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Autore: SparkingJester    01/12/2017    4 recensioni
Storia partecipante al contest "Of Monsters and men" di Haykaleen.
Alle volte è solo questione di punti di vista. Un breve e oscuro esperimento letterario.
Genere: Dark, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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DM-088
Giorno 10.824. Sono ancora rinchiuso in questa cella, grigia e spoglia. Metallica.
Una piccola sirena inizia a lampeggiare, pochi secondi e la porta si apre. Puntuali come sempre, tre creature si affacciano ed una di loro entra. Non credo mi abituerò mai al suo aspetto sgradevole ma col tempo ne ho imparato il nome: Aderic o almeno è questo che suona a me, non saprei nemmeno come pronunciarlo.
E’ ora della nostra seduta sensoriale: non so come, possono connettersi alla mia memoria ed osservarla, studiarla. Mi collega con un macchinario attraverso dei fili, sento delle fitte di dolore ed inizio a ricordare. Questa volta hanno scelto un bell’arco temporale: i primi contatti, tra noi e loro.

Dal nulla, un portale si aprì: strani esseri apparirono dietro e dentro di esso, in ombra. Entrambi i mondi si specchiarono l’uno nell’altro, succubi di stupore e curiosità. Ma nonostante la reciproca attrazione, il varco non fu attraversato prima di cento anni. Quando i primi di noi, tra i potenti, decisero di fare il primo passo, quegli esseri godevano di tecnologia molto più avanzata della nostra, più numerosi e intraprendenti. Un gruppo accuratamente selezionato attraversò il portale, privo di protezioni, fiduciosi che il caos stesso dell’universo non potesse unire due mondi solo per distruggerli. Passarono e si meravigliarono di quelle vaste terre e di quel popolo: erano di piccole dimensioni, nemmeno la metà di noi, ridicoli inizialmente ma pur sempre creature dotate di grande intelligenza.
I primi tentativi di comunicazione, però, furono disastrosi e cambiarono le sorti del nostro futuro.
La prima frase fu: «Salute, creature di questo mondo. Siamo lieti di non essere soli!»
E si scatenò il caos: i corpi di quelle fragili creature esplosero, tutti i presenti, tutti coloro avessero udito anche solo un suono. La paura dilagò non solo nell’emissario, ma nell’intero nostro popolo. Avevamo commesso un errore, imperdonabile.
Gli anni successivi furono movimentati. Non ricevemmo più il benvenuto, non potevamo comunicare ma eravamo perfettamente in grado di percepire la loro ostilità. Dopo quel giorno, nessuno attraversò più il portale e venne il loro turno: ci invasero. Perseguitati e uccisi uno dopo l’altro, quei piccoli esseri si rivelarono un concentrato di crudeltà, cecità e paura. Come dargli torto, ma ci era impossibile persino scusarci.
La guerra durò per anni; non riuscimmo mai a trovare l’attimo opportuno per poter chiedere una tregua, per poter continuare a parlare senza l’uso della forza. Potevamo sopraffarli, non lo facemmo e loro ne approfittarono. Nonostante i nostri sforzi per comunicare o per trovarne un modo, la risposta più frequente fu un suono emesso dalle loro teste che non riuscimmo mai a comprendere o a tradurre, così come tutto il resto.
Ero molto giovane quando mi presero: ci spinsero in un agguato, non potemmo difenderci. Anni di guerra avevano donato loro la possibilità di sviluppare nuove tecnologie difensive, ricoprendosi di uno strano materiale sottile ed aderente, probabilmente insonorizzato.
Mi misero in un contenitore enorme e mi trasportarono in uno dei loro laboratori, da cui iniziai a contare i giorni della mia prigionia.


Il mio stato emotivo è alquanto instabile, piango per il rancore e la cosa sembra disturbare quegli abomini. Trattengo tutto il dolore e la frustrazione, non posso permettermelo. Una scarica di dolore mi attraversa il corpo, come ogni volta che gli faccio del male semplicemente esprimendomi. Ma Aderic intercede per me, riprova ad avvicinarsi. Mi rilasso, non voglio provare dolore. Continua a emettere suoni striduli da un foro che hanno in testa, così come i suoi occhi fissi su di me; almeno quelli posso distinguerli. Ogni volta era come la prima volta: glabri e dal colorito chiaro, pallidi. Sarà stato il trauma degli eventi passati, ma provo sempre ribrezzo ogni volta che vengo toccato da uno di loro.
Lo stridio finisce, abbandona la stanza e vengo lasciato ancora una volta da solo.

