Storie originali > Romantico
Ricorda la storia  |      
Autore: FRAMAR    08/12/2017    28 recensioni
Ero pronto a mettermi contro tutto e tutti pur di realizzare il mio sogno d'amre....
---------------------------------------------------------------------------------------------
Dedicato a tutti i lettori di efp che mi seguono settimanalmente che sono sempre olre 1000 grazie.
Genere: Generale, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 
 
 
 
 
 
Conta solo l’amore




 
«Te ne pentirai, Wlady, ma allora sarà troppo tardi per tornare indietro».

Queste sono state le ultime parole che mi ha detto mia madre stasera, prima che uscissi di casa dopo aver messo quattro cose nella mia vecchia sacca. Me ne pentirò, lei ne è sicura, e tornerò, piangendo e pregandola di riprendermi.

Per ora sono solo pentito di essere uscito di casa tardi, e adesso non mi piace stare seduto da solo nella sala di aspetto della stazione, in attesa che arrivi il treno. Cerco di non pensarci, ma mi hanno cresciuto ripetendomi fino allo sfinimento che un ragazzo solo, in giro dopo una certa ora, va in cerca di guai. E in effetti forse è vero che sto per cacciarmi in un guaio: vado a raggiungere l’uomo che amo e che nessuno vuole lasciarmi amare.

Rabbrividisco per il freddo e l’inquietudine, ma finalmente annunciano il treno e mi affretto verso il binario con le gambe che tremano. Se non fosse che ormai ho deciso, forse tornerei indietro, ma poi mi basta immaginare il viso di Alex, il suo sorriso e la sua voce perché la forza e la determinazione perse durante l’attesa tornino e riempirmi il cuore, Alex. Non posso deluderlo e non posso deludere me stesso.
Sul treno ci sono poche persone e hanno tutte l’aria assonnata, nemmeno mi notano mentre mi siedo e cerco di mettermi il più comodo possibile. E poi perché dovrebbero notarmi?

 
Il vetro del finestrino mi rimanda la mia immagine, quella di un giovane ragazzo pallido, dall’aria smarrita. Forse un po’ diverso dal ragazzo che tre mesi fa ha salutato Alex in quella stazione e gli ha promesso, giurato, che una decisione l’avrebbe presa, presto il più presto possibile. Solo la vita non ti permette sempre di fare quello che avevi giurato anche a te stesso, le settimane sono diventate mesi e le telefonate sempre più piene di rancore e lacrime.

Mi rintano ancora di più nel mio angolo e chiudo gli occhi. Se Alex fosse qui, se potessi sentire le sue braccia che mi stringono, non avrei freddo e non sarei così disperatamente solo.

E pensare che la prima volta che lo vidi, non gli prestai attenzione, anzi.

«Niente panna sul gelato?»

La sua era una bella voce maschile, però io ero distratto: avevo dimenticato il quaderno degli appunti in aula studio e stavo pensando che dopo il gelato dovevo correre a riprenderlo e non ne avevo alcuna voglia. Così, perso nei miei pensieri, mormorai un “no grazie” e mi allontanai in fretta.

Il gelato era la mia passione e mi bastò gustarmene un po’ perché la rabbia di dover tornare a recuperare il quaderno mi passasse. Ma sì, anche tornando in aula sarei riuscito comunque a sbrigare le cose che avevo deciso per quel pomeriggio.

Io sono fatto così: pianifico e organizzo tutto.

Lo facevo anche da bambino e i miei genitori mi adoravano per questo. Cosa c’era di meglio di un figlio così? Preciso, metodico, sempre pronto a seguire tranquilli binari, prevedibile, questo sì, ma per loro andava benissimo.

Certo forse ero anche un po’noioso, ma almeno non rischiavo pericolosi colpi di testa.

Insomma tutto impegnato a pensare ai miei appunti, come potevo accorgermi del tipo che mi aveva domandato se volessi la panna.

«Hai visto quanto è bello il ragazzo nuovo della gelateria?» mi chiese il giorno dopo la mia amica Beatrice.

«Veramente no», risposi, ed era vero.

«Dici sul serio?» sgranò gli occhi. «Ma se ci vai ogni giorno a mangiare quantità di gelato che, detto fra noi, non ho ancora capito come fai a non trasformare in ciccia».

Sorrisi. Beatrice non sopportava che non ingrassassi, mentre lei era rotondetta e perennemente a dieta.

«Come faccio», ribattei, entro, prendo il gelato, pago ed esco.

«Sei senza speranza», sospirò lei, e tornò a sfogliare la rivista di moda che aveva davanti, invece del testo di storia che avrebbe dovuto studiare.

