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Autore: lady igraine    15/12/2017    1 recensioni
Demian ha quasi sedici anni, è armato della tragicità di un adolescente e dell’esperienza di vita di un uomo fin troppo intraprendente. La sua esistenza è in costante bilico tra un morboso amore per la propria famiglia, afflitta dal dramma della malattia terminale della madre, ed un mondo più oscuro, di amici poco raccomandabili che gli permettono di sfogare i sentimenti più ombrosi e repressi della sua anima. È in questa fase che lo incontra Arianna, infantile, irrequieta e altrettanto problematica ragazza, dotata di un instancabile sorriso che cela più malinconie e segreti che gioie. Sono tre, i mesi decisivi, quelli che, nel bene e nel male, lasceranno un segno indelebile nelle loro vite.
***
La coscienza era una bestia oscura che divorava da dentro, lasciando sempre l’impressione di facciata che tutto andasse bene.
"Le persone, da fuori, sembrano indistruttibili, perfette come bambole di plastica che non si possono rompere. È il dentro che è una fregatura, un agglomerato di marciume infilato a forza tra gli organi, da qualche parte"
La sua coscienza era terribile più di tutto, le toglieva molte cose, una ad una, con la noncuranza con cui un bambino strappa i petali ad una margherita
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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À Demian

Capitolo undicesimo

Il giorno più brutto








La casa della nonna, talvolta, era avvolta da una leggera caligine che ne sfumava i contorni.

Era un evento particolare, che si verificava d’inverno e che Demian associava al Natale, alle feste e alla famiglia. La nebbia s’infittiva, il sentiero di terra veniva inghiottito da un velo latteo e i campi in lontananza mutavano in un’indistinta macchia opaca, l’accenno di qualcosa di nascosto. Gli alberi allora erano solo ombre ritorte, abbozzi di mostri in un mondo incantato e spaventoso. Quando succedeva, Jenevieve lo accompagnava lungo la scogliera attraverso l’erba alta. Si fermavano vicino ad una panchina di legno mangiata dall’umidità che si affacciava sul mare e maman, con quel suo inafferrabile sorriso malandrino, lo aiutava a superare dei cespugli spinosi, per arrivare fino al limite fra terra e vuoto, dove non si poteva andare.

Lì, in quel piccolo spiazzo erboso, maman inclinava il capo all’indietro e Demian restava rannicchiato tra le sue gambe ad assorbire il calore.

La battigia della baia di Douarnenez, sempre umida e lucida d’acqua salmastra, distorceva le luci del porto, e la città di ombre rischiarata da lumini sospesi torreggiava velata sul mare color fumo.

Maman non lo guardava, ma lo stringeva fra le braccia, forte forte per non fargli sentire il freddo.

Era una sensazione simile, quella che gli intorpidiva il corpo e le braccia, l’impressione di quella stretta avvolgente, di un affetto un poco distante, appena percepibile.

Un calore di un tempo in cui era tanto piccolo che Sarah nemmeno era nata, e lui s’infilava nel lettone di maman mentre lei era fuori fino a tarda notte per lavoro. Sentiva sulla guancia la stessa morbidezza del cuscino a cui si aggrappava per cercare il suo profumo quando era lontana, le dita leggere intrecciate ai suoi capelli avevano la leggerezza delle carezze che riceveva quando, al rientro, maman lo riportava in dormiveglia nella sua cameretta e gli scostava i capelli per baciargli la fronte prima della buonanotte.  

Quel momento, piccolo frammento di gioia rubata, era vivido e puro come un sogno vissuto mille notti.

Si sentiva esattamente così ora, incredibilmente, inaspettatamente bene. Al caldo e al sicuro, avvolto da una morbidezza che sapeva di una madre mai esistita e solo sospirata, di un amore mai conosciuto. Avviluppato in una tenerezza protettiva dall’amaro retrogusto di una casa perduta. Non era ancora sveglio, ma in quello stato sospeso tra sonno e veglia in cui la realtà non si era definita ed era facile ritracciare i confini delle cose con le proprie memorie. Gli piaceva, crogiolarsi in quello stato di beatitudine, si sentiva così stanco che anche il solo pensiero di muovere un muscolo gli era insopportabile. La pesantezza del suo corpo in quel momento era sfiancante eppure gli donava una nuova tranquillità.

Quando cercò di alzarsi però, realizzò che non solo era affrancato a qualcosa, ma qualcosa era affrancato a lui. Strizzò gli occhi e alla prima luce che gli ferì le pupille gli venne subito un capogiro. Abbassò le palpebre e soppresse la nausea e il moto di debolezza che lo rendeva uno straccio. In casa non portava mai le lenti a contatto colorate e la luce traditrice era quella bassa e troppo calda del tramonto, che filtrando dalle finestre gettava nuove zone d’ombra nella sala.

Sussultò per la sorpresa, stava posando il capo sulle cosce di qualcuno, e non gli ci volle molto per capire che, per assurdo, quelle erano le gambe di Arianna. Per i suoi movimenti, la ragazza mugolò di protesta. Cercò di scivolare delicatamente fuori dalla sua presa, ma Annie si era addormentata in una posizione improbabile e lo circondava. La testa di lei penzolava debolmente in avanti, le palpebre distese disegnavano un sonno sereno e pacato e le labbra schiuse un’espressione infantile, coronata da un filo di bava all’angolo della bocca. Un sospetto lo spinse a toccare il cappuccio della felpa, che Dem ritrovò umido.

Storse la bocca.

 

Bene ma non benissimo. Mi ha sbausciato la felpa.

Sarebbe pure riuscita ad apparirgli come una visione, non fosse stato per quel piccolo, ed anche un pochino disgustoso, dettaglio.

Eppure riusciva a restare bella, così chinata su di lui, come a proteggerlo, con le lunghe ciglia nere che le accarezzavano la pelle tenera delle guance ed i suoi ricci che gli sfioravano il collo. Veniva voglia di tratteggiare il profilo morbido della mandibola con la punta delle dita, di svegliarla con un bacio, come nelle peggiori tradizioni di fiabe. Ma Annie non era la Bella Addormentata, e lui certamente non era un principe, era più che altro un Sidney Carton privato anche della possibilità di una redenzione e condannato solo al proprio vizio autodistruttivo e ad un amore non corrisposto. E come a confermare che di Carton era l’erede, la bocca era troppo impastata, come se il malto della birra stesse fermentandogli in bocca, a ricordargli che per il romanticismo di bassa lega non era il giusto momento.

