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Autore: alessandroago_94    11/12/2017    21 recensioni
Il giorno del diciottesimo compleanno, ma anche il giorno delle verità e della comprensione del senso della vita.
Questo racconto ha partecipato al Contest “About Music” indetto da Soul_Shine sul Forum di Efp.
Genere: Introspettivo, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Portami via

PORTAMI VIA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Perché gli ultimi saranno gli ultimi,

se i primi sono irraggiungibili”.

Quelli che benpensano, Frankie Hi-nrg.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Era il giorno del mio diciottesimo compleanno, quando compresi chi ero veramente. Fino a quel momento, ero rimasto una sorta di ammasso di cellule ambulante, con qualcosa di vago, di incolore.

Non sapevo nulla di me stesso, nonostante avessi creduto e sostenuto con forza e veemenza che ero un giovane tutto di un pezzo. Sì, tutto di un pezzo, ma finito miseramente in frantumi, in un momento indistinto nella mia memoria, sotto la forza d’urto di una realtà che non sapeva aspettare chi restava indietro, e in modo particolare che non sopportava i più deboli, e invece di favorirli, li penalizzava.

 Avevo sempre adorato giocare col fuoco, in una lotta perversa che non era volta a migliorare la mia esistenza e a farmi spazio nel mondo, bensì solo a ledermi.

Ero autolesionista.

Quella volta, comunque, mi resi conto fervidamente, con inusuale nitidezza, di quanto io fossi giunto a volermi far del male, poiché avevo accettato di buon grado l’idea di mio padre, quel genitore insensibile che aveva tramutato la mia anima in un deserto così tanto arido da esser strapazzato in maniera pressoché continua da una tempesta interminabile.

Ebbene, quel giorno che per me doveva essere di grande festa si era così tramutato nella graticola su cui, come San Lorenzo il martire, finii ad arrostirmi senza pietà, metaforicamente pensando.

Mio padre mi aveva proposto di organizzare un festeggiamento serio, da figlio di un grand’uomo quale ero; ed io dissi di sì, mi sembrava che, dopo quasi diciotto lunghi anni di sofferenze e di lacrime, volesse allungarmi un contentino. Una sorta di crocchetta da buttare, con distrazione, al simpatico animaletto domestico che aveva sopportato in silenzio e con bonarietà tutte le più truci sfuriate della sua vita.

Eppure, come avrei dovuto immaginare, non fu tutto così facile.

L’organizzazione della festa, gli inviti, tutto quanto fu offerto e gestito da lui, ed io continuavo ad esserne felice, poiché pensavo che quella volta, per festeggiare uno dei traguardi più importanti della mia vita, col raggiungimento della maggiore età, volesse finalmente riconoscermi come un suo pari. E questo era un grave vaneggiamento.

Avevo così atteso il giorno del mio compleanno con trepidante attesa, agitandomi al solo pensiero, ed emozionandomi. Non ero stato capace di cogliere, negli occhi di mia madre, quel guizzo che avrebbe dovuto suggerirmi che non era così come immaginavo, e che io non sarei mai stato riconosciuto come suo pari, come m’impuntavo a pensare, nonostante ormai da quel giorno sarei stato un adulto, agli occhi del mondo.

E così, che festa fosse; il giorno tanto atteso giunse troppo velocemente, portando con sé una vagonata di speranza, che nel tempo era accresciuta in maniera notevole grazie alle mie continue cure interiori, e che sarebbe stata costretta a restare mortificata da lì a poco.

L’immenso giardino della nostra villa di campagna era tutto un brulicare di personale addetto a sistemare il buffet sui lunghi tavolini bianchi, e addirittura numerosi palloncini facevano da contorno a quello che doveva sembrare un festeggiamento colossale, tutti fissati con un filo sottile all’alta recinzione che circondava il nostro curatissimo possedimento.

Mi veniva quasi da piangere dalla commozione, come se fossi stato un bambino.

Dovetti trattenere anche la più piccola lacrimuccia, giacché ben presto un’orda di persone cominciò ad arrivare, e a recarsi verso di me, sorridendomi.

