-Hisashiburi dane,
minna…-
(-Era da tanto che non ci vedevamo, ragazzi…-)
Una voce calda, a lei familiare, si diffuse nell’ambiente successivamente al
rumore della porta che si apriva: fu come se per la prima volta il mondo
riacquistasse i propri colori, dopo che per un tempo indeterminabile era stato
una grigia imitazione di se stesso. Accanto a lei,
come a rallentatore, percepì tutti i suoi compagni voltarsi; riusciva quasi a
sentire anche il loro cuore saltare un battito, le loro labbra incurvarsi in un
sorriso di gioia e le lacrime iniziare a cadere dal loro volto mentre scattavano
in piedi dalle loro sedie, alcuni di loro rovesciandole, per correre nella
direzione da cui la voce proveniva. Nella Sua direzione. Persino Koromaru che fino a quel momento era rimasto in disparte a
mangiare dalla sua ciotola, le orecchie appiattite sulla testa in un mesto
segno di tristezza, adesso aveva iniziato ad abbaiare senza sosta e a correre
per tutta la stanza, cercando di attirare l’attenzione del loro ospite. Ma… era
un ospite? No, non lo era… qualcosa dentro ad Aigis le
suggeriva il contrario… era altamente illogico per gli uomini avere simili
reazioni a causa di uno sconosciuto. Allora, a chi apparteneva quella voce?
Quel tono fermo, ma al tempo stesso dolce, che celava in esso un carico tale di
dolore e sofferenza da mozzare il fiato a chi la ascoltava, era… era familiare.
Sì, era come se rappresentasse esso stesso la sua intera vita. La giovane
androide adesso voleva scoprire chi esso fosse, doveva farlo anche solo a causa
della sua programmazione, ma allo stesso tempo ella non voleva voltarsi:
provava paura. Ma no, un essere meccanico non può provare emozioni, doveva
essere un errore di calibrazione dei suoi sensori…! Solo grazie a questo
pensiero, anzi a questa stringa di zero e uno elaborati
dal suo processore centrale, prese la decisione più logica e, come gli altri,
anche lei si voltò in direzione del nuovo arrivato. Fu come la scena di una di
quelle sequenze di immagini che gli uomini usano guardare, un film: i suoi
recettori oculari intercettarono dapprima la luce riflessa dall’uniforme del
ragazzo, la stessa della Gekkoukan High School che
tutti loro frequentavano, per poi salire e registrare la presenza di un
singolare apparato di riproduzione musicale, assicurato al suo collo tramite una
sottile striscia di tessuto; da esso dipartiva il filo delle cuffie, che saliva
e passava dietro al colletto della giacca per poi dividersi: una parte
continuava il suo percorso fino ad arrivare ad una delle sue orecchie mentre
l’altra scendeva nuovamente per arrivare ad un lembo della sua uniforme, a cui
l’auricolare era assicurato. Il volto era quasi emaciato, la pelle pallida e le
labbra con una tenue colorazione rosata appena percettibile, ma impossibile da
mancare ai suoi moderni recettori; come un gioiello, il più prezioso del mondo,
l’iride blu di uno dei suoi due occhi si stagliava su tutto il resto, mentre
l’altro era coperto dai suoi capelli anche essi di un colore similare. Quando
lo sguardo dei due si incrociò la bocca del ragazzo si aprì in un caldo
sorriso, dedicato solamente a lei: fu come se il resto del mondo sparisse, come
se Mitsuru, Akihiko, Junpei, Yukari, Koromaru, Ken e Fuuka si annichilissero in un vuoto informe mentre la sua
attenzione era puntata solo su di lui. Le sue labbra si mossero appena, come al
rallentatore, pronunciando due sole parole.
