Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: Herondale7    09/12/2017    2 recensioni
Piccolo avviso:
Il capitolo "Jacopo" appartenente a questa raccolta partecipa al contest “È nella mia natura...” indetto da Nirvana_04 sul forum di Efp.
Salve lettori!
Mi permetto di presentarvi questa raccolta di storie perché non c'è un filo conduttore tra i capitoli che leggerete.
Si tratta proprio di quello che vedete lassù nel titolo: frammenti di storie. Vi parlerò dei miei personaggi, di coloro che vivono nella mia mente e che, ahimè, non ne usciranno mai; sono davvero di ogni tipo e di ogni specie immaginabile, di ogni età e orientamento sessuale, di ogni realtà, da quella medievale a quella futuristica...
Ognuno di loro per me è speciale a modo suo, e spero che riusciranno a conquistare anche voi, che "sfoglierete" i loro passati.
Non mi resta che augurarvi buona lettura, vi aspetto in tanti!
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Yuri
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Jacopo


«Jaco, io oggi parto e starò via due settimane, ho un congresso a Parigi a cui non posso assolutamente mancare.» Suo padre gli si avvicinò e gli lasciò la copia delle chiavi di casa, scombinandogli leggermente i capelli. «Mi raccomando, è la prima volta che ti lascio a casa solo e non ti porto dalla nonna, non farmi pentire di questa decisione, chiaro?» Disse con il solito tono autoritario.
«Sì, papà.» Rispose una flebile vocina, ancora troppo acuta per ricevere una tale responsabilità.
Jacopo aveva a malapena undici anni. Era magrolino, cosa che lo caratterizzò a vita, con una massa incolta di capelli lisci, di colore castano chiaro e non troppo lunghi, che gli ricadevano sulla fronte. I suoi occhi erano verdi, ma non un bel verde acceso, né tendente al verde chiaro, bensì erano davvero scuri, come le foreste.
«Se ti senti solo guarda la tv o gioca alla console nuova, ma non invitare i tuoi amici, non voglio la casa a soqquadro.» L’uomo prese la sua ventiquattrore e il trolley da viaggio che aveva trascorso più tempo fuori casa che dentro il suo armadio, per poi dirigersi verso la porta di casa.
Il piccolo non poté far a meno di chiedersi come mai il padre gli facesse una tale raccomandazione. Non vedeva, per caso, i lividi sui polsi o i graffi sulle scapole? Quali amici avrebbe dovuto invitare se le persone che lo conoscevano meglio erano quelle che lo picchiavano?

 
Si chiedeva spesso cosa avrebbe dovuto farsene dei sentimenti.
Erano solo dei pesanti e ingombranti macigni che si trascinava dietro da quando sua madre lo aveva abbandonato alle cure di suo padre. Cure… si fa per dire. Effettivamente Jacopo non aveva mai avuto un gran rapporto con lui, ma di sicuro si aspettava di più che vederlo una volta alla settimana, ovvero quando andava bene e non era in viaggio per lavoro.
Fu in quegli anni che realizzò che nessuno mai sarebbe stato disposto ad ascoltarlo, gli stessi anni nei quali iniziò a subire bullismo dai suoi coetanei e venire allontanato dalle ragazze. Era stato marchiato come reietto, insultato giornalmente, tanto da convincersi che il disgusto che gli altri provavano nei suoi confronti avesse un qualche fondamento, ma abbastanza rispettoso di se stesso da non farglielo intendere.