La cosa sarebbe finita lì se Beatrice non fosse stata tanto testarda. Per qualche strana ragione si era messa in testa che dovessi assolutamente vedere il bel gelataio, magari parlargli e chissà che altro. E così nel pomeriggio mi trascinò in gelateria e mi obbligò, invece di prendere il solito cono, a sedermi con lei a un tavolino. Come se avessi avuto tempo.

La accontentai, perché Beatrice non si dava mai per vinta e guardai anche quello che lei definiva un bel ragazzo. Le diedi ragione, perché era davvero bellissimo: alto, biondo e con due occhi luminosi e allegri.

Lui si fermò a scambiare due parole con noi e senza che quasi me ne accorgessi, riuscì a strapparmi un appuntamento. Oddio, strapparmi, gli dissi di sì e basta.

«Avevo ragione a dire che è un bel ragazzo?» inizia Beatrice. «Almeno ammetti che è merito mio».

Per quel che mi riguardava, Alex, ora sapevo come si chiamava, era solo un tipo simpatico e tra noi poteva nascere una bella amicizia, al resto non ci pensavo. Dovevo studiare, io, non avevo tempo per stupidaggini sentimentali, o almeno così diceva mia madre.

«Prima lo studio, Wlady e dopo avrai il tempo per fare mille cose.»

Solo io non avevo idea di cosa fossero quelle mille cose e ogni tanto pensavo che, quando fossi arrivato alla laurea e a un buon lavoro, non avrei saputo  che farne  del tempo a disposizione, ma non era il caso di preoccuparsi troppo, no?
Intanto bisognava raggiungerli quei traguardi e poi qualcosa mi sarebbe venuto in mente.

Cominciai a uscire con Alex senza dare troppa importanza alla cosa. Qualche passeggiata, una pizza ogni tanto e, per quel che mi riguardava, non eravamo altro che amici, però gli sguardi che Alex mi lanciava mi dicevano che per lui non era così, anche se non me ne parlava e quando ci salutavamo il bacio che mi dava, sempre e solo sulla guancia, era innocente e amichevole. Sempre, ma non il giorno dell’esame.

Avevo una prova importante, difficile e Alex lo sapeva perché gliene avevo parlato fino allo sfinimento. Lui poveretto mi aveva sopportato, ma quando uscii dall’aula frastornato e felice per avercela fatta, lo trovai ad aspettarmi con un mazzo di fiori colorati in mano e un’espressione radiosa.

«Cosa ci fai qui?» gli chiesi.

«Festeggio insieme a te».

«E se no ce l’avessi fatta?» ribattei.

«Tu non potevi non farcela, cervellona!»

Scoppiammo a ridere e io presi i fiori che mi porgeva. Nessuno me ne aveva mai regalati prima e mi alzai in punta di piedi per dargli un bacetto di ringraziamento. Solo che incontrai le sue labbra e lui non le scostò.

 
Ci baciammo lì per la prima volta, in mezzo a una folla che non ci vedeva, troppo impegnata a fare altro. Ci baciammo e fu bellissimo, travolgente, fu come scoprire un mondo sconosciuto che avrebbe potuto essere nostro. Pura meraviglia, quel bacio, uno splendore senza fine.

Ci innamorammo quel giorno, o meglio, quel giorno ci accorgemmo di quanto ci amavamo e niente altro ebbe più importanza.

Sarebbe stato tutto perfetto, se mia madre non si fosse messa in mezzo.
«Stare insieme a un gelataio, uno senza arte né parte. Dio mio, Wlady, sarai sulla bocca di tutti.»

Mia madre aveva sempre avuto due metodi infallibili per farmi rientrare nei ranghi: chiamarmi spesso per nome, probabilmente perché fosse ben chiaro che stava parlando con  me e solo con me, e sottolineare con decisione l’opinione del prossimo. In genere aveva sempre funzionato, ma quando si trattò di scegliere tra le chiacchiere di quattro comari e il mio amore per Alex non ebbi dubbi e neppure quando dovetti barattare la mia felicità con la disapprovazione di tutta la famiglia.

Scelsi lui, naturalmente, cos’altro potevo fare?

Furono i mesi bellissimi, pieni di progetti, amore, risate. Pieni di vita, sì, di vita come non mi era mai successo.

L’unica nota stonata erano i musi lunghi a casa mia, ma non me ne importava.

Col tempo i miei genitori si sarebbero convinti, anzi mia madre si sarebbe convinta, perché  era lei l’osso duro.