Erano tutti così belli, sistemati nei loro vestiti da festa; per l’occasione, erano tutti quanti molto tirati, e facevano davvero un figurone. Ed io, che non ero mai contato niente, mi sentivo per la prima volta importante, siccome quella marea di persone stava giungendo fin lì per me, per sussurrarmi auguri con la voce tremolante per la commozione, e magari donarmi anche un paterno abbraccio, che sarebbe stato molto gradito.

Solo in quel momento delicato mio padre uscì di casa e mi raggiunse in giardino, mantenendo una certa distanza fisica da me, ed appostandosi alle mie spalle, come avrebbe fatto un rapace pronto a scattare verso la preda.

Nel frattempo, prima di scattare, mi stava tenendo d’occhio.

Man mano che gli invitati arrivavano, essi si presentavano a me, ed erano tutti carichi di piccoli doni, di regalini e di pensierini che mi lasciavano facendomi tanti auguri, e sorridendomi in modo innaturale.

Moltissime di quelle persone erano attempate, essendo amici di mio padre, e nonostante ci fossimo incontrati tantissime volte, anche durante altre visite a casa nostra, non mi avevano mai riservato tanto calore. Al massimo un saluto a denti stretti. In maniera molto infantile, credetti che il contentino di mio padre fosse stato più dolce del previsto, e che mi avesse realmente reso un uomo.

Continuai a osservare il susseguirsi di scene e di persone con imbarazzo, arrossato in volto per l’estrema emozione che stavo provando, e ai miei piedi i doni crescevano, anche se in fondo si trattava comunque di piccoli pacchetti di poco conto. Ma era il pensiero che contava! Quel pensiero che mi rendeva contento e che mi teneva a galla, sulla cresta dell’onda di un momento fittizio.

Capii la falsità di quella festa che doveva esser stata organizzata per festeggiarmi solo quando arrivò lei, Giada, assieme alla sua famiglia.

Bellissima, biondina ed estroversa, molto a suo agio in ogni situazione, e, a livello comportamentale, decisamente più matura di me. Suo padre era uno dei principali colleghi del mio, era un signore di una sessantina d’anni dotato di una di quelle barbe da anziano profeta iranico che gli nascondevano i lineamenti del viso, un volto deturpato da una qualche disgrazia di cui non avevo mai saputo nulla.

Se papà era bruttissimo e sgradevole alla vista, e mamma era una donna bassa, molto chiusa e grassa, la figlia era un vero e proprio angelo; alta, slanciata, incredibilmente astuta ed intelligente. La adoravo.

Giada aveva la mia stessa età, e frequentavamo lo stesso istituto superiore, seppur in classi diverse. Quando la incrociavo lungo i corridoi scolastici, era sempre circondata da amiche e amici, immersa ed amalgamata per bene nel gruppo dei pari.

La salutavo sempre, e dovevo ammettere che, all’inizio, un saluto me lo mormorava anche lei; poi, col passare del tempo, aveva smesso e mi ignorava proprio del tutto. Ed io avevo preferito lasciar perdere. Per lei ero solo uno sfigato, di quelli che nessuno voleva al proprio fianco, e che non sapeva che fare durante l’intervallo, siccome nessuno gli rivolgeva la parola.

In quel clamoroso istante, però, con leggiadria si muoveva verso di me, ed io la osservavo incantato, come se tutto ciò fosse stato frutto della magia di quel giorno che pareva destinato ad essermi totalmente dedicato.

Salutai e ringraziai i suoi genitori, ma a porgermi un bel pacco fu lei stessa, gentilmente.

“Grazie”, le dissi, appoggiando con delicatezza ciò che mi aveva donato tra gli altri pacchi e pacchettini.

Giada, sotto gli occhi dei suoi genitori e di mio padre, si allungò verso di me e mi diede un bacetto amichevole sulla guancia, mandandomi in visibilio… ma non subito, poiché per qualche secondo mi parve d’esserci rimasto di sasso.

La ragazza, poi, rise senza ostentare malizia, e assieme ai suoi si recò al cospetto di mio padre, l’arpia che ancora mi stava alle spalle e che sembrava voler monitorare tutto quanto dalla sua postazione privilegiata.

Ero così felice!

 

Eppure, ben presto mi toccò scoprire quale era stato l’inganno.

Ero così avvolto da un velo d’insidiosa felicità che mi si era annebbiata la mente, e come un bimbo gioioso mi ritirai verso casa, verso l’interno della spaziosa dimora di famiglia, nel cui immenso soggiorno caldo e soleggiato erano stati adibiti numerosi confort e intrattenimenti per gli invitati, che in effetti se ne stavano già approfittando senza premura alcuna.

