Storie originali > Introspettivo
Ricorda la storia  |      
Autore: Trainzfan    14/12/2017    3 recensioni
MIA PRIMA STORIA!
La nascita di un figlio è sempre un evento emozionante, così come ogni attimo della sua vita.
Mentre guidavo nel buio del primo mattino, per accompagnare la mia a scuola, mi era sembrato di rivivere quella notte...la notte in cui l'ho stretta fra le braccia la prima volta.
La nascita vista dal punto di vista di un papà
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Apro gli occhi.
Mi giro verso destra.
Nel buio della camera da letto la sveglia digitale mi rimanda il suo rosso bagliore: 07:00
- Maledizione! – Penso e scatto a sedere sul letto gettando a lato lenzuola e trapunta.
Sempre al buio allungo la mano verso l’invisibile gruccia su cui ieri sera ho lasciato i miei indumenti.
Un gesto talmente abituale che posso compierlo tranquillamente alla cieca.
Un istante e sono pronto, totalmente operativo.

“Porca miseria” impreco, mentre esco dalla camera e accendo la luce che illumina il disimpegno notte “Proprio stamattina che volevo stirare!”
Corro in bagno, mi lavo in tutta fretta.
Mi sposto in cucina, accendo la luce e metto sul fornello il pentolino con l’acqua per il tè.
Il tavolo è già pronto dalla sera prima.
- Meno male che ho l’abitudine di preparare tutto prima di coricarmi – mi complimento fra me.
Intanto che l’acqua si scalda mi dirigo rapidamente verso la camera di mia figlia.

“Silvia!” la chiamo con urgenza “Silvia, sveglia! Sono già le sette!”.
Una specie di sommesso grugnito mi risponde da sotto le lenzuola che, durante la notte, si è tirata su fin sopra la testa.
La scuoto leggermente ma con decisione.
“Forza, marmotta!” rinnovo il mio richiamo “Giù dalle brande!” e con questo ritorno in cucina dove l’acqua per il tè è ormai in ebollizione.
Il tempo di versarla nelle tazze e vedo Silvia, simile ad una sonnambula, che si dirige verso il bagno.
Fatta colazione ultimiamo i preparativi per andare e usciamo

“Ce l’hai il telefonino? E le chiavi?” domando mentre attendiamo l’ascensore
“Si, si” risponde, con tono un po’ scocciato, Silvia.
Apro la porta del box e, mentre mia figlia sposta la sua bicicletta, io tiro fuori l’auto.
Lei rimette dentro la bici, chiude la porta del box e si mette al posto del passeggero.
Partiamo.
Lungo la statale ancora poco traffico; per la maggior parte in direzione contraria alla nostra.
Fuori è ancora buio.
Dentro, le nostre figure appena delineate nella luminescenza emessa dal quadro degli strumenti e dalle spie notturne dell’abitacolo.
Pur continuando a guardare la strada davanti a noi mentre viaggiamo attraverso le tenebre che ancora avvolgono le campagne attorno, scorgo, con la coda dell’occhio, il profilo di mia figlia, lì, seduta accanto a me.
Avvolta nel suo giaccone di piumino mentre, con le cuffiette nelle orecchie, ascolta i suoi brani musicali preferiti, assorta nei suoi pensieri.
Solo il lieve soffio dell’aria che viene spostata dall’auto in corsa ed il basso ronfare del motore fa da colonna sonora a questa corsa mattutina.
Mia figlia.
Quello che ho e che mi è rimasto, dopo le disgrazie che ci hanno colpito, del mio mondo, della mia vita precedente.
Il mio tutto!
La mente, per quella sua strana e rara peculiarità di associazione si sposta ad un altro viaggio, ad un’altra corsa nel buio di una diversa notte…
                                                        ************************************
01:45
Mi sento scuotere per il braccio.
Mi rigiro nel letto e, assonnato, rivolgo il mio sguardo interrogativo verso mia moglie, seduta sul letto accanto a me; l’abatjour acceso.

“Che c’è?” domando ancora mezzo addormentato.
“Ho dei forti dolori” mi risponde lei con aria un po’ affannata.
“Ok” replico io scostando le lenzuola già completamente sveglio “Andiamo”
Lei è titubante “Magari non è nulla” azzarda “e facciamo una figuraccia coma la volta scorsa”
“Non importa, amore” le dico “siamo alla fine dell’ottavo mese. Meglio fare un viaggio per niente che rischiare, no?”
“Già” ammette “hai ragione”
“Per sicurezza” aggiungo “meglio portare la borsa”
“Ok”
Sono almeno due mesi che la borsa contenente tutto quello che occorre per la permanenza in ospedale ed il parto è lì, in cameretta, pronta per ogni evenienza.
Dieci minuti e siamo sulla statale.
È una domenica notte; per strada, praticamente, nessuno.
Ai lati della statale luci di falò che, come lucciole, illuminano a tratti l’oscurità circostante mostrando strani, evanescenti fantasmi vestiti da minimali abbigliamenti che nulla lasciano all’immaginazione.
Pochi chilometri e, d’improvviso, una zona quasi illuminata a giorno con attorno un incredibile traffico di auto che vanno e vengono: un motel.