Giorno 10.984. Sembra che il gran giorno sia arrivato! Finalmente potrò raggiungere il mio obiettivo: spiegare il grande fraintendimento e andare via da questo posto orribile. Hanno finito con gli esperimenti, hanno smesso di torturarmi e di analizzarmi. Vogliono insegnarmi la loro lingua!
Nessuno mai fu in grado di decifrare quei suoni sconnessi, striduli e a volte bassi. Avevano centinaia di tonalità con relativi movimenti di quelli che erano gli organi collegati alla loro testa; di pessimo gusto a parer mio, di certo non le creature più affascinanti.


Giorno 11.000. Ce l’ho fatta! Mi alzo in piedi ed allargo le braccia, guardando il grigio soffitto della cella. Una sensazione di pace e serenità scorre nel mio corpo, la sento pulsare. Non mi importa di loro, non più. Potevo sentire nell’aria la loro paura, il loro sgomento. Sono atterriti e non distolgono l’attenzione da me. Sono incapaci di muoversi, o forse no? Uno di loro scatta verso la porta per chiuderci dentro. Aderic, non andrai da nessuna parte. Ritrovo le forze che credevo di aver perduto e faccio in tempo ad afferrarla.
La porto all’altezza dei miei occhi e la sensazione dei suoi arti che mi solleticano la mano è qualcosa che non ebbi mai il coraggio di sperimentare, erano ripugnanti e non ero di certo un combattente.
Ripeto la frase che per molti anni ho sognato di poter dire, il mio primo messaggio per loro. Ma lo faccio nella mia lingua, sussurrandoglielo.
I suoi resti, unti e molli, macchiano la mia mano. Mi volto a fissare gli altri, sono calmo e lucido. So quel che faccio, non gli devo nulla. Mi hanno solo usato, ci hanno solo frainteso, ci hanno decimati. Non mi abbasso al loro livello, però. Ho anche imparato la parola che sentivo ripetere così tanto da giovane, quello che a mio parere è il nome che ci hanno dato per classificarci: “mostro”. Non sono come voi mostri, io sono qualcosa di più. Più grande e potente di voi “umani”, noi siamo connessi con l’universo, voi no. Il nostro popolo non conosce la “guerra” o l’”odio”. Ma siamo perfettamente in grado di capire quando una specie parassita ha le potenzialità per infettare le galassie altrui.
Attraverso la porta, lascio in vita quei due. Uno sfizio però dev’essere soddisfatto: afferro e strappo via la porta, girandola. Grazie agli studi, riesco finalmente a leggere la parola con cui avevano soprannominato me: DM-088.
Non oso pronunciarlo nella loro lingua, lo faccio solo nella mia testa. D-M-0-8-8…DM088. Suona male e credo sia intraducibile nella mia lingua, una delusione. Avanzo per il corridoio della struttura, leggermente prono per le sue dimensioni ridotte. Una sirena in pochi secondi riempie l’intera area, insistente, fastidiosa. La faccio esplodere a distanza, sento il rumore di una porta che si apre, umani armati mi attaccano con il loro classico arsenale, piccoli oggetti di qualche strana lega metallica. Inutile, con le nostre capacità siamo in grado di manipolare vibrazioni, volume, onde. Una barriera sonica basta e avanza per respingerli ed ucciderli. Avanzo ancora e sfondo un pesante portone a pugni: un grande salone, arredato secondo i loro usi e con una strana parete liscia. Mi avvicino per esaminare la strana superficie, un’altra delle loro curiose invenzioni. Mi ha sempre affascinato la loro “scienza” e questo dev’essere il famoso “specchio”.
Il mio stato d’animo è incomprensibile; sono forse uno dei pochi della mia specie a vedere finalmente il suo aspetto: noi non ne abbiamo bisogno, possiamo comunicare e manipolare la materia attraverso un perfetto controllo delle onde. Ognuno è partecipe di ciò che accade nella mente di un altro individuo e la sopravvivenza non è mai stata un problema. Ci nutriamo di emozioni, quelle degli altri e di un ambiente privo di onde luminose, non possediamo un “sole” come il loro pianeta. Come codice d’onore, nessuno si nutrì mai di emozioni umane. Rischieremmo di porre fine alle loro vite e questo non fa parte delle nostre tradizioni, ma per me non ha più importanza. Sono stanco, non mi nutro da quando mi hanno messo in cella. Non mi sento in forma eppure il mio aspetto è imponente: ho degli arti esattamente come i loro ma non ho il “collo”, ho occhi di fiamme arancioni e sono completamente nero, con la consistenza di un “fumo” solido.
Trovo persino il coraggio di utilizzare le loro espressioni verbali, ma non dimentico il passato, né il futuro.
Distruggo lo specchio con un ultrasuono, mentre cammino verso un’altra porta che mi condurrà verso una porta e un’altra ancora. L’ultrasuono ha ucciso altri uomini pronti a tendermi un agguato, cammino tra i loro cadaveri inconsapevoli, salendo una scala infinita.
La mia pace interiore non è illesa, continuo a pensare alle mie prime parole umane: Chiediamo perdono, non proviamo rancore, vogliamo solo la libertà ed almeno io, l’avrò!
Sfondo un’altra porta, prolungo la mia mano verso altri umani armati. I loro corpi si sollevano, fondono e si uniscono. Proseguo alla cieca tra decine di stanze, corridoi e scale ma all’improvviso una strana emozione mi attraversa i nervi. Cos’è? Realizzo quanto in realtà siano deboli gli umani, così come le loro creazioni. Un abisso evoluzionistico ci separa e infrangendo alcuni dei nostri principi minori, punto la mano e faccio vibrare una parete, polverizzandola. Ho trovato un modo facile per uscirne.