Se gli adulti bevevano ed attingevano al cibo come se nulla fosse, tutti molto tranquilli e raccolti a piccoli gruppetti, a confabulare in maniera amichevole, i miei coetanei erano tutti quanti rintanati attorno al grande schermo della tv, a giocare a turno alla playstation.

Prima di andare da loro, sfilai tra gli altri invitati adulti, e notai che non solo nessuno mi rivolgeva più un cenno di saluto, ma anzi, sembrava che mi ignorassero totalmente, e quelli che mi allungavano uno sguardo era come se avessero appena osservato un fantasma.

Compresi facilmente che a loro non importava assolutamente nulla di me, della mia festa e di mio padre, quell’uomo severo che era ancora all’aperto a ricevere gli ultimi ritardatari.

Mi mossi quindi in fretta e con agilità verso i ragazzi, credendo che, almeno quel giorno, tra le mie mura domestiche e durante la mia festa, mi sarebbe stato riservato un trattamento di favore, o almeno normale.

Avevo sempre avuto dei discreti problemi nel relazionarmi con gli altri, poiché ero un ragazzo molto timido ed introverso, e alla gente non piacciono le persone così. Quando si è sensibili e silenziosi, si finisce nel limbo dei Diversi, e cioè coloro che nessuno vuole nel proprio gruppo. In parole povere, gli sfigati.

Io ero un gran sfigato agli occhi di tutti, e il fatto che l’aura immensa del mio facoltoso genitore gravasse sulla mia testa ed influenzasse anch’essa il giudizio altrui a volte non mi era ancora ben chiara.

Ebbene, quella volta lo divenne.

Tra i ragazzi che giocavano alla bellissima playstation ultimo modello acquistata da mio padre per quell’importante occasione, c’era anche Giada.

Mi avvicinai ai miei coetanei e feci per sedermi tra loro, ma fu come se fosse arrivata la peste. Raccolsi in meno di un attimo così tante occhiatacce che ne rimasi raggelato.

Sorrisi, intimidito, e finii per prendere posto a fianco di Giada, la bellissima ragazza che aveva conquistato il mio cuore, e in virtù del fatto che quel giorno era parsa davvero di buone maniere con me, mi avvicinai ulteriormente, con delicata cortesia.

“Vuoi?”, le porsi un dolcetto, appena raccattato da un vicino vassoio. Ma la giovane si limitò solo a negare con un lieve movimento della testa, ed a rivolgermi un’occhiata non tanto dissimile da quelle che avevo ricevuto fino a quel momento dagli altri. Ma fu quello a ferirmi di più, poiché per qualche istante mi ero sentito al settimo cielo, dopo quel bacetto amichevole che avevo ricevuto durante la consegna del regalo, e quello era stato il suo vero dono, per me.

Eppure, compresi che si era comportata in maniera così gentile, nei miei confronti, solo perché c’erano i suoi, e mio padre che la osservava. Aveva fatto solo la lecchina, e nient’altro.

Giada era il classico esempio di ragazza che se t’incontrava per strada fingeva di non averti visto, ma che ti mandava a salutare con calore tramite i tuoi familiari, se aveva in seguito contatti con loro, e questo solo per rendersi carina agli occhi del mondo. Restando una stronza colossale.

Mi demoralizzai subito.

Il fatto che poi non fui ben accetto ad interagire con gli altri, tutti assorbiti dalla playstation e assolutamente decisi a non lasciarmi neppure sfiorare un joystick, mi spinse ad alzarmi e ad abbandonare la postazione marginale che ero riuscito ad occupare.

In poco più di un paio di minuti, era come se quella festa fosse diventata uno schifo assurdo. Mi lasciai scivolare nella solita apatia che provavo ogni giorno, quando nessuno mi voleva vicino a sé.

Camminai tra gli altri invitati adulti, cercando di non guardarli, siccome sul mio volto stava per comparire il solito rossore intenso prodotto dal mio animo ferito.

Uscii di casa un po’ troppo tempestivamente, e mi spinsi in giardino, finendo quindi tra le grinfie di mio padre, che si stava intrattenendo con alcuni uomini della sua età. Credetti di poter eludere la sua sorveglianza, ma mi sbagliai, giacché liquidò per un istante i suoi interlocutori e mi raggiunse con passo deciso.