“Pazzesco!” rifletto pensando alle tante volte in cui, di giorno, sono passato da qui “Di solito non c’è un cane!”
Superiamo l’isola luminosa e torniamo ad immergerci nell’oscurità continuando la nostra corsa verso l’ospedale.
Arriviamo.
Forse anche a causa del fatto che ieri, oltre ad essere domenica, era una giornata di festività nazionale, nella sala di attesa del pronto soccorso non c’è anima viva.
Suoniamo ed una giovane infermiera, con occhi gonfi di sonno, viene ad aprirci.
Non appena vede mia moglie capisce e ci fa immediatamente entrare.
Parla sottovoce ad un interfono e, d’improvviso, mi sembra di entrare in un episodio della serie TV “E.R.”: da una porta laterale arrivano due infermiere ed un medico.
In un attimo Stefania è sul lettino con tutto quel personale sanitario attorno intento nella sua frenetica ordinata attività.
Sono stupito nel vedere il loro veloce e preciso operato.
Sembra di osservare un meccanismo di precisione, perfettamente oliato, che silenziosamente, esegue il suo compito.
È quasi una danza, complicata, in cui ogni componente sa e compie i passi necessari, provati e riprovati migliaia di volte.
Viene deciso di trasportare mia moglie direttamente in reparto per compiere accertamenti più completi.
Eccomi di nuovo coinvolto in una di quelle scene da film di ambientazione ospedaliera dove la telecamera è posta sul davanti del lettino e si vede una sequela di porte che automaticamente si aprono lungo il corridoio infinito mentre la sensazione di velocità e urgenza ti coinvolge totalmente.
Siamo in una camera a due letti, vuota.
Solo la luce posta sopra il letto in cui giace Stefania illumina l’ambiente che resta, per la maggior parte, in ombra.
La silhouette dell’altro letto, di fronte, e della finestra oltre cui l’oscurità è padrona, sono appena visibili nella penombra.
Nella stanza il medico e le due infermiere continuano il loro alacre lavoro nel silenzio interrotto, di tanto in tanto, dalle loro brevi comunicazioni sussurrate e dal sommesso ronzio delle apparecchiature.
Sto vivendo come in un sogno: tutto, in quel silenzio pulsante, mi sembra irreale.
Ancora mi stupisco della incredibile efficienza che credevo appartenente solo al mondo delle fiction.
Immagini di sale d’attesa piene di mutuati che aspettano ore mentre infermiere varie compilano infiniti schemi di parole crociate ed il personale medico circonda la macchinetta del caffè mi balzano alla mente in stridente contrasto con quello che sta avvenendo attualmente di fronte ai miei occhi.
Penso “Quanti preconcetti ci facciamo tante volte!” Se me lo avessero raccontato, probabilmente, non ci avrei creduto.
E, invece, no! Sta succedendo proprio qui, davanti a noi; per noi!
Durante un attimo di pausa dei tre sanitari chiedo ad un’infermiera cosa stia succedendo.
Mi spiega che stanno somministrando a Stefania una speciale flebo che ci potrà indicare se, anche questo, sia solo un falso allarme o sia veramente giunto il tempo, poi se ne va, assieme ai suoi colleghi.
Qualche minuto dopo vediamo tornare la stessa infermiera, controlla la flebo, mia moglie, e nuovamente se ne va.
Io e Stefania incrociamo gli sguardi con aria interrogativa.
Pochi istanti dopo la medesima infermiera ritorna: è armato di un rasoio usa e getta!
Istintivamente capiamo: molto presto conosceremo di persona nostra figlia!
Esco dalla stanza per dare a mia moglie un po’ di privacy.
Non appena terminato l’operato dell’infermiera tornano nella stanza gli altri sanitari per ultimare la preparazione di Stefania.
Tutto è pronto e Stefania viene trasbordata su di una lettiga.
La spingono fuori dalla stanza.
Di nuovo via.
A seguito, lungo il corridoio; su con l’ascensore, ancora un lunghissimo corridoio.
Il medico, camminando, mi spiega che, pur con tre settimane di anticipo, la bambina è pronta a nascere ma che, visto il precedente cesareo, è preferibile evitare un parto naturale.
Nel trambusto del momento dico di sì e lui mi dice di restare ad attendere nell’atrio semibuio del piano.
Tutti se ne vanno ed io resto lì.
Ora ho veramente capito: non potrò assistere al momento della nascita di mia figlia.
Quanto ci avrei tenuto!
Avrei tanto voluto essere a fianco di Stefania, per confortarla, sostenerla: e vedere, poi, il primo istante di mia figlia…
Dio, che bello!
Me ne faccio una ragione e mi preparo per la lunga attesa.
Guardo l’orologio: sono le 4:30.
L’atrio in cui mi trovo è immerso nella penombra dando a tutto quello che mi circonda un aspetto irreale.
Camminando lentamente attraverso questo vasto spazio mi avvicino ad una grossa ombra allungata ed immobile che si rivela, poi, essere una grande felce alloggiata in un vaso di plastica bianco di forma geometrica irregolare.
Mi giro e torno sui miei passi.
Lancio uno sguardo verso il corridoio lungo il quale è scomparsa l’equipe medica con mia moglie.
Cammino avanti e indietro, lentamente, come in una specie di trance.
La mente vaga… il pensiero torna a quell’altra volta, un anno fa, quando il nostro Alessio non ce l’aveva fatta.
Dolore e disperazione dove ora c’è trepidazione mista ad attesa speranzosa; giorno avverso l’attuale notte; stress invece che l’odierna vigile calma.
Dio, che notte! Mi sento come un bambino la notte della vigilia di Natale: gioia e trepidazione dell’attesa con un sottofondo di paura lieve, sottile.
Una porta laterale, come una invisibile bocca quadrata, si apre su un’oscurità ancora più profonda.
Ne emerge una figura quasi eterea, impalpabile…
Mi si avvicina rivelandosi come una suora ospedaliera che, sentito il sommesso trambusto nel corridoio del reparto operatorio, è uscita a vedere che cosa stesse succedendo.