Riuscì a sfuggire alle braccia sottili di Arianna, la guardò ancora, cercò di ricordare qualcosa delle ore precedenti ma l’eccessivo tasso alcolico doveva averlo steso. Sapeva di aver incontrato Claire, e che subito dopo, si era fermato in un supermercato e si era comprato due pacchi di du demon. Aveva sempre odiato quella birra, ogni sorso sapeva di benzina, ma in passato aveva già sperimentato che niente lo metteva al tappeto come quella roba, ed infatti non ne era rimasto deluso.

Era Arianna a sfuggirgli, lei e il fatto che, nonostante non se lo aspettasse, non era rimasto per nulla turbato dalla presenza di lei in casa sua. Troppo pesante, la testa di Annie, inclinata in avanti, trascinò con sé in maniera comica tutto il corpo. Demian arrestò la caduta rovinosa puntellando la sua fronte con un dito, il collo della ragazza si piegò grottescamente e finalmente Arianna spalancò gli occhi.

 

Ti prego, vieni da me, non lasciarmi solo

 

L’aveva chiamata lui, era stato lui a portarla a casa sua.

Arianna sbatté gli occhi un paio di volte, lo mise a fuoco e si sciolse subito in un sorriso raggiante, di quelli che le diottrie agli altri le bruciavano «Ben svegliato finalmente!»

Che una persona potesse sorridere in maniera tanto spontanea e sincera sapeva di miracolo, se non la avesse avuta davanti, se non fosse stato tanto palese che in lei scorreva costante una sottile vena d’entusiasmo inspiegato, Demian non ci avrebbe creduto. Avrebbe pensato fosse solo una falsa e un’ipocrita.

«Come va il tuo mal di testa, piccolo ubriacone?»

Abbozzò un accenno di sorriso, offuscato dall’imbarazzo «Potrebbe andare meglio»

 

«Aspetta, ti prometto che arriverò presto. Non ti lascio, Demi»

 

Iniziava a sovvenirgli ciò che si erano detti, il proprio tono, affranto e infantile, lo metteva ora in un certo imbarazzo

 

«Demi, devi dirmi il tuo indirizzo. Riesci a ricordarlo?

«No»

«Non posso venire da te se non mi dici dove sei. Concentrati, su! Se non mi dai il tuo indirizzo non riuscirò a trovarti»

 

La nausea lo aveva sfibrato e il senso di vomito aveva fatto il resto. Era riuscito a snebbiarsi il necessario per dirle ciò che doveva, poi non ricordava granché. Solo Arianna, che gli ripeteva di restare sveglio, eppure proprio la sua voce doveva aver spinto le palpebre pesanti a cedere del tutto.

 

«Mi piace la tua voce, Annie»

«Continuerò a parlarti allora, ma tu ascoltami e resta sveglio, non ho idea di quanto hai bevuto»

«…sì…»

 

Che Arianna fosse lì aveva un senso, si era precipitata non appena aveva sentito il suo bisogno, c’era qualcosa di commovente oltre l’imbarazzo, quegli occhi grandi così carichi di aspettativa, il capo appena proteso verso di lui, smuovevano una tenerezza infinita. A pochi centimetri, le iridi erano verdi come i fili d’erba toccati dal sole dopo una giornata di pioggia.

Estraniavano, non poteva credere che in natura fosse possibile una tale sfumatura. Per un istante, respirare gli sembrò impossibile. Poi, Arianna si stiracchiò come un gatto, protendendo le braccia e il corpo in avanti, e quel gesto banale spezzò l’incredibile ascendente di quel suo sguardo da felino indolente che lo soggiogava. Istintivamente, Demian si riappropriò delle sue gambe, nascose il volto contro i jeans di Annie e così protetto dal suo sguardo pungente si sentì riparato. Sfregò la guancia contro di lei, mugolando piano, in sottili fusa di apprezzamento, ad occhi chiusi per godersi l’attimo. Arianna non reagì subito, il suo corpo in un primo momento si era irrigidito, ma dopo una manciata di dilatati secondi, la ragazza intrecciò le dita magre ai suoi capelli, in movimenti lenti ed esasperanti che ricordavano le dolci attenzioni di una madre paziente.

Demian non ci vedeva nulla di Jenevieve in Arianna, né lo desiderava, tutto ciò che voleva era quel tipo disinteressato di conforto ed affetto, in una forma totalmente gratuita e forse, proprio per questo, incredibilmente appagante. Alzò piano una palpebra, per poterla sbirciare di nascosto, eppure la visione che lo colse gli lasciò un brivido freddo di spaesamento.

Stava sorridendo.

Arianna sorrideva sempre, sembrava non sapesse fare altro, sorrideva in continuazione, e nonostante quell’espressione di ostentata serenità era facile cogliere l’ombra scura nel suo sguardo, una macchia di umida malinconia che si spandeva nell’iride chiara e sporcava la piega morbida delle labbra di un’angoscia inspiegata. Anche quando non voleva pensarci, era inevitabile per lui percepire quell’impressione costante nei riguardi di Annie: la osservava e in lei vedeva due anime opposte che dilaniavano un corpo fragile.

«Sono già le sei» constatò Arianna dopo un’occhiata rapida al proprio orologio da polso, abbassando le spalle con la stessa resa con cui si abbassa una difesa per mostrare sconforto «Io e te le giornate le bruciamo, non sappiamo proprio sfruttare il tempo» ridacchiò appena, ma non sembrava una risata felice, e Demian accennò un sorriso di circostanza vuoto e confuso.

«Mi piacerebbe stare sempre così»

«Dovresti lavarti Demi, puzzi di alcol, sei quasi insopportabile» ghignò come la strega Salamandra davanti al suo imbarazzo, e gli pizzicò un fianco, forte abbastanza da farlo sussultare. Arricciò il naso, si sforzò di sentire il proprio odore, ma più pungente dell’olezzo che lo accompagnava e a cui era probabilmente assuefatto, c’era il profumo di detersivo. Sollevò il collo della maglia, lo portò al viso e storse la bocca per la vergogna.

