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Autore: sese87    04/12/2017    9 recensioni
Vegeta è un tipo geloso, ma fino a che punto potrebbe spingersi la sua gelosia? Chi sarà alla fine il suo vero rivale?
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bulma, Vegeta, Yamcha | Coppie: Bulma/Vegeta
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Small Talk
Salve! Piccola storiella semplice, semplice e senza troppe pretese che spero possa piacervi! :)
Il rating l'ho scelto giallo, anche se non lo definirei personalmente così, ma ci sono alcune immagini esplicite, seppure velate, che potrebbero valere un rating più alto del verde.




Small Talk

gelosìa s. f. [der. di geloso]. – 1. a. Stato emotivo di dubbio e di tormentosa ansia di chi, con o senza giustificato motivo, teme (o constata) che la persona amata gli sia insidiata da un rivale.


Era ancora la ragazza conosciuta nel deserto.
Ricordava persino la prima volta in cui, di soppiatto, senza averlo fatto a posta, la vide nuda per la prima volta. Non avrebbe immaginato allora che sarebbe stata sua, e con una punta di imbarazzo avrebbe, adesso, dovuto ammettere a se stesso se lo fosse veramente mai stata; se lui lo fosse mai veramente stato per lei o se ogni avvenimento non fosse invece servito a preparare entrambi a ciò che sarebbe poi accaduto nelle loro vite: Yamcha non sarebbe mai più arrossito (purtroppo?) davanti ad una bella donna e Bulma avrebbe imparato a conoscere il numero, illimitato, delle possibilità che sarebbe sempre stata in grado di concedere, nonostante il forte orgoglio. A lui, ma anche all’altro: Vegeta.
Così diversi avevano finito per scegliere la stessa donna, ed era quasi assurdo, pensava sempre Yamcha, che da qualche parte dell’universo, e poi sulla Terra, ci fosse stato qualcuno tanto sanguinario ad aver posato le mani dove anche lui, arrossendo, aveva lasciato le proprie carezze e i primi baci.
Ed erano state carezze anche quelle di Vegeta, nonostante all’inizio nessuno di loro l’aveva creduto possibile, probabilmente nemmeno Vegeta stesso. Ma Bulma aveva intuito qualcosa in lui che tutti loro non avevano scorto, un bisogno, una tristezza atavica, quasi la stessa presente in Yamcha, il brigante del deserto, ma meno profonda: non abbastanza da interessarne lo sguardo, o da catturare un cuore.
Bulma non aveva scelto il brigante, ma se l’era ritrovato come regalo del destino, certamente più bravo ad esaudire desideri rispetto a Shenlong. Bulma avrebbe considerato anche Vegeta un regalo del destino, per tutte quelle piccole circostanze che lo avevano reso perdente davanti alla propria ribellione, consegnandolo a lei. Come quella volta in cui, dopo aver fatto l’amore con Yamcha, al suo ritorno dalla morte, lei lo portò a considerare che, se i tre saiyan non avessero dimenticato lo scouter acceso, non ci sarebbe stata nessuna Namecc, nessun Freezer per Goku e nessun ritorno, ma si sarebbero tutti ritrovati in paradiso, uccisi dal nuovo immortale imperatore del mondo, il Principe dei Saiyan.
Tuttavia, non era stato il destino: Vegeta era stato scelto e fortemente voluto, la circostanza felice, comoda, era invece stata, suo malgrado, Yamcha. Non aveva molto valore un dono gratuito, non per una donna abituata all'avventura.
Sistemò la carta colorata, ormai stropicciata, che adornava il mazzo di fiori da regalare a Bulma. Si chiese se potesse valere abbastanza da comprare il suo perdono. Si chiese anche quali fossero le tecniche usate da Vegeta per chiederle scusa, se, a conti fatti, le avesse mai chiesto scusa per qualcosa o se, ancora peggio, Bulma avesse mai davvero voluto le sue scuse; per non averla salvata dall’attacco del dottor Gelo, per aver messo tutti in pericolo aiutando Cell a completarsi, per aver ceduto alla magia di Babidi rinnegando tutto, persino suo figlio, pur di nutrire il proprio orgoglio. Ormai era successo; vecchia storia, anni fa. Altra acqua sotto ben più solidi ponti.
