto.
Zeus era proprio davanti a me: mi guardava con null’altro in volto che non fosse un’immensa serietà e pena che non mi aspettavo.
-Alzati- disse.
Esitai, incredula di tali parole.
-Ho detto alzati- ripeté.
Cercai e tentoni qualcosa a cui appoggiarmi, ma prima ancora che potessi solo realizzare del tutto che la sua intenzione non era di farmi ulteriormente del male, lo vidi porgermi la mano.
Mi stupii non poco di quel gesto, e ciò fece nascere nel mio interlocutore qualcosa che gli diede parecchio fastidio.
Ritrasse il braccio, tornando a fissarmi con odio.
-Ti hanno mandato loro?- chiese.
-Loro chi?- domandai arrogante, ma a quanto mi parve non fu contento della mia risposta.
Alex mi afferrò con violenza per la giacca e mi sollevò così da terra, tenendomi stretta con entrambi i pugni.
-Smettila di mentirmi, Emily! Ti hanno mandata loro! Per uccidermi!- ruggì.
I miei piedi galleggiavano nel vuoto, mentre non opponevo alcuna resistenza alla sua presa. –Sì…- assentii.
Vidi i suoi occhi balenare di una luce diversa, triste, e le sue labbra schiudersi incredule. -…Emily- chiamò ancora il mio nome, allentando la stretta dei pugni sul mio cappotto. –Perché, Emily?! Non siamo uguali te ed io?! Non lo siamo?!- mi chiese avvicinando il viso al mio.
-No, Alex. Non lo siamo!- quanto mi costò pronunciare queste parole… -Non lo siamo mai stati e mai lo saremo, mi dispiace…- sussurrai, poggiando delicatamente le mie dita su una sua mano. –Credimi, mi dispiace davvero… tantissimo- cercai il suo sguardo che invece mi sfuggì, e ciò che vidi fu solamente la rabbia tornare ad attraversare gli zigomi del suo volto.
-Adesso…- balbettai. –Adesso mettimi giù, per favore…- sibilai. –Alex…- tentai di chiamarlo, ma mi accorsi con non poco stupore del vuoto nei suoi occhi, che già vagavano nei ricordi confusi e annebbiati, ma piacevoli, che aveva di me e delle poche e meritate esperienze trascorse assieme.
-Alex… ti prego- singhiozzai debolmente, e una lacrima d’argento mi scese lungo la guancia.
Il modo in cui mi guardava, come speranzoso che fosse tutta una balla, come in attesa che gli dicessi: “ah, piaciuto lo scherzo?”… cosa che non feci, che non potei fare, che nessuno mi aveva chiesto o ordinato di fare.
-Mettimi giù, Alex!- gemetti tra le lacrime, cominciando a calciare il vuoto sotto i miei piedi e dimenarmi forsennata.
Il ragazzo mi afferrò con una sola mano sollevandomi più in alto, allontanandomi dal suo viso.
-Come vuoi!- sbraitò.
Mantenne la parola, ma non precisamente nel modo che mi aspettavo.


   
 
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