 

Ricordo i barboni della stazione, fantastico

 

In tutto questo, Arianna non aveva smesso di osservarlo, le sopracciglia espressive sollevate e le labbra bagnate da un ghigno malizioso che riusciva a metterlo in un imbarazzo tragico, quasi epocale. Dovette provare per lui una minima forma di pietà però, perché non infierì oltre, si limitò a ridacchiare piano, accarezzandogli ancora i capelli e la fronte, con un’indulgenza tenera riservata ad una creatura fragile. Questo forse, era ancora più svilente.

Piegò la testa, osservò la stanza pur di non guardarla, e si rese conto che le bottiglie che avevano accompagnato il suo abituale tentativo di discesa nell’autodistruzione erano sparite. La sala era tirata a lucido, l’orrida macchia di birra sul tappeto si era ridotta ad un alone scuro.

«Quando sono arrivata, ti eri addormentato. Ah, giusto per avvisarti in caso i vicini sospettino qualcosa, per entrare ho scavalcato il cancello! Dovresti chiudere la porta a chiave, sai? Chiunque potrebbe entrare se lasci tutto aperto!»

«Se parli in questo modo, mia madre finisci con il sembrarla davvero»

Sarebbe stata una donna petulante ed una madre asfissiante in futuro, gli sembrava già di poterla vedere, eppure più che fastidio, quell’adolescente bambina riusciva a strappare un sorriso. Arianna gli fece una pernacchia, dondolando la testa «Sei un ingrato, ho pulito tutto da cima a fondo. Non che avessi troppo da fare, mentre dormivi»

«Non avresti dovuto, non eri tenuta»

La vide adombrarsi ancora e mordersi le labbra, gli incisivi separati davano al suo volto magro un aspetto dimesso e delicato, terribilmente infantile. Si allontanò da lei, per prendere le distanze, perché d’improvviso la consapevolezza del suo corpo esile, la portata della sua presenza in un momento così soverchiante della sua vita, gli franò addosso.

Se quel suo brusco gesto l’aveva turbata, Arianna non lo diede a vedere, c’era un pensiero nei suoi occhi, il filo di un aquilone che stava per scivolare via, e lei era troppo indecisa, non sapeva se afferrarlo e trascinarlo a terra, dove avrebbe dovuto condividerlo con lui, o perderlo per il momento, e sperare di ritrovarlo in futuro, chissà quando.

«Ti lamenti molto, quando dormi» iniziò, come un’osservazione casuale, ma poi arrossì, e Demian sentì il corpo farsi di sale. Non c’era nulla di casuale.

«A volte» sussurrò, e la bocca non era più solo impastata, sembrava impossibile articolare i suoni ormai.

Si fissarono in silenzio per una manciata di lunghissimi secondi. Non aveva il coraggio di chiedere nulla, nemmeno riusciva ad immaginare cosa avrebbe potuto aver detto, non ricordava di aver sognato, era solo stanco e la mente una tavola bianca, un reticolo di nebbia che non gli permetteva di focalizzare nulla.

«Hai chiamato Sarah» lo disse alla fine, ritrovando un tono risoluto che Demian non sapeva spiegarsi. Non riusciva a spiegarsi come Arianna riuscisse a non tirarsi mai indietro, anche quando l’argomento era spinoso, la situazione scomoda. Se succedeva, si limitava ad affrontarla, guardandolo sempre negli occhi, così categorica e determinata da risultare spaventosa.

«Sarah è tua sorella, non è vero?» gli domandò con un sospiro rassegnato, la rassegnazione di chi aveva già compreso che parlare sarebbe stato duro, quasi impossibile.

Demian la fissava come faceva con le ombre della sua cameretta che s’ingigantivano nella penombra e lo terrorizzavano da bambino. Cercò di deglutire, ma non ci riuscì, la bocca era secca e il suo corpo aveva cessato funzioni basilari come la salivazione.

«Lo sai già, no? Sai già tutto. Cos’è, sei andata in giro a fare domande? Hai chiesto a qualcuno di quel caso umano con la madre con un piede nella fossa? Scommetto che ne avrai sentite di cose interessanti, ne hanno di aneddoti da raccontare»

La sfidò con tutto lo sprezzo che riuscì a mettere dentro ogni sillaba, la voce venefica vibrava di una noncuranza calcolata che mirava a ferirla. Voleva che se ne andasse, che gettasse la spugna, lo mandasse a quel paese e uscisse da quella casa per non ritornarci mai più.

Non sopportava il nome della sorella detto da lei, non poteva sopportare che la conoscesse.

Arianna non fece una piega «Sì, ne ho sentite. Ma io l’ho chiesto a te»                  

Non si era minimamente scomposta e questo lo prese in contropiede, facendolo vacillare. Nessuna smorfia, nessuna contrazione delle mani, era completamente immune alla sua ritrosia, Demian non trovava altra spiegazione. Forse, nemmeno lo ascoltava, lo ignorava e lo trattava con la condiscendenza che si dedica ad un bambino capriccioso.

«Non ti ho dato il permesso di parlare di lei»

«Demi, che cosa ha Sarah?»

Cercò di sorridere con sarcasmo, ma gli uscì una smorfia amara «Hai parlato con maman, non te lo ha detto?»

Arianna sbuffò «È così difficile rispondere?»

La guardò in tralice e pensò che l’espressione seria non le si addiceva, che era troppo spietata, a voler sapere a tutti i costi qualcosa di tanto penoso, soprattutto in quel frangente, mentre già si sentiva fin troppo provato.

«È malata. Punto. E tu dovresti andare a casa»

Scattò in piedi e le diede la schiena per frapporre tra loro una maggiore distanza fisica, che lo aiutasse a placare la nauseante repulsione che sentiva per lei. Odiava quell’integrità, voleva che lei lo odiasse, doveva ricambiarlo e sparire, il solo pensiero che si fosse già spinta tanto a fondo da chiedergli di Sarah lo turbava troppo profondamente.

 

Perché mi fai questo, perché se già sai?

Io lo so che maman ti ha detto tutto, ne sono sicuro.

 

La sentì ridere con una spontaneità destabilizzante che gli irrigidì ogni muscolo e lo fece deglutire a stento. Non ebbe il coraggio di voltarsi a guardarla, assorbì quella risata sottile come uno scampanellio di scacciapensieri mossi dal vento.

«Demi, facciamo uno scambio equivalente? Io ti parlo di me, se tu mi parli di te. È equo, no?»

Demian esitò, trovò l’audacia di girarsi.