“Dove credi di andare?”, mi sussurrò, con cattiveria. Era consapevole di essere sotto gli occhi di tutti, e che doveva andarci piano.

“Un attimo… un attimo a prendere una cosa. Torno subito”, gli dissi, frustrato e balbettando, facendo di tutto per tenere lo sguardo basso e non incrociare i suoi occhi rabbiosi.

“Vedi di fare in fretta, allora, perché se non ti è ancora chiaro, questa gente è qui per te e per festeggiare il tuo compleanno. Inventati anche qualcosa per intrattenerli! Sii un uomo, per questo giorno, e non tornare a deludermi”.

E così dicendo, mi lasciò andare. Ero sicuro che se non fosse stato osservato mi avrebbe urlato contro e mi avrebbe costretto a non allontanarmi, però ero stato fortunato, quella volta.

Mi mossi con rapidità, e non andai da nessuna parte, se non verso quello che ritenevo il mio rifugio segreto, in cui andavo a trascorrere un po’ di tempo quando ero davvero stressato e nervoso. Si trattava di un terrazzino nascosto alla vista di chi era in casa o nel giardino, nel retro dell’unico e alto capanno degli attrezzi che il mio genitore aveva fatto costruire tempo addietro.

Ci andavo per sfuggire alle grinfie di una realtà opprimente, che mi stava troppo stretta… e lì, lì i miei sogni potevano cullarmi per qualche minuto, con un sottofondo musicale che mi faceva sentire un po’ più compreso.

Raggiunsi il mio nascondiglio a cielo aperto quasi di corsa, e, come al solito, col viso in fiamme e col fiatone, estrassi il mio lettore mp3 e inserii le cuffiette di plastica nelle orecchie. Stavo così tanto male che avevo assolutamente bisogno di ascoltare la colonna sonora della mia vita, quella canzone che sapeva sempre consolarmi, e che aveva il sapore di un’invocazione continua e remota, che tanto avevo reso mia.

Accesi il minuscolo apparecchio elettronico, e appoggiando le spalle contro il muro che avevo dietro di me, socchiusi gli occhi, inspirando e cominciando ad ascoltare la musica, come se quella fosse stata l’unica medicina che mi avrebbe dato conforto.

La canzone era intitolata Portami via, di Fabrizio Moro, uno dei miei cantanti italiani preferiti.

 

 

 

Tu portami via

dalle ostilità dei giorni che verranno…

 

 

 

Quelle parole iniziali risuonarono nelle mie orecchie con vigore indiscusso, e in un attimo fui catapultato dentro a quell’invocazione favolosa.

Avevo sempre desiderato che qualcuno mi portasse via da una realtà che non sentivo mia, e in cui mi sentivo inadeguato; fin da bambino, troppo timido e chiuso, avevo sperimentato quel senso di vuoto che poteva essere percepito solo da quelli come me, dagli altri esseri umani rifiutati da una società più chiusa di quel che sembra, da un mondo che rifiuta i deboli e che li mette ai margini.

Ero stato messo ai margini anche da mio padre, il mio repressore e il mio tormento, al quale dovevo solo obbedire come se fossi stato un cagnolino ammaestrato.

Se pensavo ai giorni a venire, potevo vedere solo il buio negligente e infingardo che sembrava attendermi, sussurrandomi di andargli incontro, poiché mi attendeva, per far a pezzi la mia esistenza debole, fragile… da Diverso.

 

 

 

…dai riflessi del passato perché torneranno,

dai sospiri lunghi per tradire il panico che provoca l’ipocondria.

 

 

 

Una volta mio padre mi aveva portato con lui nella sua fabbrica.

Avevo avuto modo di guardare i suoi colleghi, quei pochi in completo e quei tanti in tuta da lavoro, tutti sporchi e sudati.

Non appena avevo finito di visionarli, lui mi aveva preso per mano e mi aveva portato nel suo ufficio. Avevo solo nove anni.

“Hai visto quella gente, Fabio?”, mi chiese, sempre col suo tono rude che lo caratterizzava.

Io avevo annuito, piano.