 
«Ma che ti passa per la testa? Insulti la ragazza più carina della scuola e te ne vai via senza nemmeno pensarci due volte!»
Uno dei pochi amici che aveva in seconda superiore, Alessandro, lo stava rincorrendo l’ennesima volta per il cortile, all’ingresso della scuola. Come tutte le altre occasioni in cui questa scena si ripeteva, il suo compagno di classe ne aveva combinata un’altra delle sue. Aveva il fiatone ma non si fermò fin quando Jacopo non smise di camminare.
«Alex, dacci un taglio, non ho detto nulla che gli altri non condividessero. Non è colpa mia se è un’oca senza cervello e non sa niente di fisica, ma è colpa mia se dico che ha sbagliato a farsi il prof per avere il mio stesso voto? Sono entrambi dati di fatto.» Disse il castano dandogli ancora le spalle e mettendosi le mani in tasca per il freddo invernale.
«È comunque una persona, ha dei sentimenti e viene ferita se tutti le ridono in faccia, e non puoi trattare così le persone!» Alex ormai urlava, ma a lui non importava. Sapeva che avrebbe reagito così.
«Se non ti piace come tratto le persone… perché sei ancora qua?» Disse voltandosi appena.
Le parole gli uscirono dalla bocca senza accorgersene. Ci fu un momento davvero lungo di silenzio, nessuno dei due osò dire nulla. Forse era stato proprio quello il momento in cui Jacopo era diventato pienamente quello che era.
«Hai ragione, non ha un senso stare qua.»
Alex andò via, e non lo rincorse mai più.

 
Tutti coloro che gli erano stati vicino, durante i primi tempi alle superiori, affermavano che vivere come un automa e non avere empatia erano caratteristiche proprie dei robot, e che con gli esseri umani non avevano nulla a che fare. La maggior parte sosteneva anche che era da vigliacchi non voler provare quelle emozioni che ti smuovono da dentro, positive o negative che siano.
Eppure Jacopo riusciva a solo pensare che dimostrare agli altri i suoi sentimenti avrebbe cambiato il suo modo di essere, lo avrebbe esposto a qualcosa che gli faceva troppa paura per affrontarlo. Sarebbe stato come se fosse costretto a negare ciò che per tanto tempo gli era stato ripetuto.
Era diventato parte della sua natura volere che gli altri vivessero a distanza da lui. Ciò permetteva loro di non imbattersi in un ragazzo che non avrebbero potuto cambiare o apprezzare, senza spendere energie e risorse inutili, e inoltre gli consentiva di non alterare quelle che per lui erano certezze, ossia l'utilità del suo modo di affrontare la vita.
Fino a quel momento era andato tutto a meraviglia con quel metodo, perciò perché non continuare?
Forse perché una ragazza era andata fuori da questo schema di carnefici e buonisti, rendendo inutili tutte le verità che aveva trovato con le sue attenzioni.
Si chiamava…
 

«…Sirah, piacere di conoscerti! Mi sa che sono nella tua stessa classe perciò, se non ti spiace, vorrei chiederti di…» Disse straparlando la ragazza tendendogli una mano.
Jacopo la strinse debolmente e in poco meno di un minuto si era perso nel bel mezzo della parlantina della ragazza.
Senza nemmeno farci caso acconsentì a farle fare il giro dell’istituto, portandola anche nei posti dove i prof non cercavano i ragazzi e mostrandole i suoi rifugi: la biblioteca e il cortile sul retro.

 
Il nome era quello di una stella, bella come quelle che studiava Galileo Galilei.
Aveva gli occhi di un verde chiaro, quasi di giada, e i capelli biondo cenere le cadevano leggermente mossi sulle spalle, allungandosi fino a metà schiena. Non era slanciata, ma nemmeno troppo bassa per la sua età. Aveva qualche accenno di curve che finalmente, a diciassette anni, comparivano sotto i suoi larghi maglioni chiari per poi scoprirsi totalmente sui suoi jeans stretti e scuri.
Nel corso di ben quattro anni non si era mai arresa con lui. Aveva continuato imperterrita a dimostrargli affetto, disponibilità e compassione per quel modo di agire, a suo parere inspiegabile, senza ricevere o chiedere nulla in cambio. Ma la cosa più importante, a dispetto di quanto valore desse alla loro amicizia, era che Sirah rappresentava il modello fiducioso e buono di umana, e lui la apprezzava per questo.
Erano difatti i primi tempi che la scienza si ritrovava spiazzata davanti a un evento su scala mondiale di mutazione genetica; chi stava ai vertici era incapace di adottare misure speciali per coloro che venivano chiamati “transitati”, una nuova specie che mostrava DNA umano fino all’adolescenza, età in cui si manifestava nei ragazzi da un giorno all’altro, esattamente come un virus latente.
I malcapitati, o fortunati che siano, ottenevano delle qualità o dei poteri che li elevavano a un’altra razza rispetto a quella umana, talvolta cambiando radicalmente anche i loro modi di agire o pensare, e rendendoli perciò pericolosi. La maggior parte di loro aveva un intelletto molto superiore alla media oppure era in grado di svolgere prestazioni fisiche inumane senza sforzi, ma tra loro v’era un gruppo più particolare.
Quelli che vi appartenevano erano in grado di modificare gli stati della materia, mutare il proprio corpo, praticare telecinesi o rendere immateriali o inesistenti gli oggetti. Li chiamavano metafisici, poiché rompevano ogni legge della fisica, persino quelle che trascendevano l’esistenza.
Sfortunatamente Jacopo ne faceva parte e, come un buon diffidente del governo, si teneva ben lontano da ospedali, laboratori di ricerca, centri di donazione del sangue e quant’altro. Quei posti pullulavano di gente desiderosa di conoscenza, e che l’avrebbe voluta ottenere a qualunque costo.
Se le persone avessero saputo che lui era in grado di assorbire cento colpi, avrebbero provato a dargliene centouno per pura curiosità, forse uccidendolo. Non ne era certo, ma ogni transitato esaminato dal governo aveva dei limiti fisici, perciò probabilmente li aveva anche lui, sebbene non sapesse fin dove si spingevano.