Poco difficile anche capire il motivo per cui Vegeta le fosse interessato così tanto: aveva molte storie addosso, il saiyan, esaltate da un forte carisma, e chissà se Bulma le avesse mai veramente ascoltate, quelle storie, dalla sua bocca profana, racconti di guerra che di eroico avevano avuto soltanto la strenua, insoddisfatta, resistenza delle vittime.
Vegeta era l’antieroe dei tanti film visti insieme accoccolati sul divano, il mostro che, alla fine, dimostrava di avere cuore. Bulma, infatti, non si era imposta l’obiettivo di cambiarlo; in un certo senso era stato come se avesse sempre e solo atteso il momento in cui, anche Vegeta, avesse accettato di avercelo, un cuore, arrivando a vedersi attraverso la considerazione lenente rivoltagli da sua moglie, la quale, dal suo corpo, aveva baciato via ogni abuso subito, fisico e mentale.
Meritava, Vegeta, di essere amato così tanto?
«Credo che il padrone sia già sposato!» Disse Pilaf, raccogliendo le mani dietro la schiena, sopraggiunto con gli altri due fedeli compagni, Mai e Shu, tornati bambini. Insieme agli altri due, osservava già da un pezzo Yamcha, fermo senza muoversi, con un mazzo di rose in mano, davanti alla Gravity Room del signor Vegeta, impegnato ad allenarsi. Mai e Shu si scambiarono delle gomitatine complici: pareva un affare succoso, degno di interrompere la loro noia pomeridiana.
Il trio, lo aveva dimenticato. «Ehm…eh eh, non sono qui per lui.» Rispose Yamcha, coprendo le proprie parole con una risatina isterica. Non era lì per portare fiori a Vegeta ovviamente, si era diretto alla Capsule Corporation per parlare con Bulma, la quale lo evitava da giorni per un insulto che, a dirla tutta, Yamcha non si era accorto di averle rivolto. O meglio, per ciò che lei doveva aver colto come un insulto ma che, lui, non aveva assolutamente inteso come tale. Ed eccolo, dunque, davanti alla Gravity Room, per chiedere a Vegeta, colui che gliel’aveva portata via, se per caso l'amica si fosse davvero offesa così tanto da negarglisi in ogni mezzo di comunicazione conosciuto. Dopo molta trepidazione, aveva poi dovuto ammettere che l’unico da cui carpire delucidazioni non fosse altri che Vegeta.
«Allora per chi sono i fiori?» Continuò Pilaf, dondolandosi sul posto. La sua impertinente, riconoscibile, ombra, puntellata dal particolare berretto, oscillò sulle piante che adornavano il corridoio.
«Sono per Bulma.»
«Credo che anche la padrona sia sposata.» Lo mise al corrente Mai, coprendosi la bocca con le mani, a fermarne l’ilarità.
«Questo lo so benissimo!» Si difese Yamcha, innervosendosi leggermente, come se non fosse già abbastanza nervoso da dover chiedere un favore, a tu per tu, proprio a Vegeta! Sapeva ormai che non gli avrebbe fatto del male, allo stesso tempo, però, non si erano mai rivolti la parola così direttamente, loro due da soli; parlargli come un comune mortale lo metteva in soggezione, nonostante, ormai, avrebbe avuto davanti un padre di famiglia e non più un assassino, il suo assassino. Ed erano passati più di dieci anni da quando si erano ritrovati, per la prima volta, sotto lo stesso tetto.
Tecnicamente, Yamcha, Vegeta non ti ha mai ucciso, quindi sarebbe opportuno tu la smettessi di lagnarti!