“Se non diventerai un duro, un giorno quelle persone ti sbraneranno. Per ora c’è tuo padre, che lavora anche per te; ma quando tutto questo sarà tuo, poiché il tuo genitore non vivrà per sempre, dovrai sapertela cavare e farti rispettare. Il mondo non è un posto per deboli o per timidi”.

Avevo deglutito, colpito da quelle parole.

“Nessuno starà mai dalla tua parte se non saprai farti valere, sappilo. L’uomo è l’unica cosa che devi davvero temere, nella vita”, proseguì, sancendo il suo verdetto.

Rimasi muto per un po’, a riflettere su quelle parole che ancora continuavano a frullarmi in testa, a distanza di anni.

 

 

 

Tu portami via

dalla convinzione di non essere abbastanza forte

quando cado contro un mostro più grande di me…

 

 

 

Possibile che il mio più grande mostro fosse l’essere umano, che si tramutava quindi ad essere anche la mia più grande paura e fobia? Avevo paura del giudizio degli altri, diventavo rosso se qualcuno mi parlava, mi sentivo schiacciato da un’umanità che non capiva che essere timidi non voleva per forza significare che si era pure stupidi e idioti.

Mi faceva mortalmente male, tutto ciò… e tutti si approfittavano di me.

La voce roca e aggressiva di mio padre continuava a risuonarmi nella mente, mentre la canzone proseguiva, implacabile.

 

 

 

…consapevole che a volte basta prendere la vita così com’è,

imprevedibile,

portami via dai momenti,

da questi anni invadenti,

da ogni angolo di tempo dove io non trovo più energia,

amore mio, portami via.

 

 

 

 

Ciò che preferivo di più, di questa canzone, era proprio la continua invocazione, volta ad un qualcuno di superiore, che poteva coincidere con questo amore platonico, che nella realtà di tutti i giorni non esisteva.

Anche io, nei miei momenti di sconforto, invocavo il Bene e Dio, ma non ottenevo mai risposta.

Avevo vissuto soprusi e violenze di ogni genere, ero stato seviziato dai bulli dell’autobus che mi portava a scuola ogni giorno, ed avevo dovuto subire passivamente tutte le sfuriate di mio padre, un uomo che la vita aveva corroso fino al midollo.

Non avevo mai tratto soddisfazione dal contatto con i miei simili, ero sempre stato consapevole di non essere felice e sboccato come loro, e quindi di essere un emarginato e una facile preda per i prepotenti. Per quelli che, come mi aveva detto mio padre fin da bambino, un giorno mi avrebbero letteralmente sbranato.

“Non hai tempra”, mi disse infatti il mio genitore, scrollando il capo con delusione, quando un giorno, a quindici anni, tornai a casa tutto trafelato, dopo averle prese dai bulli alla fermata dell’autobus.

“Un giorno comincerai a drogarti, ne sono sicuro. È quello che fanno tutti i deboli, come sei tu. Tutti gli anormali, quelli che non riescono a trarre piacere dalla realtà, e che quindi hanno bisogno di indurselo da soli”.

Ricordavo nitidamente che passai un intero pomeriggio a piangere.

 

 

 

Tu portami via

quando torna la paura e non so più reagire,

dai rimorsi degli errori che continuo a fare,

mentre lotto a denti stretti nascondendo l’amarezza dietro a una bugia.

 

 

 

Nella mia mente invocavo Dio, gli chiedevo di portarmi via. Di fare un miracolo.

Perché io avevo paura, paura che il mondo tornasse a ferirmi, che i miei simili dilaniassero la mia anima, e mi facessero impazzire.

Avevo già visto come si comportava Giada, quella ragazza che mi piaceva, e come si comportavano gli altri adulti. Ormai ero adulto anch’io, con i miei diciotto anni appena compiuti, ma non volevo far parte del loro mondo.

Avevo un problema esistenziale che andava ben oltre le mie stesse capacità. Anche poco prima ero fuggito dalla mia festa, e quello era stato l’ennesimo errore; mio padre mi avrebbe ripreso, soprattutto per il fatto che il tempo stava scorrendo, inesorabile, ed io non tornavo dagli ospiti. Ma potevo dire di averne avuto a sufficienza di tutti quei lecchini, che erano giunti fin lì non tanto per me, ma per compiacere mio padre, riempirsi la pancia e tirarsela poi di aver partecipato a una festa organizzata dal noto industriale.