Era seduta, leggermente in penombra perché la luce bassa del tramonto si era quasi del tutto ritirata dalla sala e si infiltrava appena come filamenti luminosi tra le tapparelle a mezza altezza, spaccando in ragnatele chiare la stanza scura. Aveva i capelli raccolti in una coda che le scopriva la fronte, se ne accorgeva solo ora che ci prestava attenzione, come se fino a quel momento non l’avesse vista davvero. Un foulard spuntava tra i ricci incolti, forse a ricami floreali o a macchie di colore, e nella sua salopette di jeans larga le sue braccia sottili e le spalle raccolte sembravano minuscole, mangiate dall’eccesso di stoffa. Stava osservando un piccolo spaventapasseri dal sorriso grande, una creatura contro cui pareva vergognoso arrabbiarsi, perché aveva in sé l’atteggiamento di una bambina dispettosa e irriverente, a cui era impossibile prestare un rimprovero.

Ci si poteva fidare di una persona così? E se la risposta fosse stata anche sì, perché allora sentiva dentro una tale diffidenza? Soppesò rapidamente i pro e i contro di quella strana situazione: Arianna si era presa cura di lui, senza motivo e senza tornaconto, per un intero pomeriggio; d’altro canto, dava la sensazione sgradevole, con quella sua indifferenza spietata che su di lui aveva lo stesso effetto di una mattonata in faccia, di volerlo incastrare, anche se gli sfuggiva il come e il perché. “dovevo incuriosirti”, era questo che gli aveva detto una volta. Anche in quel momento aveva scommesso tutto sulla sua assurda curiosità per lei, era furba.

Aveva già capito tutto, lo incatenava così, banalmente, solo con la curiosità intrinseca che era in grado di produrre con quella sua aria intonsa da fata che attraversa un mondo mortale in punta di piedi. Storse la bocca, realizzò che Arianna e Sarah in comune avevano molto, avevano un modo di vivere che gli sarebbe stato sempre incomprensibile.

Arianna appoggiò i gomiti alle ginocchia, si chinò in avanti e raccolse il viso morbido nelle mani a coppa. Giocava con il labbro inferiore, lo torturava e liberava solo per riprenderlo. Ad un tratto si scosse, come un animaletto che si scrollava di dosso l’acqua, si scrollò di dosso ogni incertezza, lo fissò ancora negli occhi e Demian capì immediatamente che doveva prepararsi ad incassare.

«Io non sono un genio e di solito mi faccio gli affari miei. Per essere precisi, mi faccio sempre gli affari miei» affilò gli occhi da gatta, soppesandolo «Ma ti è mai successo di sentire che non puoi lasciar perdere? Ecco, è questo che penso. Non riesco a smettere di pensare che lasciar perdere sarebbe la più grande scemenza della mia vita» inclinò la testolina ed i ricci, quell’unica, lucida massa compatta scura come l’ebano con quella luce, la seguirono «Però proprio non riesco a capire e non sono sicura di come si debba fare, a non lasciar perdere. Non è solo che Sarah è malata, a farti stare male. Quella mi sembra solo la punta dell’iceberg, ed io non so vedere così a fondo, però lo capisco che c’è un fondo. Il tuo senso di colpa non è giustificabile con la sola malattia di tua sorella»

In un primo momento, l’impatto lo lasciò comunque a bocca aperta. Anche a prepararsi, Arianna non era prevedibile, era difficile armarsi contro di lei, ma soprattutto contro le sue considerazioni, dette con la semplicità delle cose ovvie, eppure ovvie per nulla.

Nessuno si era mai accorto, e se anche qualcuno avesse notato quella sua verità nascosta, nessuno aveva mai avuto il coraggio di chiedergli, anche indirettamente, cosa covasse sotto tutto il suo amore per quella bambina.

«Tu non sai nulla» digrignò i denti.

«Sarebbe strano se lo sapessi, non ti pare?» gli sorrise ancora, e ancora in lei prevaleva quella sottile indulgenza che sembrava perdonargli tutto e lo indisponeva tanto «Che cosa ti fa sentire così responsabile?»

«Io sono responsabile di Sarah. Sono suo fratello, non ci deve essere un motivo» cercò disperatamente di dirlo con convinzione. Era quasi spaventoso, che fosse in grado di cogliere le gradazioni che alteravano la superficie della sua anima, Demian stesso non ne sarebbe stato capace, ma ora che lei aveva scelto quella parola precisa fra le tante, si rendeva conto che era proprio così che si sentiva, schiacciato per una vita intera, corta, miserabile vita, da quella responsabilità che ormai coincideva con lui stesso.

Arianna era spaventosa, faceva paura.

«Io non credo che tu sia così responsabile, qualunque cosa sia successa»

Gli venne da ridere, una risata terribilmente isterica e spiritata. Doveva portarsi ancora dietro gli strascichi della sbronza, non trovava altra spiegazione al magone bastardo che gli aveva appena annodato la gola.

 

Sarah una vita normale non potrà mai averla

Non so nemmeno se avrà una vita

 

Tutta la sua punizione e la sua redenzione si racchiudeva nella vita labile di sua sorella, spiegare cosa potesse significare, quanto fosse invivibile e opprimente questo per lui, era impossibile.

«Certo che lo sono» la voce gli cedette, tutta la collera che si era gonfiata in un fiume in piena pronto a schiantarsi su di lei, si ridusse ad un rivolo di panico.

«Ehi» Annie lo richiamò, sembrava dolente, il suo sorriso era più pacato ed empatico, e per un momento Demian si sentì ancora sulla panchina del parco, quella sera, quando un filo li aveva uniti e parlare era diventato, se non più facile, necessario.

Non importava quanto il baratro fosse profondo e le vertigini gli procurassero nausea, con quel filo di ragnatela sottile e delicato che creava un ponte tra loro, la verità diventava impossibile da occultare e l’odio si placava nella disperata ricerca di comprensione.

«Sono qui» gli tese una mano, proprio come quella sera, e vederla piccola e pallida nel crepuscolo dalle sfumature azzurrognole, gli fece pensare a Sarah, alla sua pelle cianotica e trasparente, quando stava peggio. La curiosità lo spinse ad avvicinarsi, sfiorarla piano, con circospezione. Sembrava davvero la mano di una bambina, senza tendini e muscoli, liscia e rotonda nelle forme.

«So anche ascoltare» gli disse, sollevando l’angolo della bocca, come a imitare la sua smorfia provocatrice. Se aveva capito qualcosa di lei, probabilmente era vero che gli stava facendo il verso, era il suo modo personale di sdrammatizzare e prendersi gioco di lui.