Strinse le dita sulle rose, arrivando a pungersi, e fu quando una piccola goccia di sangue gli cadde sulle scarpe nuove in camoscio che la porta della Gravity Room si aprì e la figura, sudata, scocciata di Vegeta fu seguita da un «Che vuoi?» prima di notare i fiori nel pugno. Li notò subito dopo, annusando l’odore che col tempo aveva imparato a riconoscere come di colonia, scorrendo, fastidiosamente, lo sguardo dal basso all’alto su l’uomo che aveva tutta l’aria di essere uscito da uno dei film romantici che Bulma preferiva.
Anche questo aveva imparato sulla Terra, insieme ad altre amenità che sua moglie considerava importanti, come assistere alle ridicole prove sportive di Trunks, costretto a mascherare la propria forza.
Yamcha arrossì, essendo stato distratto dal gruppetto di Pilaf, aveva finito col perdere la baldanza e la concentrazione con cui avrebbe contato di rivolgersi a Vegeta, per domandargli, nientemeno, se sua moglie se la fosse presa per qualcosa che credeva di averle detto ma non sapeva cosa. Semplice.
«Ehm… Bulma?»
Aveva imparato ad ignorarlo, il fastidio di sentire quel nome uscire dalle sua bocca, ma si era acuito dopo la partita di baseball in cui lei, per dispetto (così a Vegeta piaceva interpretare l’accaduto), aveva tifato per Yamcha e non per lui.
«Non c’è.» Tagliò corto, braccia conserte, asciugamano posato sulle spalle, dai muscoli ancora sollecitati dal duro allenamento che, da quando Bulma era rimasta incinta, aveva ripreso a svolgere a casa sua. Tch.
Non era stato geloso di Yamcha, almeno non all’inizio; la sua gelosia era cresciuta col tempo, ramificandosi come la sua affezione per l’unica donna a cui avesse concesso di sopravvivere ad un suo orgasmo, e come il sentimento che, mai proferito a voce, si era incuneato nel loro rapporto.
«Me ne sono accorto, per questo sono venuto qui da te.» Disse Yamcha, con addosso gli occhi del gruppetto di Pilaf e di Vegeta, il quale, da quando era giunto sulla Terra, non aveva mai smesso di guardarlo nello stesso identico, astioso, modo.
«Per cosa?» Inquisì quest’ultimo; detestava le chiacchiere inutili.
«Ehm…una se…settimana fa…» Incipiò, stringendo le pungenti rose tra le mani sudaticce, come per distrarsi, con il dolore, dal suo stesso balbettio, e dalle dita del suo interlocutore che, nervose, iniziavano a picchiettare sui bicipiti incrociati, scandendo ogni parola proferita. «Devo averle detto qualcosa che l’ha offesa.»
«Tch, avrà sicuramente sentito cose peggiori da me.» Rispose Vegeta, con baldanza, dopo un lungo ma significativo silenzio in cui si era preso la briga di considerare l’uomo che gli stava di fronte, il quale credeva, ancora, di avere un ascendente tale su sua moglie al punto da lasciare impronte da quanto dettole.
Subito dopo, però, la sua mente fu sedotta dalla consapevolezza di essere stato riconosciuto, finalmente, come colui che, tra tutti e due, ne sapeva di più, riguardo Bulma e il suo carattere; perché andare proprio da lui, altrimenti? E come sensazione gli piacque: aveva il sapore della vittoria; alleviò i suoi muscoli tesi sciogliendosi su di essi come miele. Rivolse a Yamcha un ghigno bastardo, efficace per la rarità con cui, oramai, veniva elargito al di fuori del campo di battaglia.
E produsse, quello, la stessa paura che aveva indotto il Maestro Muten a non toccare più il sedere o le tette di Bulma.
Come il primo che gli avesse mai visto tagliargli il volto.
Che ne dite di combattere uno per volta contro i nostri soldati? È un gioco!
Questi mostri non sono così forti come li credevate.
Questa volta sei tu che li stai sottovalutando troppo.
Vegeta lo oltrepassò e gli sporcò, passandogli accanto, la giacca chiara con il proprio sudore sul braccio nudo; la stessa chiazza che, per anni, aveva immaginato tra le cosce candide di sua moglie.