 
Jacopo aveva trovato pane per i suoi denti alle superiori. Arrivato al terzo anno alcuni ragazzi del quinto avevano preso a minacciarlo giornalmente, fargli scherzi molto pesanti e umiliarlo in pubblico.
Lui se ne stava per i fatti suoi nel frattempo, adottando la sua politica dell’impermeabile di indifferenza, ma sapeva che doveva fare qualcosa.
Quel giorno c’era caldo, davvero molto, ma lui aveva indossato una felpa leggera lo stesso. All’uscita di scuola li vide attenderlo fuori il cancello. Bastò uno sguardo solo al gruppetto per sapere cosa sarebbe successo. Fece un bellissimo sorriso di ironia, mettendo piede fuori il territorio scolastico.
Iniziò lui, provando a tirare al più grande un pugno, ma andò tutto storto e cadde perché si era sbilanciato troppo. Inaspettatamente non sentì la botta dell’asfalto sulla spalla o sul fianco, e nemmeno quelle che poi gli diedero gli adolescenti.
«Non mi state facendo niente, stronzi!» Prese a ridere mentre era steso. «Non mi fate nemmeno il solletico!» Tra un calcio e un altro si tirò su, e indirizzò tutta la sua frustrazione e rabbia repressa contro coloro che, per l’ennesima volta, provavano a tirarlo giù. «Adesso chi è che ride? Eh?»
Un sorriso davvero inquietante si fece strada sul suo volto, i suoi occhi sembravano infuocati, come se qualcosa di profondo li avesse oscurati.
Da lontano Sirah guardava, correva, urlava di fermarsi.
Da lontano Alex osservava, si allontanava, sbuffava tra sé e sé.