«Lo sai. Sarah soffre di problemi cardiaci. Ci è nata, non c’è molto che si possa fare al momento. È in lista per un trapianto da anni, ma non è così semplice, in fondo non lo è mai niente, no? È così delicata, che ho perso il conto dei ricoveri»

Non che potesse perdere il conto sul serio. L’ultimo anno prima che maman si ammalasse, Sarah aveva quattro anni e loro avevano vissuto più in ospedale che a casa. L’immagine della mamma un po’ china mentre portava sua sorella al trotto e la faceva giocare trasformandosi nelle gambe che la bimba non poteva usare, era impressa come un marchio a fuoco nella sua memoria.

La mano di Annie scivolò via dalla sua, la ragazza stava scuotendo il capo, contrariata.

«Non voglio sapere cosa Sarah ha clinicamente, voglio sapere cosa è Sarah per te. Credo che dovresti dirlo a voce. Perché te lo giuro, hai l’aria di uno che non lo ha mai detto. Certe cose, finché non le dici sul serio invece che limitarti a pensarle, non diventano definite. Puoi ancora nascondertele. E se ti nascondi qualcosa del genere, non riuscirai mai a superarlo. Non girarci intorno» si addolcì sul finale, Demian abbassò la testa.

Cercò le parole che non gli erano mai uscite, erano molte le cose che non poteva dire. Quando era bambino, quella era una di quelle cose che lo facevano vergognare tanto, troppo per avere il coraggio di dirlo a qualcuno. Nemmeno Julian lo sapeva, se la zia ne era a conoscenza era solo perché maman con lei condivideva tanto, praticamente tutto. Lui però non aveva mai imparato a condividere niente, e l’accumulo di quel tutto lo faceva sprofondare.

«Cosa le hai fatto, per sentirti così?»

C’era qualcosa di comico, una cosmica presa in giro. Concretamente sarebbe quasi potuto sembrare che non le avesse fatto nulla, che non potesse avere quel potere quando era solo un marmocchio incapace, in grado sempre e solo di assistere alle brutture perpetrate da quell’uomo. Eppure, il suo torto era il peggiore.

«L’ho odiata»

Ammetterlo lo lasciò senza fiato.

Si lasciò cadere a terra, ai piedi del divano. Si rannicchiò nella conca dell’angolo, portò le mani ai capelli e ci si aggrappò con una cattiveria dolorosa. Poi rise senza un motivo, si vergognava così tanto che poteva solo ridere di se stesso.

Annie era rimasta in silenzio, così lo ripeté, per farle capire quanto fosse vile e rivoltante.

«Io la odiavo» il ricordo feriva ancora nello stesso identico modo spietato, proprio come quando era lui ad avere cinque anni ed era un ammasso informe di paure primordiali e ossessioni che già delineavano l’omuncolo che era destinato ad essere «E lei nemmeno era nata. Ma odiarla era facile, era più semplice odiare Sarah, piuttosto che ammettere che quello non mi volesse bene perché in me qualcosa non andava»

Si piegò su se stesso, incastrò la testa tra le ginocchia e con le mani sulla testa pensò che avrebbe voluto potersi riassorbire, proprio come un buco nero, una stella pronta a implodere.

«Non sono sicura di aver capito»

«Perché non puoi! Come potresti, tu non lo sai che bestia era!»

 

E Sarah, pur non volendo, sarà sempre legata a lui.

La sua stessa malattia è legata a lui

«Io gli ho permesso di farle del male, è questa la mia colpa. È a questo che mi ha portato essere geloso di lei»

Arianna era confusa, c’era quasi una vena di panico in lei, Demian comprese senza difficoltà il motivo: lo vedeva sprofondare in un’agitazione compulsiva e non sapeva se toccarlo. Restava protesa verso di lui, incerta, e le labbra schiuse tradivano l’indecisione delle parole.

Scoprì che voleva che lei capisse, perché non era pazzo, era la sua ferita più grande e se Arianna non lo capiva dopo averlo messo davanti ad una tale voragine di fragilità, non sapeva se l’avrebbe sopportato.

Strinse con più violenza i capelli «Il giorno più brutto è il giorno in cui è nata Sarah»

Annie s’acquietò tutto d’un tratto, gli occhi spalancati sulla sua perplessità.

«Sarah è nata prematura, fu un incidente. Tu non lo sai quanto la odiavo. Lo sapevo che lui l’avrebbe preferita, che mi avrebbe sostituito, perché io ero un malato del cazzo e di un peso del genere non se ne faceva nulla»

Gli sfuggì un singhiozzo, una costernazione che straripò tutta insieme. Fu incredibilmente semplice, all’improvviso, dirle ogni cosa. Dirle che quell’infanzia era ricca di ricordi slabbrati e stinti, ma quell’unico giorno era fin troppo nitido, il più avvilente della sua vita.

«Un figlio non dovrebbe mai vedere una madre umiliata dal proprio padre»

No, un figlio non avrebbe mai dovuto assistere a certe forme di violenza. Per questo non era mai riuscito a dire a nessuno che i suoi genitori litigavano tanto, sempre. Non era mai riuscito a dire che quell’uomo picchiava maman, e nella sua ingenuità di bambino aveva creduto che nascondersi nel sottoscala e coprirsi gli occhi e le orecchie bastasse a dimenticare.

A fingere che non fosse mai accaduto.

Eppure, per quanto desiderasse, non aveva potuto scordare il bastardo che li aveva abbandonati, non aveva potuto dimenticare quel ventisette dicembre dei suoi sei anni. Non ricordava le parole, quelle no, erano sfumate, ma restavano impresse vividamente nella sua mente le voci, la rabbia crudele di sua madre, le urla. Maman diventava cattiva quando perdeva il controllo, diceva cose in cui magari non credeva, lo faceva per ferire.

Lui invece la minacciava.

La minacciava di tacere, di smetterla, si esasperava e voleva sopraffarla, ma maman era una donna forte, che non stava mai zitta, non si tirava indietro e non permetteva a nessuno di schiacciarla. Così negli anni le urla erano diventate spinte, alle spinte si erano aggiunte le mani.