«A…aspetta un attimo!» Lo richiamò Yamcha, il quale, negli occhi tempestosi di Vegeta, si era sforzato di scorgere Trunks per darsi coraggio. E lui si fermò in mezzo al corridoio illuminato dal sole, penetrato dalle finestre, che gli bagnava la pelle affaticata, che si posava sul nero corvino dei capelli a fiamma, dove erano state insinuate mani un tempo sue; non si voltò, Vegeta, ma rimase in attesa di altre parole, non fosse stato altro che per abitudine.
«Potresti almeno dare questi a Bulma?» Allungò, ingenuamente, il mazzo di fiori nella sua direzione.
Vegeta, a sua moglie, non aveva mai regalato nulla, oltre a gesti estremi di un amore rimasto altrimenti muto; gli parve dunque ridicola, strana, l’idea di portarle dei fiori, oltre tutto da parte di un altro uomo, il suo primo uomo.
«Vuoi scherzare? Per chi accidenti mi hai preso?»
«Possiamo portarglieli noi, i fiori!» Azzardò allora, sghignazzando, Shu, il quale come gli altri, era riuscito a far dimenticare della propria presenza, e adesso irrompeva prepotentemente nella gelosia di Vegeta.

Gettò i fiori nel cestino della cucina, senza grazia né rancore, spezzandone i lunghi steli, disperdendone i delicati petali che piovvero sul pavimento come gocce di sangue, prima di calpestarli con indifferenza nel tratto fino al frigorifero.
Prese una bottiglietta d’acqua, per berla allo sgabello della penisola; lo stesso, conservato dall’animo più romantico di Bulma, su cui non ricordava di essersi seduto al suo primo ingresso in quella casa, lo stesso da dove aveva aspettato il suo primo pasto precotto, lontano dai namecciani, criticando la “cuoca” che sarebbe poi diventata sua moglie. La quale gli aveva risposto con una ferocia tale da sorprenderlo, almeno per un istante, prima di ricordarle con chi avesse a che fare; prima che gli venisse ricordato di essere un ospite.
Appunto, non lo ricordava: non aveva mai prestato attenzione a simili dettagli; abituato a vivere nel presente, non aveva considerato il passato che nel fantasma di suo padre o delle proprie sconfitte. I ricordi della sua vita in quella casa non erano iniziati che dopo la morte di Kakaroth, al tramonto del Cell game, quando, distrutto, sconfitto, aveva finalmente accettato di riconoscersi negli occhi di suo figlio Trunks. Ed era iniziata allora anche la sua gelosia nei confronti di Bulma e del suo passato. Un sentimento fino a quel punto sconosciuto, concepito soltanto come senso del possesso, di un principe senza popolo ma ugualmente viziato, ma che poi apportò nuova, velenosa, linfa alle radici della sua insicurezza. E l’insignificante figura di Yamcha, prima di allora mai calcolata, finì con l’entrare, a poco a poco, nel suo letto.
Negli anni precedenti la venuta dei cyborg, si era ostinato, Vegeta, nel vedere Bulma come l’ennesima puttana, nonostante fosse stato ben consapevole che, le puttane, non avevano mai leccato la sua carne lasciandovi lussuriosi sospiri di piacere, invece che imprecazioni e urla di dolore.
«Oh Vegeta! Ma che accidenti stai facendo con la luce spenta? Mi hai spaventata.» Disse Bulma, appena arrivata, accendendo la luce, posando a terra le buste dello shopping compulsivo a cui si era abbandonata per tutta la giornata. «Vuoi forse che partorisca in cucina per lo spavento?»
La solita esagerata.
Aveva addosso l’odore ferroso della strada, la polvere della città. «Non ti avvicinare, puzzi.» La redarguì Vegeta.
«Come se il tuo sudore profumasse di rose.» Ma c’era davvero odore di fiori in cucina, e infatti, guardandosi intorno, Bulma, le notò: le corolle abusate; una metafora non troppo implicita delle innumerevoli vite recise da Vegeta, un po’ per gioco, un po’ per dovere. Tra quelle vite c’era stata anche quella di Yamcha. «E quelli?»