Per quelle persone io ero solo una nullità. E allora, tanto valeva che s’ingozzassero liberamente, parlassero tra loro e giocassero alla playstation, tanto mi sarei solo vergognato a far la presenza di un fastidioso fantasma.

Avrei comunque nascosto tutto dietro a una bugia, ed avrei raccontato al mio genitore che non ero stato tanto bene, che avevo avuto un po’ di vomito, o una cosa del genere.

Qualunque scusa avrebbe fatto al caso mio, pur di salvarmi dall’ennesima evidente amarezza che mi sarebbe stata imposta. E volevo solo continuare ad ascoltare la mia canzone preferita, in quel momento.

 

 

 

Tu portami via

se c’è un muro troppo alto per vedere il mio domani,

e se mi trovi lì ai suoi piedi con la testa tra le mani,

se fra tante vie d’uscita mi domando quella giusta chissà dov’è,

chissà dov’è,

è imprevedibile…

 

 

 

Quale sarebbe stata la strada che avrei avuto di fronte a me, e, soprattutto, ne avrei avuta una davanti a me? O sarei finito come mia madre, ad essere una persona succube di un coniuge che non rispetta niente e nessuno se non il suo lavoro, il suo portafoglio e il suo tornaconto personale?

E pensare che a volte credevo che alla mamma fosse andata pure bene, poiché ero certo di finire asfaltato.

La vita che era dentro di me, che mi aveva strappato da un limbo dove tutto era indefinito, aveva creato una situazione paradossale. Siccome ero nato e mi era stato fatto il dono immenso della vita, avrei dovuto esserne felice, gioirne, invece questa esistenza mi faceva stare male, mi soffocava.

Non avevo chiesto io di venire al mondo e di essere così interiormente passivo, così incline al lasciarmi calpestare dagli altri… la verità era che si è quel che si è, e molto spesso non si va oltre.

Se quel Dio che di tanto in tanto invocavo, durante i miei tormenti interiori, fosse realmente esistito, si sarebbe dovuto sentire in colpa per aver gettato su questo mondo una miriade di creature viventi tutte destinate a soffrire.

A volte mi vergognavo di pensare che il Paradiso esisteva realmente, poiché quello doveva forse essere il misero premio per una vita di tribolazioni?

Dio pone agli uomini l’interrogativo più grande che sarà in eterno destinato a non aver risposta, fino al giorno del Giudizio Universale, come proferito dalle Sacre Scritture, e cioè se esiste qualcosa che sopravvive alla morte fisica. Alla decomposizione cellulare.

Certo che se il Paradiso non esistesse, sarebbe stata una bella fregatura.

E comunque un Dio che ama i propri figli non li avrebbe mandati a lottare l’uno contro l’altro in un pianeta ormai tramutato in arena… un vero Signore Onnipotente non si sarebbe limitato a guardare con impassibilità la morte degli innocenti, e i soprusi da loro sopportati.

Dal momento dell’adolescenza, avevo perso fiducia nell’Altissimo… come pian piano ne avevo persa anche a riguardo di me stesso.

 

 

 

Portami via dai momenti,

da tutto il vuoto che senti,

dove niente potrà farmi più del male, ovunque sia…

 

 

 

Avevo bisogno di sicurezza, di un abbraccio, del calore di un corpo amico.

Mi chinai a piangere, nessuno tanto poteva vedermi.

Il cielo sembrava voler rispecchiare, in un attimo di rabbia e d’ira, tutta la cupezza del mio stato d’animo, mentre nuvoloni sempre più neri si muovevano verso di me, sinonimo eloquente di un grandioso temporale in avvicinamento.

Che fossero tuoni e fulmini, allora! Che la pioggia battente di un autunno ritardatario spazzasse via la mediocrità di quella festa che era stata organizzata per me, ma che aveva avuto l’unico risultato di farmi sentire ancora più inadeguato e stupido di quel che ero.

 

 

 

Tu,

tu sai comprendere

questo silenzio che determina il confine tra i miei dubbi e la realtà..

 

 

 

Tu, colui che ancora non esistevi nella mia vita, e di cui sentivo la mancanza sempre più forte.

Se solo qualcuno mi avesse compreso! Oh, se solo qualcuno avesse potuto udire i miei lamenti interiori, il mio dolore, la mia stanchezza…!