L’aveva picchiata più volte, ne conservava frammenti confusi ma vividi, come vivida era stata la paura. La prima volta erano in bagno, Jenevieve l’aveva fatto sedere sul mobile accanto al lavandino, gli cantava una filastrocca infantile per convincerlo a tagliarsi le unghie. Poi era arrivato suo padre. Non aveva mai saputo il motivo di quel gesto, da lì però la situazione era degenerata e scivolata in una spirale di violenza che lo aveva fatto sentire minuscolo e inutile, terrorizzato.

Maman non si fermava, più le violenze aumentavano, più lei si infervorava e lo feriva, metterle le mani addosso era diventata l’unica soluzione che quel maledetto aveva trovato per prevaricarla quando non ci riusciva con le parole.

«Maman ha sempre avuto un brutto carattere» quanto mancava il respiro, ad ammetterlo, ammettere che con quella sua meschinità aveva aggredito anche lui, non solo quello che era stato suo padre, e lo aveva umiliato, perché quello era l’unico modo di insegnare che Jenevieve aveva trovato.

«Avrei voluto proteggerla. Ero un inutile nano da giardino, buono solo a piagnucolare, ma persino io avevo capito che la sua rabbia non l’avrebbe difesa dal dolore fisico. Poteva essere coraggiosa e forte quanto voleva, ma fisicamente davanti a lui era minuscola»

Aveva chiuso gli occhi, e gli sembrava di scivolare di nuovo a quella mattina, davanti al pianoforte lucido e aperto, i tasti bianchi e neri esposti come un sorriso perverso di uno stregatto ingannatore. Poteva ancora sentire le note suonate da maman, e il tono alterato, l’odio che serpeggiava tra loro quando litigavano. Se gli occhi erano chiusi, lo rivedeva mentre con la sua ombra sovrastava maman, piccola, fragile con le sue braccina sottili e la pancia pronunciata.

Quella pancia era Sarah.

Quegli spintoni erano l’inizio della fine. La mamma piangeva disperatamente, con una furia inedita persino per lei.

«Odiavo che le facesse del male, io ci provavo a tenerlo lontano da lei»

Non ci era riuscito però, maman era caduta, una scivolata così banale da sembrare ridicola. Solo che non era stata banale, era stato un incubo. Sbattendo contro il pianoforte non era riuscita ad attutire la caduta, aveva urlato di dolore, quel grido gli era rimasto dentro. Poi erano solo frammenti di memorie e di sangue, tanto sangue, dappertutto.

«Era maman a sanguinare»

Lo pervase una calma assoluta, una rassegnazione esasperata. Liberò i capelli, abbandonò il nascondiglio delle sue ginocchia e scoprì che Arianna era una bambola trascurata e turbata davanti a lui, immobile. Le sorrise mestamente

«Sarah è nata a sei mesi, per colpa di suo padre»

Era sua sorella, avrebbe dovuto difenderla da un male a cui non era preparata, ma non lo aveva fatto.

«Ero troppo geloso di lei. Geloso che potesse essere amata da quello come io non ero riuscito a farmi amare»

Ed invece, era stato proprio lui, che l’aveva messa al mondo e avrebbe dovuto amarla più di ogni altra cosa, a rovinarle la vita.

«Non l’ho più visto da allora. Sono stato dalla zia, mentre maman era in ospedale. Quando l’hanno dimessa e siamo tornati a casa, lui non c’era più. Se ne era andato e aveva portato via tutto ciò che testimoniava la sua esistenza»

Scosse il capo, quasi ridendo, perché gli veniva da piangere ancora, tanto tutto era stato ridicolo e paradossale.

«l’aveva detto una volta, che non avrebbe sopportato di avere un altro figlio malato. È stato onesto, non mentiva. Non ci ha più cercato»

Non era stato presente nemmeno per sapere se sua figlia ce l’avesse fatta, non aveva vissuto i mesi di ansia con il terrore che Sarah potesse non vivere, non sapeva cosa significasse, restare oltre un vetro a guardare quella piccola figura nell’incubatrice e pensare che era sola, che aveva perso la persona che più di tutti doveva proteggerla. Capire che, allora, se non ci fosse stato un padre, sarebbe stato lui il nuovo scudo e non avrebbe permesso più a nessuno di ferirla in quel mondo di merda che l’aveva tradita prima ancora che vedesse la luce.

«Sarah era forte già allora, è sopravvissuta nonostante tutto»

Nonostante il suo cuore.

Il suo cuore debole, che non aveva avuto il tempo di svilupparsi come avrebbe dovuto.

«Ha perso tutto prima di nascere, ed io ho avuto il coraggio di essere invidioso di lei. Forse, sarebbe stato diverso, se non l’avessi odiata, se fossi stato meno egoista. Ora lei ha solo me, ed io ho solo lei. Ho già rischiato di perderla…»

Non sapeva come spiegare il vuoto di quel giorno, quando Julian gli si era accostato e Demian aveva pianto come non si era più permesso dopo. Sapeva che il cuore di Sarah probabilmente non avrebbe retto, lo avevano detto i medici. In quel momento poteva anche apparire tutto normale, ma gli interventi alle spalle, l’edema che quasi l’aveva uccisa a quattro anni, erano cose che non riusciva a fingere non ci fossero state.

 

Senza di lei non ce la faccio

No, non era un qualcosa che potesse spiegare a voce, era solo la certezza assoluta che se avesse perso Sarah qualcosa dentro si sarebbe spezzato inesorabilmente, per sempre, senza speranza di tornare integro. Cosa poteva comportare questa rottura, nemmeno lui osava pensarci né voleva davvero saperlo.

Annie allungò una mano verso il suo viso.

Pensò di scansarsi, per istinto, ma poi, con un gesto delicato del pollice, Arianna strofinò una lacrima sulla sua pelle. Allora capì di aver ricominciato a piangere. Succedeva, se pensava troppo a sua sorella, era uno di quei pensieri dolorosi che corrodevano, come una goccia d’acqua che picchiava sempre nello stesso punto e scavava il cervello.

Anche Arianna piangeva, doveva averla ferita.

Questa era una delle ragioni per cui non raccontava mai quella fetta specifica della sua vita: non voleva suscitare pietà e pena, non voleva apparire un debole, un omuncolo pietoso che provocava sorrisi compassati di disagio.

Piuttosto, era più semplice non pensare a nulla e fingere di non sentire nulla, essere disprezzato per il suo menefreghismo che compatito per la tristezza che trasmetteva. Aveva ancora abbastanza amor proprio per cercare di difendersi dagli sguardi indiscreti delle persone a cui in realtà non importava niente.