«C’erano già quando sono arrivato.» Rispose, mentendo, in fondo non aveva promesso che li avrebbe consegnati.
Bulma si chinò a terra per raccogliere un biglietto. «Qui c’è scritto “Scusami, da Yamcha, per Bulma”.»
Vegeta si raggelò, scoperto a mentire, gli avrebbe urlato contro per ore, per averle rovinato un regalo. Si pentì per aver scelto di infierire sui quei fiori, piuttosto che polverizzarli.
«Cosa pensi che voglia dire?» Domandò, invece, Bulma.
Si sorprese. «Non lo sai?»
Accartocciò il biglietto e lo gettò via, senza pietà, con il resto dei fiori; un gesto compiuto già mille volte per altrettante richieste di scuse dallo stesso mittente. «Ultimamente mi pare di essere circondata da incompetenti! Litigo con così tanta gente che non posso ricordarmi di tutti.» Sbottò, prima di sedersi anche lei, togliendosi gli stivali. «Questa mattina sono passata in ospedale, e hanno avuto il coraggio di chiedermi se per caso non fossi una primipare attempata! Ci manca solo che, durante il parto, ti scambino per mio figlio.» Concluse, iperbolicamente, incrociando le braccia al petto ancora florido, nonostante i 3,8 centimetri in meno. «Allora?» Incalzò, osservando il marito, in cerca di un incoraggiamento che, sicuramente, Vegeta, non avrebbe trovato nel fondo della bottiglia intento a scolarsi con tutta calma.
Si asciugò il muso con la mano e finalmente le disse: «Non mi sembri così vecchia.»
«Quindi, mi stai dicendo che sono vecchia?»
«Non ho detto questo.»
«Hai detto che non ti sembro “così vecchia”, quindi stai insinuando che lo sia ma non così tanto.»
Sbatté le palpebre un paio di volte, cercando di capire la logica di quell'attacco. Dopo tutti quegli anni di relazione, non aveva ancora imparato a trattare gli sproloqui di Bulma.
In fondo, se nemmeno un Dio ci riusciva, che speranze avrebbe mai potuto avere, lui? Non gli parve mai così remoto il periodo, all’alba dei suoi trent’anni, in cui aveva osato considerarla come l’ennesima puttana, la madre dei suoi futuri figli. A cui sarebbe bastato dirle di essere bellissima; non l’aveva mai fatto Vegeta, né ci pensò in quel momento, piuttosto, messo alle strette, pensò fosse saggio cambiare argomento e spostare l’attenzione di nuovo su altri, uno a caso. «Comunque, il tuo spasimante, mi ha disturbato durante l’allenamento per sapere per quale assurdo motivo ce l’avessi con lui. Non mettermi in mezzo ai vostri stupidi battibecchi.»
A Bulma si illuminarono gli occhi e non soltanto per la luce riflessa del lampadario al soffitto. «Quindi l’hai visto?» Inquisì, sospettosa.
«È passato.» Biascicò, reggendo il suo sguardo, conscio di essersi forse messo in un pasticcio peggiore del primo. La sua lingua tagliente non si era tirata indietro nemmeno davanti a Freezer, che aveva apostrofato con sarcasmo fino agli ultimi respiri della propria vita; non c’era stato nemico, o amico, a cui non avesse inferto ferite loquaci. E se con Lord Beerus restava zitto per rispetto, con Bulma si incartava sempre, perdendo la concezione della propria intelligenza. Si sarebbe detta la differenza tra genio e intelletto.
«I fiori li aveva quando è passato da te?» Lo interrogò.
«Non l’ho notato.» Mentì ancora . «Forse li ha buttati passando di qui.»
«Sei il solito distratto!» Sbottò Bulma. «E scommetto che non gli hai chiesto per quale motivo pensava ce l’avessi con lui. Come faccio a saperlo, adesso?»
«Perché, ti interessa fare pace?» Le domandò, colto dalla gelosia.
«Mi interessa sapere per quanto tempo devo avercela con lui, a seconda della gravità della situazione, ovvio.»