 

 

 

Da qui all’eternità,

tu non ti arrendere…

 

 

 

Volevo davvero arrendermi?

Non volevo più crederci, solo perché ero un Diverso, un emarginato, un escluso?

Non credevo più nella mia giovanissima vita per questo, e anche perché non volevo entrare a far parte di un’esistenza che non sentivo propriamente mia, volta solo a lottare contro altri miei simili, in una battaglia di forze opposte che avrebbe portato solo alla vittoria del più deciso e motivato?

Io sarei partito, per l’ennesima volta, più indietro rispetto agli altri.

Alla fine, per trovare un po’ di soddisfazione personale sarei finito a drogarmi, come mi aveva macabramente pronosticato papà.

Stava a me decidere; arrendermi, oppure no? Credere nel miracolo, oppure voler creare da me l’occasione che avrebbe fatto cambiare la mia vita, e mi avrebbe fatto crescere e maturare?

 

 

 

Portami via dai momenti,

da questi anni violenti,

da ogni angolo di tempo dove io non trovo più energia…

 

 

 

Anche dal tempo non riuscivo più a trarre energia vitale, durante i miei sempre più cupi momenti di sconforto. Magari ero anche già vittima di una qualche sorta di terribile depressione giovanile, grazie al contatto nefasto di ogni giorno con i miei genitori, quella coppia mal assortita, di cui uno prepotente e arrogante, l’altra solo una vittima del sistema, almeno quanto me.

Avevo sedici anni quando mi sorbii la prima esplosione violenta di mio padre, ed ancora la ricordavo molto bene, essendo passati solo due anni.

Avendo avuto da sempre la passione per la botanica e per il giardinaggio, un giorno in cui tornò a casa dal lavoro stanco e frustrato decise di sfogare le sue ire su di me, come faceva spesso.

Io ero un debole, un soggetto facile da maltrattare, un Diverso che non sapeva difendersi, un ragazzino fragile che sapeva offrire tutto il gusto dell’impotenza al carnefice. E solo Dio sa quanto i carnefici si sentano potenti di fronte alle facili prede dei loro istinti.

Entrò nella mia stanza, come una furia, mentre io mi stavo dedicando alle mie piccole piante di mirtillo, che tanto adoravo e che custodivo gelosamente sul davanzale della mia finestra, e mi guardò con gli occhi spiritati.

Avevo appena udito le grida di mia madre, doveva aver litigato anche con lei, ed io ci stavo troppo male.

“Porca puttana. In questa merda di casa non c’è niente che vada per il verso giusto. E questo qui…”, si avvicinò poi a me, paurosamente, “non fa altro che pensare a delle fottute piante”.

Afferrò una mia piantina e la gettò a terra, con forza, rompendole il vaso, e poi, con rabbia, la pestò per distruggerla.

Mi gettai contro le sue scarpe lucide, ma non mi diede speranza; la pianta era rovinata per sempre.

“Gli altri fanno grandi cose, e sognano di costruire grattacieli e monumenti. Altri dipingono e sfornano opere d’arte immortali. È ora di finirla di pensare alle piante! Hai visto che fine fanno? Basta una pedata per distruggerle”.

Io piangevo, chino a terra, in silenzio.

“Sei solo un diverso. Non fai quello che fanno gli altri. Se vuoi diventare un vero uomo, il mio unico erede, devi cambiare”.

E mi lasciò a terra, piegato in due e sommerso dalla disperazione.

 

 

 

Amore mio, portami via.

 

 

 

La canzone era ormai conclusa, con quell’ultima invocazione.

Chi aveva un Amore che sarebbe stato disposto a salvarlo dal male di vivere una realtà soffocante e dolorosa, era davvero fortunato. La fortuna di avere qualcuno che ti prendeva per mano e ti consolava, come una sorta di angelo custode sotto forma di persona.

Io quella fortuna non l’avevo mai conosciuta.

E allora mi veniva da sussurrare, spegnendo il lettore mp3, un portami via di una profondità immensa. Qualcuno che mi portasse via da un posto in cui non mi sentivo a mio agio, e dal fatto che ero un componente di una specie che odiavo, e che aveva oppresso non solo me, ma anche tutti quelli che avevano un problema o un qualcosa che li rendeva Diversi agli occhi degli altri.