«Ehi» Arianna lo richiamò con un mormorio sconsolato, velato da un leggero senso di colpa.

Però lo fissava ancora, dritto in viso, pure con quelle due grosse lacrime che stavano rotolando piano sulle guance rosse come piccoli ciottoli da una scarpata.

«Non è colpa tua»

Gli venne da ridere «Cosa?»

Abbassò gli occhi, non riusciva a reggere la serietà con cui veniva scrutato, l’incrollabile certezza che guidava Arianna era destabilizzante e faceva davvero paura, a qualcuno come lui, qualcuno che nella vita non aveva idea di come muoversi.

«Sono seria Demi, non è colpa tua, eri un bambino. Non avresti potuto fare nulla nemmeno volendo»

Razionalmente lo sapeva.

Nella realtà la razionalità non trovava posto.

Cercò di sorriderle più genuinamente, di annuire pure, ma gli sfuggì un singhiozzo. Arianna si sporse, lo avvolse con le sue braccia sottili e Demian nascose il viso nel suo collo e pianse. Da molto tempo non si sfogava così liberamente, senza freni e senza alcol, e fu strano sentire il fiato che mancava, le lacrime che si raccoglievano in gola in un peso soffocante, e allo stesso tempo sentirsi svuotare, privo di ogni energia, mentre si accasciava completamente sul suo corpo, con un’innocenza che non aveva più provato con nessuno.

Si sentiva davvero un bambino, provava la stessa leggerezza di quando si sfogava nei giochi con tutto se stesso e correva come un matto sulle scogliere e la spiaggia, e poi quasi non si reggeva in piedi e Julian lo portava in spalla fino a casa. Nello stesso modo si acquietò su Arianna, il respiro smise di tremare e ad un tratto, il pianto era diventato una semplice linea traslucida in controluce. Arianna, con le sue mani leggere, un po’ goffe, gli asciugò le guance umide. La pelle tirava, ma Annie sorrideva tranquilla ed ogni disagio passava in secondo piano, se lei sorrideva in quel modo così onesto e sereno.

«Ora stai meglio» sentenziò, con la solita certezza assoluta che ormai Demian associava già a lei e solo a lei «E non mentirmi, lo so che stai meglio. Sfogarsi ti toglie le energie per poter star male»

Riuscì a farlo ridacchiare con quel tono da maestrina esperta. Annuì debolmente, perché in realtà aveva ragione, era così sfibrato da sentirsi vuoto, ma non di un vuoto annichilente, semplicemente libero da emozioni opprimenti, eccessivamente forti.

«Dai, ora concentrati» rise lei «Hai a disposizione una domanda. Una sola! Quindi giocatela bene!»

Una domanda

 

Eccola, esuberante ed esasperante insieme, lo guardava con l’aria furbetta e una luce giocosa nelle iridi chiare. Arianna assomigliava davvero troppo a sua sorella, c’era qualcosa in lei che gli richiamava in qualche maniera la bambina, e forse proprio per questo aveva trovato gradevole, accettabile ed ora quasi indispensabile la prima, perché già era abituato alla seconda.

Erano molte le cose che avrebbe voluto chiederle, avrebbe voluto sapere perché fosse tanto sibillina, così criptica con quel sorriso da Esmeralda che ingannava e lasciava intendere che ci fosse sempre un segreto da qualche parte, ben custodito e irraggiungibile. Avrebbe voluto chiederle quale fosse, quel segreto, e di dividerlo con lui, come lui stesso aveva appena fatto.

Ci rifletté in silenzio, la osservò mentre le sue labbra da bambina restavano incurvate in una piega inafferrabile che lo confondeva e lo faceva sentire insicuro e al contempo più stabile. Con quello stratagemma sciocco, Arianna lo aveva distratto.

L’aveva colto: aveva letto il suo disagio ed era riuscita in qualche modo a colmarlo, questo lo scioccò abbastanza da non dargli ancora una volta, possibilità di replica immediata. Come faceva ad intuire quale sentiero fosse meglio seguire con lui, restava un mistero.

«La foglia» sussurrò, come illuminato all’improvviso.

Arianna inclinò la testa e con un gesto del mento lo invitò a proseguire, sebbene perplessa.

«Quel giorno in ospedale. Quando ero con Elena»

«L’adorabile nonché pudica infermiera?» lo pungolò con la solita precisione millimetrica, costringendolo a chinare gli occhi per contenere l’impaccio «Sì, proprio lei. Quando sei andata via hai lasciato una foglia. Tu…» si morse l’interno della guancia e con voce più labile chiese «Che cosa stavi facendo?»

Tra tutte le cose che avrebbe potuto chiederle, quella era forse la più stupida. Eppure si era tormentato per cercare di capirla, era persino arrivato ad idealizzare un’azione tanto banale e aveva bisogno, ora, di ridimensionarla, per riportare quella ragazzina strana in una dimensione terrena più concreta e accessibile.

Arianna si lasciò andare ad una risata profondamente divertita, che però non riusciva a nascondere l’imbarazzo. La guardò alzarsi in piedi, passarsi una mano tra i capelli, muoversi con un certo nervosismo «Cavolo, e io che speravo non te ne fossi accorto!» si giustificò.

Si era allontanata da lui, la luce era poca, un alone giallo proveniente dal lampione acceso fuori, sulla strada. Non riusciva più a leggerle le espressioni se poneva tra loro una distanza. Era quella manina tra i ricci scompigliati, in un gesto irrequieto, a tradirla.

«Domanda di riserva?» lo supplicò.