 
Sirah aveva scoperto la sua natura circa un anno prima, in seguito a quel pestaggio violento dal quale Jacopo era uscito “miracolosamente” illeso. Quello fu l’unico giorno in cui la ragazza ebbe paura di Jacopo.
Ogni tanto lei provava a convincerlo che magari, se avesse collaborato con il governo, un giorno avrebbero capito il perché delle mutazioni genetiche e sarebbero riusciti ad aiutarli, ma il ragazzo ci credeva poco. Sapeva che la giovane era troppo ingenua e che più verosimilmente sarebbe diventato una cavia da laboratorio.
Jacopo avrebbe voluto anche dirle, con tutta la delicatezza possibile, che quel suo insistere nel fargli cambiare idea era inutile, così come aspettarlo dietro scuola per fare strada insieme, presentarglisi a casa per aiutarlo in qualche materia e tentare di giocare ai suoi videogiochi preferiti per fargli compagnia il pomeriggio online.
Già, avrebbe voluto dirglielo.
Tuttavia qualcosa doveva essere andato storto nel passaggio tra i suoi pensieri e la sua lingua perché non ci riusciva, e chiaramente non ci credeva nemmeno. Era chiaro come il sole che Sirah lo stava cambiando; seppur molto lentamente e con grosse difficoltà, ci stava riuscendo. Ormai non avrebbe potuto più aver paura di lui.
La realtà infatti era che Sirah rappresentava per lui ciò che Galileo era per la Chiesa. Come quest’ultimo, lei gli aveva aperto una nuova visione sul vivere a colori, ma lui, troppo preso nel negare l’esistenza dei suoi sentimenti agli altri e a se stesso, non era riuscito a trovare dei motivi validi in grado di sostituire le sue certezze grigie con la verità limpida.
Anche se Jacopo era davvero tentato dall’idea di cambiare scuola, pur di richiudersi nelle sue scelte, non sapeva immaginarsi più da qualche parte dove lei non vi fosse. Forse era ciò che le persone chiamano amore, si disse. Se così fosse stato, doveva ammettere a se stesso che era un'emozione come un'altra, gestibile allo stesso qual modo, ossia nascondendola sotto il tappeto dell’indifferenza.
Eppure questa proprio non riusciva a controllarla, e questo faceva saltare in aria tutto ciò che era radicato dentro di lui. Dall’essere una delusione per gli altri fino all’idea di poter continuare a non reagire, ogni convinzione veniva scardinata.
Era come se, realizzato ciò che provava, fosse iniziata una caccia all'uomo. La sua consuetudine, armata di tanta sociopatia, cercava quel sentimento folle. Scavava dentro, dietro e davanti ogni suo organo, si appostava nel suo cervello e mirava attraverso le sue vene, scansando con cura il cuore, poiché la sua volontà, che sapeva bene che lo avrebbe trovato lì, non era disposta a lasciar spazio alla ragione. Non voleva uccidere anche quella ultima parte di lui in grado di esprimersi.
Nell'ultimo anno la caccia all'uomo era andata avanti senza sosta, e senza altrettante conclusioni. Da quando lei sapeva che Jacopo non era umano tutto era cambiato. Aveva iniziato a confidarle le sue riflessioni, i suoi dubbi, persino il fatto che aveva paura di quello che era diventato… cose che non avrebbe mai ammesso con nessuno. E lei era rimasta lo stesso.
 

«Che ne pensi dei cinema?» Disse a bassa voce.
«Sono posti silenziosi, un po’ freddini ma dove andrei volentieri. Perché me lo chiedi?» ribatté la ragazza.
«Volevo farti vedere una cassetta, ma qui a casa non ho un mangianastri per mostrartela… forse se chiediamo lì potremmo trovarne uno ancora funzionante.»
La ragazza si aspettò tutto tranne che quello strano invito. Pensava a qualche film, magari un fantasy o un distopico, o ancora un horror, ma di certo non pensò di vedere la videoregistrazione del quarto compleanno di Jacopo.
Due giorni dopo, infatti erano seduti in uno sgabuzzino del cinema ad armeggiare con quelle vecchie attrezzature. Su una parete bianca, nella quale erano affisse delle puntine, il proiettore mostrava un bambino che giocava felice con un vagone di un trenino giocattolo; aveva i capelli di un castano chiaro con sopra un cono con disegnati dei palloncini, una maglietta a maniche corte bianca e dei piccoli jeans.
In sottofondo si sentivano le voci di sua madre e suo padre cantare “tanti auguri a te”.
Sirah, alla fine della proiezione, non chiese nulla, si limitò a stringere forte Jacopo. Lui non versò una lacrima, ma ricambiò l’abbraccio.