“Un incidente?” mi domanda adagio con tono preoccupato
“No” rispondo io con una specie di sorriso ebete/sognante “è mia moglie che sta per partorire”
Il suo viso si illumina in un sorriso dolcissimo.
“Oh, che bello!” esclama “Buona fortuna e congratulazioni”
Mi stringe le mani fra le sue, quasi una benedizione e, silenziosa, come è venuta se ne va richiudendo la porta alle sue spalle.
Sono di nuovo solo e riprendo la mia ansiosa attesa.
Il corridoio che porta al blocco operatorio ha un lato tutto a vetri ed ora è lievemente illuminato dalla tenue lattescenza del primo albeggiare.
Mi rendo vagamento conto che è trascorso già molto tempo da quando siamo arrivati.
Rifletto fra me sulla strana natura del tempo: da una parte mi sembra di essere in questa specie di limbo da sempre mentre dall’altra mi rendo conto che queste ore sono fluite via come in un sogno.
Tendo, per l’ennesima volta, l’orecchio sperando di udire qualche suono che mi racconti cosa sta succedendo pur sapendo che la distanza e le doppie porte chiuse impediscono a qualunque suono di raggiungermi.
All’improvviso, quasi al limite dell’udibile, nel totale silenzio sento un suono particolare; stento a crederci eppure si, è vero, è stato un vagito!
Istintivamente guardo l’orologio che ho al polso: 05:25
Lo so! Contro ogni ragione, lo so: in questo istante è nata mia figlia!
Sono euforico; non so più cosa fare. Rido fra me mentre i miei occhi stanno piangendo calde lacrime di gioia.
Passano dieci minuti; poi altri dieci che, a loro volta, diventano mezz’ora.
Perché non esce nessuno da quella stramaledetta porta del blocco operatorio?
Cerco di pensare con calma: “Beh” mi dico “Hanno dovuto operare Stefania quindi ci vuole un po’. Calmati” “Si, vabbè” mi rispondo “però la bambina? Perché non mi dicono qualcosa?”
Ecco!
Le ante scorrevoli della porta automatica si aprono e ne esce una figura vestita con un camice azzurro.
Sta spingendo innanzi a se una specie di carrello e, prima ancora di poter scorgere i particolari capisco: ancora qualche secondo e vedrò per la prima volta mia figlia.
Mia figlia!
Che parola meravigliosa, magica… mia figlia!
L’infermiera giunge a fianco a me spingendo l’incubatrice in cui vedo quell’esserino, roseo, sporco, minuscolo.
Una miniatura così perfetta, meravigliosa, che nessuno al mondo ha mai avuto l’onore di contemplare: MIA FIGLIA!