-Aigis-chan…-
La ragazza androide portò entrambe le mani al petto, leggermente spostate alla
sua sinistra sul punto nel quale una persona avrebbe avuto il cuore, mentre
sotto di esse riusciva a percepire dentro al telaio qualcosa martellare
incessantemente, così forte da riverberare ed influenzare il suo apparato
uditivo: era forse un guasto all’impianto idraulico? Strano, perché i sensori
non registravano nessuna anomalia. Mosse un passo nella sua direzione, mentre
la sua cpu neurale cercava di richiamare dalla
memoria una particolare sequenza di numeri… cosa conteneva? Magari il nome di
quel ragazzo, che le pareva così tanto familiare? Però l’operazione non fu
veloce, era come se si fosse appena riavviata dopo un lungo tempo in stasi, nella
sua capsula sotto al dormitorio.
01001101 01101001 01101110
M i n
C’era vicina, lo sentiva, ma ancora… ancora non bastava. Cercò di sforzarsi
ulteriormente, continuando a muovere lenti ed incerti passi nella sua direzione,
gli occhi che saettavano su ogni parte della sua figura per intercettare
dettagli che avrebbero reso più semplice richiamare quel dato.
01001101 01101001 01101110 01100001
M i n a
Non andava bene, di quel passo il ragazzo si sarebbe probabilmente
indispettito: non era educato scordarsi dei nomi altrui, soprattutto delle
persone che hanno significato così tanto nella nostra esistenza… ma come faceva
a ricordarsi di ciò? Forse stava davvero iniziando a rammentare qualcosa.
Doveva impegnarsi di più, ma allo stesso tempo qualcosa le diceva di non farlo.
01001101 01101001 01101110 01100001
01110100
M i n a t
Il rumore che aveva continuato a ronzarle nelle orecchie si fece più intenso
man mano che i numeri riaffioravano dalla posizione in memoria dove erano stati
allocati.
Tum tum… tum tum…. tum
tum… tum tum…
Come per un riflesso -ma non era una cosa esclusiva degli umani?- alzò un braccio verso di lui, per poterlo toccare…
ma era ancora troppo lontano, e lei… lei doveva finire di ricordare. Provava
qualcosa di molto simile a ciò che gli uomini chiamano frustrazione, anche se
magari era solo un altro errore dei sensori; avrebbe fatto meglio a farsi
controllare, appena ne avrebbe avuto l’occasione. Ma ora… ora doveva trovare
quel nome!
In un impeto di pura volontà, portò il carico di lavoro del suo processore al
massimo assieme alla frequenza della sua memoria: come se un tappo fosse appena
esploso, liberando un getto d’acqua potentissimo, gli ultimi numeri affluirono
con una rapidità impressionante.
01001101 01101001
01101110 01100001 01110100 01101111 00100000
M i n a t o
01000001 01110010 01101001 01110011 01100001 01110100 01101111
A r i s a t o
Il peso della consapevolezza la colpì come un attacco diretto, facendola
barcollare.
-Minato-san…-
Le sue gambe iniziarono a muoversi da sole, mentre tese ancora più fermamente
il braccio verso di lui; iniziò a correre, più velocemente che poté, persino
più velocemente di quanto le sue gambe da androide avrebbero potuto
permetterle. Ma il ragazzo rimaneva lì, immobile, irraggiungibile, col solito
sorriso di poco prima sul volto; adesso persino gli altri membri dell’ormai
ex-S.E.E.S si erano voltati a guardarla, incitandola a raggiungerli: le loro
facce erano così felici, pervase da un sentimento che la giovane aveva bramato
di sperimentare per tanto, troppo tempo.
-Aigis-chan… mi sei mancata così tanto…-
Quelle parole di Minato spezzarono tutti i residui dei freni inibitori che le
erano ancora rimasti, arrivando alle sue orecchie come la più dolce delle
coltellate.