Infatti, mio padre si era già arreso, ma la mamma, oh, la mamma non mollava e mi rovesciava addosso il peso del suo biasimo, non appena ne aveva l’occasione.

«Te ne pentirai. Ti accorgerai che hai buttato un sacco di tempo e non so come farai a recuperarlo».

A casa mia perdere tempo era sempre stato un peccato quasi mortale. A casa mia c’era sempre stato prima il dovere e poi ancora il dovere e basta. Solo che c’era Alex e le mie priorità non erano più le stesse.

«Ti devo parlare», mi disse un giorno Alex.

Era un pomeriggio di fine settembre e io stavo ancora godendomi la lunga, meravigliosa estate che avevamo passato insieme, però quelle parole suonavano strane, il suo viso era serio e io cominciai ad avere paura.
«Non è così grave, Wlady» si affrettò ad aggiungere, vedendomi impallidire, «si tratta di lavoro, mi hanno offerto un posto. Ma non qui, a casa mia».

 
A casa sua? Ma era lontano, era a chilometri e chilometri di distanza. Cosa potevo fare se non mettermi a piangere?

«Vieni via con me».

Alex lo disse senza pensarci un attimo, e io ricominciai a piangere, ma di felicità».

Sapevo che non sarebbe stato semplice e sapevo che dirlo a mia madre sarebbe stata una tragedia, ma ero felice che mi volesse con sé.

«Tu sei matto! E i tuoi studi? L’università? In questo modo mandi all’aria tutti i nostri progetti!»

Questo mi diede fastidio, che i progetti fossero nostri e per meglio dire, suoi. Le spiegai che non avrei abbandonato nulla, che sarei tornato per dare  gli esami, avrei seguito le lezioni più importanti, non ero il primo che faceva il pendolare, no?»

Ma non ci fu verso di fargliela capire…

Ecco perché ora sono sul questo treno.

In questi lunghi mesi niente è cambiato, né nella testa della mamma, né nella mia determinazione e se qualcosa stava cambiando, è fra me e Alex, invece, e non certo in meglio.»

«Si ha un bel dire che l’amore vero sopravvive a tutto, liti, soldi, lontananza, ma quando non ci si può sfiorare, quando baci e parole devono passare attraverso il telefono o per il monitor di un computer, quando tutte le piccole abitudini  diventano ricordi, be’ continuarsi ad amarsi diventa complicato e quando ho avvertito, che i discorsi erano sempre stentati fra me e Alex, ho scelto, ho dovuto scegliere ed è stato il mio amore a vincere.

Adesso però ho paura.

So  quello che ho lasciato, una famiglia forse soffocante, ma presente, tante certezze e qualche amico, e invece  dove vado non so cosa troverò, nemmeno sono sicuro che Alex mi ami ancora.

Mi devo essere addormentato.

Sbatto  gli occhi per mettere a fuoco quello che mi circonda e quasi mi stupisco di trovarmi sulla carrozza di un treno che corre nella notte, poi mi ricordo.

Fuori dal finestrino è ancora buio. Ogni tanto un lampione diventa una scia luminosa, ma non vi si vede niente, a parte quando ci fermiamo in qualche stazione popolata da rarissimi viaggiatori assonnati, proprio come me. Forse è meglio se cerco di dormire ancora un poco. Almeno, se dormo, non penso e non ho paura.

Quando mi risveglio, sono quasi arrivato. Il nome che vedo sui cartelli è quello della stazione dove devo scendere, della città dove vive Alex e dove vorrei vivere io.

Sulla banchina mi accoglie il freddo delle prime ore del mattino, quel freddo intenso come la solitudine che si riesce a vincere solo con il tempo e con una tazza di caffè caldo.

Il bar della stazione è aperto, per cui penso di potere cominciare da lì a riscaldarmi l’anima, di certo un buon primo passo, più semplice che andare a bussare alla porta di Alex

 
La ragazza che mi mette la tazza davanti non la finisce di sbadigliare. Non deve essere granché svegliarsi tanto presto al mattino e nemmeno lavorare al bar di una stazione, deve essere proprio il massimo. E a me tornano in mente le immagini che mia madre ha evocato per anni e cioè che senza studio, sarei finito a fare lavoretti da nulla, per quattro soldi e a orari impossibili.

«Sonno?» le chiedo, tanto per dire qualcosa e perché vedo che ha voglia di chiacchierare.

«Un po’», mi risponde con un sorriso. «A nessuno piace alzarsi così presto al mattino, ma il lavoro è lavoro e i soldi mi servono perché l’anno prossimo mi sposo.

Mentre lo dice, gli occhi pieni di sonno brillano e lei non riesce e smettere di sorridere.