“Venga con noi” mi suggerisce l’infermiera spingendo l’incubatrice nell’ascensore.
Con gli occhi sempre fissi su quella meravigliosa creatura annuisco lievemente e la seguo.
Scendiamo di un paio di piani e giù per l’ennesimo corridoio fino davanti alla porta della nursery
“Venga dentro anche lei” vengo invitato dall’infermiera “tanto a quest’ora i bimbi sono tutti fuori per la poppata”
- Questa notte è veramente magica – penso tra me approfittando di questo privilegio.
Mentre sono lì, in piedi, in mezzo alla sala senza sapere cosa fare vedo l’infermiera che, con gesta esperte, estrae mia figlia dall’incubatrice e comincia a lavarla.

“Piano!” grido nella mia mente “prima che si rompa”
Mi sento ridicolo a pensare ciò; per questa donna è cosa di tutti i giorni ma nella mia mente quella creatura sembra fatta della porcellana più fine; del cristallo di Murano più prezioso!
L’infermiera asciuga la bambina, la pesa, la misura, le mette il braccialetto di riconoscimento e un ciripan.
Poi la avvolge in una morbidissimo copertina rosa.
Da quando è iniziato il bagnetto la mia piccola non ha fatto altro che strillare come non mai, senza pause.
L’infermiera, con quel minuscolo fagottino urlante in braccio, mi si avvicina e sentenzia: “Questa patata ha decisamente bisogno del suo papà” e, improvvisamente, me la mette in braccio.

“Oddio!” penso “Non so nemmeno da che parte prenderla!”
Istintivamente vorrei respingere questa offerta ma le mia mani, le mie braccia, agiscono di loro iniziativa e accolgono lo strillante fagottino.
Urla.
La sento tesa, rigida come un pezzo di legno mentre grida con tutto il fiato che quel minuscolo corpicino riesce ad emettere.
Pur nel panico dico la prima cosa che mi viene in mente:

“Ciao, patata, è il papà” sentendomi immediatamente come un idiota.
D’improvviso lei smette di gridare e, con gli occhi ancora chiusi, si volta di colpo verso il mio viso.
“Ciao, amore mio” le sussurro.
Quel corpicino rigido, di colpo, si rilassa, l’ombra di un sorriso increspa quel visino di porcellana e la sento abbandonarsi, addormentata, nelle mie braccia.
“Cosa avevo detto?” commenta sorridendo l’infermiera.
La sento appena.
Sono su di una nuvola.
La cosa più bella del mondo, del sistema solare, di tutto l’universo è qui, fra le mie braccia, ed io, sono perdutamente innamorato, come mai nella mia vita sono stato e mai sarò.
Viene purtroppo anche il momento di lasciare la nursery e, di conseguenza, la mia bimba: gli altri bambini stanno per rientrare.
Esco, separandomi momentaneamente, ma a malincuore, da Silvia.
Mi hanno detto che mia moglie è al piano di sopra, ancora addormentata, e che ci vorranno almeno due o tre ore prima che sia completamente cosciente.
Chiedo, comunque, se posso vederla un momento e mi viene concesso il permesso per una brevissima visita.
Entro silenziosamente nella stanza che condivide con altre tre neomamme; mi avvicino al suo letto immerso nella penombra, la guardo; sta dormendo, tranquilla, e mi sembra che un lievissimo sorriso stia sfiorando le sue labbra.
Mi chino sul suo viso e le do un bacio, leggero come una piuma.

“Grazie, amore mio” sussurro “Dormi beata, ora. Ci vediamo fra poco”
Con questo esco dalla stanza.
Sono le 7:30: posso, finalmente, dare la grande notizia ai miei.
Vado al telefono pubblico che c’è sul piano e formo il numero.
Mi risponde la voce assonnata di mio padre.
“Pronto?”
“Ciao, papà” dico con la voce un po’ tremante per l’emozione “C’è tua nipote che ti saluta”
“Eh? Ah, sì, va bene…” dice e poi “Cosaa!?!” Mi viene da ridere…
“È nata!” esclamo “Comunque fate pure con calma perché ci vogliono ancora almeno tre ore prima che Stefania si svegli. Ora vengo a casa anche io. Mi faccio una doccia e, poi, torniamo qua tutti assieme”
“Si, si” risponde mio padre, ora completamente sveglio “Ci vediamo”
Metto giù e mi avvio verso il parcheggio dove abbiamo lasciato l’auto.
Percorro la strada per tornare a casa immerso in una pacata euforia.
Ora splende il sole su questo magnifico 2 maggio 1993 e tutto sembra bellissimo.
Mi viene in mente quella vecchia canzone: “What a wonderful world”.
Dio! Hai proprio ragione, Luis; il mondo può essere davvero meraviglioso!
   
 
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Introspettivo / Vai alla pagina dell'autore: Trainzfan