Della gravità della situazione. Che accidenti poteva aver fatto, di cosa dannatamente grave? Lo avrebbe quasi compatito, se non si fosse trattato di Vegeta e se non fosse stato troppo impegnato nelle proprie assunzioni illogiche, dettate proprio dalla gelosia, che gli suggerirono quanto Bulma non se la fosse mai presa con lui allo stesso modo, nonostante l’avesse rifornita di incommensurabili motivi, decisamente gravi.
Si scocciò, in quell’istante, perdendo la pazienza. Non riusciva a capire, Vegeta, da dove scaturisse tutta quella importanza, attribuita alle parole di Yamcha. «Vado a farmi la doccia.» Annunciò, scendendo dallo sgabello.
Per quanto tempo ancora, aveva intenzione, Bulma, di fargli pagare i tradimenti subiti? Bruciavano ancora così tanto sul suo orgoglio? Evidentemente molto; lui di orgoglio era un esperto. E in esso avrebbe continuato a crogiolarsi, rincorrendo pensieri che non lo avrebbero portato che a se stesso.

«Assurdo, Vegeta, dopo tutto questo tempo?»
La maglietta era a terra, stracciata, intrisa di sangue alieno e familiare; aveva avuto importanza come tampone di fortuna, finché non era stata gettata, lasciando una chiazza scura sulle piastrelle, insieme al risentimento inconscio di Vegeta, più fastidioso del taglio, all’altezza del reno, che tentava di ricucirsi nel bagno.
Se l’era presa da sola, l’unica volta in cui era stata ammessa a curare le sue ferite, e questo soltanto perché lui era giaciuto, moribondo, ai suoi piedi, tra le macerie della navicella spaziale usata come palestra (o stanza delle torture).
«Non riuscirò mai ad abituarmi alla visuale di te che ti infilzi con l’ago. Sei davvero ostinato!» Continuò Bulma, dal ciglio della vasca da bagno, sollevando le gambe affinché il robottino pulisse anche l’ultima traccia di sporco.
L’allenamento era stato infine preferito ad una doccia ristoratrice; invece di rilassare i muscoli, distendere i nervi, aveva deciso di tormentare il corpo per incatenare la mente che, ribelle, aveva corso verso un’inafferrabile irrazionalità: non esistevano motivi per cui provare gelosia nei confronti di Yamcha, Vegeta lo sapeva bene, eppure non concepiva avesse ancora un simile ascendente su sua moglie, dal cui buon umore dipendeva praticamente ogni cosa; la quale, comunque, aveva sorriso a Yamcha, e non a lui, durante la partita di baseball!
A parole, Bulma aveva detto di aver scordato il motivo del litigio, ma a Vegeta non era sfuggita la nota astiosa con cui lei aveva suonato l’addio ai fiori e accartocciato il biglietto, e non aveva forse tagliato, da una settimana, di proposito, ogni comunicazione con l’altro?
«E tu ti ostini a rivolgermi sempre le stesse domande.»  Disse, stringendo i denti, mentre l’ago incideva la pelle lacerata, avvicinandone i lembi con un filo sottile.
Anche quella era sempre stata una questione d’orgoglio, come suo padre gli aveva insegnato, almeno all’inizio, diventata però in seguito un dispetto, nei confronti di una donna davvero troppo invadente.
Erano passati anni dalla prima volta in cui era stata, e non molto elegantemente, invitata a rimanere al suo posto in un simile frangente. All’epoca, ovviamente, se ne lamentò, finché non le fu parata davanti una mano, insanguinata, pronta a spararle contro un affatto simpatico fascio energetico. E aveva lasciato stare. Non che avesse mai creduto che Vegeta volesse colpirla sul serio, ma aveva compreso quanto fosse importante, per lui, occuparsene, abituato a farlo in un campo di battaglia, in condizioni provvisorie ben peggiori di un bagno pulito, e senza l’accompagnamento saccente dei suoi commenti petulanti. Perché, oh, quelli!, non gli sarebbero mai stati risparmiati, in nessuna epoca e in nessun universo, nemmeno nello spazio profondo, quando aveva osato interromperlo, durante la folle rincorsa al super saiyan, per avvertirlo di essere rimasta incinta di Trunks, e avresti dovuto dirmelo, Vegeta, di non aver usato precauzioni! Come se ce ne fosse stato il modo, come se le fosse importato.