 
Dentro di sé, lei sapeva che Jacopo non avrebbe retto ancora per molto senza parlare con qualcuno. Apparentemente lei non riusciva più a trovare una soluzione per far capire a quel ragazzo che la vita non è solo il mero trascorrere del tempo e delle persone o il rapido fuggire alle istituzioni. A volte le veniva solo voglia di urlargli contro, gridare che c'era molto di più nella sua vita che doveva essere vissuto appieno, poi prenderlo per mano e portarlo in un parco.
La ragazza decise così, di punto in bianco, di confessargli i suoi sentimenti. Aveva capito di provare qualcosa per lui dal secondo anno che lo conosceva circa. Ne erano passati altri due, durante i quali aiutarlo era diventato il suo obbiettivo primario, ricambiata o meno nei sentimenti. O la va o la spacca, si ripeteva, mentre quel giorno un fiume di parole che si sovrapponevano inondava il salotto di casa di Jacopo.
Lui continuò a tacere, anche quando lei smise di parlare.
Alla fin fine, il cecchino della sua ragione era stato costretto a mirare al cuore, e non per colpa di Sirah, ma perché Jacopo stesso sentiva l’esigenza di mettersi davanti a quel bivio che si era preposto sin da prima che la ragazza irrompesse con i suoi modi quattro anni prima. Fu in quel momento che dentro di lui scoppiò una vera e propria guerra civile.
Una parte avrebbe voluto cedere e lasciare che Sirah, l'eccezione nella sua realtà piena di grigi, riuscisse a demolire e ridurre in polvere tutto quello che nel corso degli anni si era costruito intorno per evitare di essere ferito, lasciando che una luce filtrasse.
L'altra parte non riusciva a far a meno di pensare che, se ciò fosse accaduto, avrebbe dovuto dare conto e soddisfazione in primis a se stesso, a tutte le emozioni che aveva accantonato, ma successivamente anche a lei, che si era impegnata tanto per scorgere il vero Jacopo e che molto probabilmente, si convinse, sarebbe rimasta delusa da quello che avrebbe trovato dietro i detriti della sua muraglia cinese.
Il solo pensare che ciò sarebbe potuto accadere gli bastò per ritirarsi come un paguro dentro le sue certezze. Certo, ormai erano un po' smontate e decisamente logorate, ma le avrebbe ricostruite. Non gli importava quanto tempo ci sarebbe voluto per trovare altre persone che lo avrebbero schernito o che si sarebbero arrese al solo conoscerlo, era abbastanza sicuro che quella sarebbe stata la scelta giusta.
Pensava tra sé e sé che, se il destino esisteva, gli aveva assegnato l’abilità di assorbire ogni colpo per un motivo preciso, e forse era proprio un segno di ciò che avrebbe dovuto fare in momenti come quelli.
Ma in tutto ciò si era dimenticato lui stesso che quel potere, così come il suo animo, prima o poi avrebbe rigettato tutto quello che pativa. Non gli era ancora successo, infondo non sapeva nemmeno lui se fosse possibile, ma lo intuiva.
C'è sempre un'altra strada, si disse, sperando che quel calore nel suo cuore e nei suoi occhi non si riversasse davanti alla ragazza, così come al cinema. Con la durezza e freddezza che solo un sociopatico può avere, Jacopo si strinse nelle spalle e mordendosi le labbra disse: «Mi dispiace, ma non ricambio ciò che senti.»
Mise le mani in tasca. Quella volta non avrebbero stretto quelle di Sirah, no.
Per una volta che aveva dato a se stesso la possibilità di lasciare uno spiraglio in quella che era stata sempre una porta chiusa e sbarrata, non era riuscito in alcun modo a coglierla; nonostante si fosse proteso in avanti, pronto ad afferrarne la maniglia, pronto a stringere ancora la sua mano come quattro anni prima, si era impietrito un secondo dopo, senza riuscirci.
Si chiese il perché diverse volte da quel momento e trovò varie risposte.
Perché farsi avanti, per una volta tanto nella vita, avrebbe implicato creare delle aspettative in lei che credeva di non saper soddisfare.
Perché in fondo Jacopo la amava molto più di quanto lei potesse immaginare, ma il terrore di perderla lo attanagliava.
Perché, l’unico perché, confessò a se stesso, era ben evidente.

Jacopo era un codardo.



 

Questa storia partecipa al contest “È nella mia natura...” indetto da Nirvana_04 sul forum di Efp.

Angolo autrice: Eccomi qui! Questa storia, come scritto sopra, partecipa a un contest, ma non è stata scritta solo per questo. l'idea di narrare la storia di Jacopo c'era già da un bel po', ma vi assicuro che parlare di lui visto dall'esterno è impossibile senza gettargli addosso una luce negativa. Essendo la prima introspettiva che scrivo mi piacerebbe ricevere qualche commento, ma so che le recensioni spesso non vengono fatte per noia, perciò fa nulla.
Alla prossima,
Herondale.

 

  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: Herondale7