Dem fece scattare l’interruttore e la luce artificiale delle lampade inondò il viso di Arianna, accentuandone il pallore e dando una sfumatura languida agli occhi da cucciola volta a intenerirlo. Era bella davvero, incredibilmente, la sua espressività aveva un ascendente su di lui che non avrebbe creduto possibile, perché fino ad allora era stato proprio solo di Sarah, tutto quel potere. Ed invece, quella ragazzina dall’aria sfatta e disordinata possedeva il medesimo dono di muoverlo a pietà. Si morse l’interno della guancia, poi sfoderò il suo miglior ghigno provocatore

«Una domanda per una domanda, giusto? Scambio equivalente» le fece il verso, profondamente divertito dalla faccia di Annie, che si sciolse subito in una smorfia. La ragazza sospirò sconfitta, scuotendo piano la testa «Touché, hai vinto»

Prese un grande respiro, come stesse per confessare un delitto «Sì, raccoglievo foglie. No, non sono un’idiota!» aggiunse dopo aver visto il sorrisino derisorio che già si disegnava sulle sue labbra. Demian ne rise, alzò il sopracciglio per calcare ulteriormente la sua confusione e metterla a disagio «Delucidami»

Arianna gonfiò le guance in un moto di stizza «Tengo un diario, ok? Un banalissimo diario, ci scrivo le cose e ci incollo qualunque cosa io associ alla giornata. Quel giorno era un perfetto giorno autunnale. Non volevo dimenticarlo» incrociò le braccia al petto e gli sembrò tanto un piccolo riccio offeso che in lui nacque spontaneo un sorriso di tenerezza. Si era raccolta in un angolo della cucina, vicino alla finestra, il broncio che arricciava le sue labbra era troppo spassoso e infantile.

 

Con quello che mi ha fatto raccontare, ha un bel coraggio ad arrabbiarsi per una sciocchezza simile

 

I pensieri di Arianna erano estranianti per qualcuno come lui, Demian non li capiva. Non capiva cosa intendesse dire, quando parlava di una giornata che sapeva perfettamente d’autunno, solo perché per lui ogni giorno aveva lo stesso penoso sapore del successivo e del precedente, era un nostalgico che viveva attaccato alle proprie amarezze e non vedeva molte sfumature. Viveva l’autunno o l’inverno semplicemente come stagioni tristi e morte che si confacevano a qualcuno morto dentro come lo era lui.

Arianna lo studiò e si rilassò, una vena malinconica le attraversò lo sguardo, una patina di tristezza inconciliabile con la spensieratezza che trasmetteva con una sua risata, eppure palese, presente.

«Sai, se ci pensi in un anno è racchiusa una vita intera, tutta concentrata. La natura è fantastica da questo punto di vista, in trecentosessanta giorni rinasce, vive e muore, e tu puoi vedere tutto ciò che di essenziale c’è in un’esistenza così, concentrata in un tempo brevissimo. La neve, il sole, la pioggia, la nebbia; i papaveri, le castagne e le fragole! Tutto contenuto in un numero limitato di giorni» chinò un poco la testa, distolse lo sguardo da lui, scostò la tendina e guardò fuori. Fissava la strada ora, i sampietrini che circondavano la casa.

Demian si avvicinò, colse la figura sfocata di una persona sotto la pioggerellina leggera, in lontananza, il colore dell’ombrello era una macchia fugace, un acquerello leggero non ancora asciutto che si spandeva indefinitamente sulla carta.

«Non è strano?» mormorò ancora, dopo un attimo di silenzio. Un sorriso sfuggente le accarezzava le labbra belle «L’autunno è bello, anche se sai che le foglie muoiono e gli alberi sembrano sofferenti. Eppure è bello lo stesso, e caldo. Quando vedo quei colori, quelle foglie gialle, mi sembra che la natura abbia catturato l’estate e la trattenga ancora per sé, ancora per poco. Allora penso che in fondo ne valga la pena davvero, di nascere in primavera per poter bere il sole fino a morirne. È un bel modo di vivere» scrollò le spalle, per scacciare la vergogna, e ridacchiò imbarazzata.

«Ecco, pensavo una cosa del genere, per questo raccoglievo quelle foglie» si scompigliò ancora i ricci e Demian non trovò nulla da dire, rimase in silenzio.

«Scusa, lo so che ho detto un sacco di stupidate! È che ogni tanto non posso non pensarci, alla morte intendo. Tu lo sai cosa voglio dire, quando passi troppo tempo lì dentro diventa quasi scontato. La morte intorno a te non puoi ignorarla, ci ho provato tante volte ma non sono proprio immune. Purtroppo non sono molto brillante, anzi sono davvero stupida, non giungo mai a nulla che abbia un senso»

Forse perché la morte non poteva ignorarla, Demian un senso riusciva a vederlo. Quando quel giorno aveva raccolto la foglia che Arianna aveva abbandonato, per la prima volta aveva pensato che l’autunno era bello, che quella era l’incarnazione di un’idea ed era bellissima.

Era la prima volta che gli si apriva uno squarcio sulle emozioni di Jenevieve: quelli dovevano essere i sentimenti di fatalità che maman provava davanti ad un giorno di pioggia, ad una foglia… davanti a lui; la fatale sensazione dell’ultima volta.

La fine.

Una raccolta di ultimi momenti concentrati in due mesi, forse meno. Ed ora capiva che era egoistico privare maman e Sarah della loro ultima volta, lo capiva davvero. Ciò che più lo disturbava però, era realizzare che quel sentimento disfattista Arianna era stata in grado di coglierlo come se le appartenesse.

 

Ora vorrei solo chiederle la sua storia, ma la domanda me la sono già giocata e so che non mi risponderebbe. Non davvero.

 

«Ti sei accorto che è ora di cena?» gli fece presente, scuotendo la manica della sua felpa per attirare l’attenzione «Devi andare da qualche parte?»

A disagio scosse piano la testa «No»

Non aveva nulla da fare, non c’era nessuno che lo aspettasse. Avrebbe potuto ordinare la pizza o risparmiare ripescandone una surgelata dal congelatore.

«Bene, perfetto!» gioì con un tono così entusiasta da risultare stordente, tanto che Demian rimase spiazzato a fissarla come fosse un’aliena «Allora muoviti e vai a lavarti, i miei ci stanno aspettando. Sono molto puntuali con la cena»

«Cosa?»

Arianna sollevò gli occhi al soffitto in una finta esasperazione «Ricordi? Sei uno che è meglio non lasciare solo!»

Rimase pietrificato di fronte a quella convinzione sicura e di nuovo serena.

«Su, muoviti» rise lei, poi sbatacchiò gli occhioni con un velo di malizia che gli tolse il fiato «So che preferiresti che sia io a lavarti, ma ti ho già detto che non farò l’infermierina! Quindi fa’ il bravo ometto, io ti aspetterò qui» si lanciò goffamente sul divano, afferrò il telecomando e iniziò a scorrere i canali davanti ai suoi occhi attoniti.

 

I suoi genitori?

Casa sua?

Cena?

Riuscirò mai ad avere voce in capitolo con lei?

 

 

 

 

 

  
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