Ecco, questo è l’importante. Non il lavoro bello e prestigioso, non i soldi per le vacanze o per l’appartamento che tutti ti invidiano, l’importante è avere un obiettivo che ti renda felice. È l’amore, è quel  matrimonio che costerà qualche fatica, ma proprio per questo sarà un momento incredibilmente felice.

All’improvviso, capisco che ho bisogno di Alex, ho bisogno di vederlo, di sentirlo, di parlargli, di dirgli quanto lo amo e che spero di essere amato da lui.

Le strade sono ancora vuote e non c’è nessuno a cui chiedere informazioni, ma io conosco la via dove abita Alex e so come arrivarci.

A furia di fissare la piantina su Internet, ci potrei arrivare bendato e questa idea mi fa ridere, una risata che mi da un po’ di coraggio e allora comincio a camminare.

Dunque prima devo percorrere questo viale fino in fondo e poi girare a destra.

Per distrarmi e per far smettere il mio cuore di battere all’impazzata, lancio uno sguardo alle vetrine dei negozi ancora chiusi e provo a immaginarmi mentre entro a comprarmi qualcosa o mentre faccio la spesa nel più piccolo supermercato più avanti.

Sì, potrebbe funzionare. Se Alex mi vuole ancora, potrebbe funzionare.

Perché non dovrebbe volermi?

Non capisco da dove arriva quest’idea irragionevole che mi tormenta da giorni, ma forse dovrei essere più sincero con me stesso e ammettere, finalmente, che tutto è nato dalla telefonata di due settimane fa.

Era allegro. Alex, più del solito e io che avevo litigato con mia madre, non volevo rovinargli l’umore con le solite, vecchie storie. Lui aveva continuato a raccontarmi della sua vita, di  quel lavoro che gli piaceva molto e che gli dava un buon stipendio.

«Così non ci saranno problemi, quando verrai.»

Mi era solo sembrato o davvero esitato per un istante, prima di dirmelo? Mi era solo sembrato o la voce era meno sicura del solito?

E poi aveva fatto quel nome: Marchino.

Marchino era un giovane ragazzo che lavorava insieme a lui.

Alex me lo aveva descritto come un ragazzo allegro, simpatico, sicuro di sé ed io mi ero sentito morire. Per la prima volta in vita mia, avevo capito cos’era la gelosia.

Oh, non era successo nulla, ne ero sicuro, ma quanto ero disposto a rischiare ancora? Per quanto tempo avrei permesso che le idee di mia madre rovinassero una delle cose più belle che erano capitate nella vita?

Era arrivato il momento di decidere da solo e affrontare la realtà.


Qui, proprio qui devo girare a destra, poi attraversare la piazza e poi ci sarà la strada dove vive Alex. E’ bella come me l’ha descritta lui, tranquilla, con bei palazzi vecchiotti e ben tenuti, alberi e aiuole, mi piacerà vivere qui, ne sono  sicuro.

Adesso devo solo trovare il numero.

Eccolo, ho fatto presto. Avrei preferito cercare ancora e invece sono qui, davanti ad un portone di legno dipinto di fianco un numero 4, grande e sfacciato, e una serie di nomi.

Premo il bottone vicino al cognome di Alex.

«Chi è?»

Metallica e distorta, ma è la voce di Alex e io mi sento sciogliere come se mi avesse baciato.

«Wlady».

Il mio nome, l’unica cosa che riesco a dire prima che la voce sparisca per andare a finire chissà dove.
Mi sembra interminabile il tempo che passa prima che  uno scatto faccia aprire il portone e penso che, magari, lui non ha troppo voglia di aprire, magari sta con Marchino e non sa cosa farsene di me, e così resto immobile ad aspettare.

I minuti passano… Dovrei andarmene, lo so, sarebbe la soluzione migliore, dovrei, dovrei…

«Wlady».

Alex è di fronte a me, mi prende le mani, le stringe, le scuote, sembra incredulo.

«Ti aspetto da mesi, sogno che tu mi dica di venirti a prendere alla stazione e tu suoni alla mia porta alle sei del mattino! Sei matto, tutto matto».

Mi abbraccia così forte da soffocarmi e io sento il mio cuore che si calma e il sangue che riprende a scorrere nelle mie vene.

«Suoni e io resto là, come uno stupido, senza capire se è meglio aprire o correre giù da te in mutande. Oh Wlady, finalmente!»

Finalmente, sì, finalmente sono con Alex. Finalmente andrà tutto bene, perché, finalmente, sono arrivato a casa.

   
 
Leggi le 28 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: FRAMAR