Ed io, quando nel mio diario segreto, per sfogo, scrivevo la parola Diversi, oppure Diverso, al singolare, lo facevo sempre inserendo l’iniziale maiuscola. Perché i Diversi formavano un popolo disomogeneo, erano come figli di un dio minore, e si andava dalla persona sensibile e delicata fino a chi aveva problemi più gravi, naturalmente senza contare che questi disturbi venivano rafforzati e spesso provocati dalle persone come mio padre, pronte a ferire chi risultava vulnerabile ad un attacco.

Ma a me non importava più di quelle riflessioni, e la breve pausa dal mondo che mi ero concesso si era conclusa con la fine di quella canzone, colonna sonora di quel momento delicato della mia vita. Era ora, quindi, di tornare sulla Terra.

Mi asciugai gli occhi per bene, non volevo lasciare traccia delle lacrime e della frustrazione, e mentre tuonava sempre più forte, mi accinsi ad abbandonare il mio rifugio e a tornare a mischiarmi con la mediocrità umana, quella che veniva definita normale dalla comunità.

Io che mi emozionavo, che ero timido, ero anormale. Loro che mentivano, si facevano belli con mediocrità e dicevano solo bugie, e si comportavano in modo falso, erano l’élite della provincia.

Con un profondo sospiro, scesi gli scalini che mi separavano dal giardino e mi spinsi a proseguire a testa alta, e a tenere alta la considerazione che avevo della vita, quel dono non richiesto che mi era stato comunque concesso, finalmente consapevole, in un attimo di profonda razionalità e raziocinio, che attorno a me non c’era solo la malvagità umana, ma anche la natura, gli animali, le piante… l’essere umano, col suo odio distruttivo e con la sua ricerca continua di controllare il tempo, era l’unica creatura vivente che, nonostante il suo ingegno sviluppatissimo, non era riuscita ad afferrare il vero senso dell’esistenza.

Io non ero come la massa umana che si muoveva all’unisono verso l’ultima spiaggia, l’immenso gregge bigotto che voleva dare un significato a tutto quello che in verità non contava, ma ero un Diverso, un ragazzo rifiutato dagli altri, e quindi questo mi rendeva dissimile dall’insensibilità di una specie al collasso, la cui ignoranza provocatoria prima o poi sarebbe finita col far scatenare un altro conflitto mondiale e devastante.

Nel mio piccolo, forse, ero riuscito in quel momento, e grazie alla mia canzone preferita, ad afferrare un frammento di significato della vita, e ne feci tesoro, fino ad ora, e da ora a per sempre.

Il mondo non è fatto per i deboli, ma essi, assieme agli innocenti e agli indifesi, sono il cuore pulsante dell’umanità.

Affrontai l’ultimo lasso di festa senza pensare a ciò che mi circondava, alla rabbia di mio padre e alla falsità di Giada e degli altri che mi circondavano, ma restai in solitudine, convinto che un qualcosa di superiore avesse finalmente ascoltato le mie suppliche e mi avesse permesso di vedere la realtà e di non perdere per sempre la fiducia in me stesso.

La pioggia, che venne giù a catinelle in seguito al temporale che si abbatté su casa mia, spense gli animi e tutto andò a rotoli… tutto, ma non me stesso.

Io vivo, io esisto, io sono prezioso, nonostante sia ancora indicato, a distanza di tempo, come un Diverso. È che il senso della vita si coglie quando si sta male, e si è emarginati, e magari si è pure poveri e indigenti… la vita stessa sussurra all’orecchio di chi soffre, perché ama le creature che si sentono sole ed abbandonate.

Basta saperla ascoltare, e afferrarla nelle piccole cose. Avevo appena diciotto anni, era il giorno del mio compleanno, avevo sofferto da sempre, ma ero riuscito a trovare me stesso oltre le parole di mio padre, e oltre al resto dell’umanità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

 

Titolo della canzone scelta; Portami via

Nome dell’autore; Fabrizio Moro

Parole utilizzate nel testo; 4979

Parole del testo della canzone; 200

 

 

Questa è la prima song-fic che scrivo, spero sia stata di vostro gradimento. Ci ho messo cuore e passione.

Grazie per averla letta ^^

 

 

 

 

   
 
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