Mi faccio strada nella struttura, facevo bene a salire. Sono sottoterra. La resistenza è debole, potevano bloccarci perché noi glielo permettevamo. Ora non più. Ora capisco tutto ciò che dicono, ancora insulti, preghiere, minacce. Assimilo tutto dalle loro menti, li prosciugo di informazioni ed energia vitale usando solo il mio sguardo e “desiderando” di farlo. I loro corpi rinsecchiti ora riempiono i piani superiori, ora so tutto degli umani. E noi saremmo i “mostri”?
Arrivo finalmente al piano zero, per loro è l’accesso alla superficie. Non ho idea di come il mio corpo reagirà, nessuno è stato in grado di sperimentarlo e nei loro ricordi non c’è traccia. Nemmeno esseri come me o loro possiedono le risposte a tutte le domande sull’universo. Il desiderio di libertà e serenità però scorre dentro di me, lo trasmetto involontariamente a tutti i miei simili e non ricevo altro che sussurri di sostegno e incitamento. Nessuno è caduto vittima del virus che affligge gli umani, sono il primo ribelle e se aprirò quella porta verrò persino perdonato. Se avessi una “bocca”, sorriderei. Cammino verso l’uscita, godendomi il momento prima di tuffarmi nell’incertezza. Poggio la mano sul muro, sopra la loro piccola uscita metallica, e carico di risentimento emetto il lamento della mia tribù. Quello di un individuo che continuerà a vivere così come il suo popolo ha sempre fatto, dimenticando il torto subito e cambiando strada. Sfondo il muro col pugno, carico di serenità, risanato, rinvigorito.
Le mie emozioni non cambieranno mai, non mi importa se ho perso il braccio, non mi importa se la luce sta bruciando il mio corpo. Accetto anche questo sole come parte della vita, accompagnato dal popolo che risuona in me ed assaporando la libertà.
Il mio corpo si dissolve in preda alle fiamme, riesco a mandare solo un ultimo messaggio. Lo invio alla mia gente e lo grido nella lingua degli umani: «Nessun rancore.»
  
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