-M-Minato-san… aspettami… ti prego…!-
Ma per quanto pareva correre e sforzarsi, quanto il ragazzo pareva rimanere
sempre alla solita distanza, come se lei fosse rimasta al punto di partenza,
senza muoversi di un passo. Cadde in ginocchio, sopraffatta dal peso di tutte quelle
nuove sensazioni, ansimando e stringendosi freneticamente il petto mentre del
liquido iniziò a cadere dai suoi occhi. Sì, molto probabilmente aveva un guasto
all’impianto idraulico: le riparazioni erano d’obbligo in quanto quel liquido,
caldo e apparentemente salato, non pareva volersi arrestare ma anzi continuava
a scorrere copioso, gocciolando a terra, mentre anche il suo apparato
fono-orale iniziava a dare cenni di malfunzionamento, portandola ad ansimare e
singhiozzare -due azioni esclusive degli uomini, ma lei non era tale… non lo
era… vero…?-
-N-Non lasciarmi… sola… di nuovo… Minato…-
Riusciva appena a tendere la solita mano verso la figura del ragazzo, che
pareva diventare più triste di secondo in secondo; senza preavviso, lui e tutti
i suoi compagni, i suoi amici, le
voltarono le spalle incamminandosi assieme verso la porta ancora spalancata,
verso una luce abbagliante che non faceva altro che mettere in risalto quanto
buio ed oscuro fosse dentro a quel locale: ma come mai se ne accorgeva solamente
in quel momento? E soprattutto, perché la stavano abbandonando?
Ogni tentativo di rimettersi in piedi fallì miseramente, facendola solamente
cadere rovinosamente al suolo: le sue giunture stridevano, rifiutandosi di
collaborare e quello che era stato fino a quel momento un basso martellare si
era trasformato in un rombo insopportabile.
TUMTUMTUMTUMTUMTUMTUMTUMTUMTUMTUMTUMTUMTUMTUMTUMTUMTUMTUMTUM
Provò d’istinto a coprirsi quelle che sarebbero state le orecchie, se solo
lei fosse stata umana, ma ovviamente non servì a niente. Le parole iniziarono
ad uscirle dalla bocca senza controllo, come un torrente che, man mano che il
ghiaccio a monte si scioglie, si ingrossa sempre più.
-Non voglio… non sola… ho paura… stringimi… Minato… stringimi… qualcuno… vi prego...
ho paura… ho paura… paura… paura… paura… pau01110010
01100001 00101110 00101110 00101110 01110000 01100001 01110101 01110010
01100001 00101110 00101110 00101110 01110000 01100001 01110101 01110010
01100001 00101110 00101110 00101110 01110000 01100001 01110101 01110010
01100001 00101110 00101110 00101110 01110000 01100001 01110101 01110010
01100001 00101110 00101110 00101110 01110000 01100001 01110101 01110010
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01100001 00101110 00101110 00101110 00000000 00000000 00000000 00000000
00000000 00000000 00000000 00000000
--------ERROR 0x0000000C:
MAXIMUM_WAIT_OBJECT_EXCEEDED. REBOOTING, PLEASE WAIT--------
1%
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71%
83%
90%
97%
99%
99%
99%
--------------------------------FUNCTIONALITIES MISSING.
ATTEMPTING REBOOT---------------------------------
Adesso ricordava: nella sua culla,
nel laboratorio sottostante al dormitorio della Gekkoukan
High School, riusciva finalmente a ricordare. Niente di tutto ciò era successo, era stata un’allucinazione generata durante l’ultima stasi da frammenti di memoria
residui, uniti a stringhe di codice malfunzionanti. Ora, quei problemi erano
stati entrambi risolti e rimossi, quindi la sua operatività non sarebbe più
stata intaccata. Un ulteriore check-up fu avviato dal macchinario che l’aveva
revisionata; recava una sola frase, per richiamare una sua funzione
primordiale:
“Qual è il tuo compito?”
Era una domanda facile, ma inizialmente si trovò in difficoltà… Il suo compito
era proteggerlo. Glielo avevano sempre ripetuto.
…Ma chi doveva proteggere? Doveva proteggere… proteggere… chi…?
…Qual era il suo compito?