Bei tempi quelli, passionali, rabbiosi, ma forse surclassati da attimi migliori?
«Stai facendo un pasticcio.» Commentò Bulma, vedendolo contorcersi: con una mano si tirava il fianco, con l’altra ricuciva, seguendo i propri movimenti dallo specchio. Il bordo dei pantaloni intriso di sangue.
Mosse soltanto lo sguardo, per intimarle, inutilmente, di starsene zitta.
Gli sorrise: «Ti lascerai la cicatrice.»
«Non me ne importa.»
«Bugiardo.» Infatti, non ci si ritrovava con un corpo come quello, dalla grana compatta e perfetta, liscia, se non gli fosse importato non avere addosso i segni visibili della temporanea superiorità degli avversari, prove di un’arroganza tale da averlo indotto a sottovalutarli, prima che cadessero, morti, sconfitti, ai suoi piedi.
Aveva sempre fantasticato a lungo, Bulma, sul fisico di Vegeta, e certamente ne rimase sorpresa, la prima volta in cui vi posò sopra le mani: non raccontava nulla di quanto fosse suggerito, invece, dallo sguardo predace di una vittima abituata a subire. Era stato questo il suo mistero, dandole contezza del coraggio con cui si era ribellato a Freezer, e della determinazione che lei stessa avrebbe avuto, se si fosse ritrovata schiava di un tiranno. Dopo averlo conosciuto meglio, le era piaciuto subito, moltissimo.
«Soprattutto perché sei stato tu a gettare i fiori di Yamcha, non è così?»
L’ago guizzò dalla sorpresa, tagliando il sottile istmo di pelle che avrebbe dovuto richiudere. 'Fanculo!
«Me l’hanno detto i bambini, chiedendomi se i fiori, che tu stesso ti eri offerto di portarmi, mi fossero piaciuti.»
Maledetti nani impiccioni! L’avrebbe fatta pagare ad ognuno di loro, se Trunks non avesse avuto una cotta per Mai, l’unica dei tre di cui ricordasse il nome, per averla conosciuta anche da adulta.
«Non mi ero mai accorta della tua gelosia per Yamcha, ma d’altronde, se sei stato geloso addirittura di Jaco, avrei dovuto aspettarmelo!» E scoppiò a ridere, Bulma, con tutta se stessa, reggendosi il petto con una mano, come se volesse trattenere l’ossigeno nei polmoni, a cui mancava per le risa. Piccole lacrime le sbocciarono dagli occhi blu.
E Vegeta si sentì avvampare dalla vergogna, le guance incandescenti; era stato già fin troppo palese a tutti, quanto fosse geloso e protettivo nei confronti di sua moglie, ma detestava che glielo facessero notare, tra risolini convulsi e scoppi di risa.
Come hai osato toccare mia moglie?
Non era davvero rimasto che questo, del Principe dei Saiyan?
Tornando seria, lo guardò negli occhi neri e non vi trovò che suo marito e la loro storia. Come erano lontani, da quello sguardo torvo, i campi di battaglia, le urla di morte, la sofferenza, le ferite di un animo oscuro, frustrato, che, quello sì, le era stato concesso di curare. Non era mai stata interessata a cambiarlo, Vegeta, perché già dall’inizio non si era data che al sanguinario Principe, conscia dei suoi fantasmi, ma era successo: era diventato una persona diversa.
Migliore?
Se lo chiedeva anche lui; e se l'era chiesto per tutto il pomeriggio, trovando, alla fine di un tunnel di elucubrazioni, il suo principale, imbattibile, rivale: il vecchio se stesso.
Bulma si alzò dal ciglio della vasca e gli andò vicino posandogli una mano sul viso. «Sei sempre lo stesso, Vegeta.»
Gli disse, dolcemente, prima di lasciargli un bacio sulla guancia. «Ti aspetto a letto!»

Fine


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