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Autore: adrienne riordan    15/12/2017    1 recensioni
Il padre di Keith onora ogni anno una tradizione natalizia iniziata con la madre di suo figlio.
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Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Data: 16 Dicembre

Rating/Avvertimenti: nessuno

Trama: il padre di Keith onora ogni anno una tradizione natalizia iniziata con la madre di suo figlio.

Dettagli inutili: il 25 giugno 2014 è stata l’ultima volta che ho pubblicato una fanfiction. Da allora, pur piena di plot in testa e canovacci appuntati, è stato come se avessi perso la capacità di scrivere. Poi arriva il Calendario dell’Avvento del gruppo Facebook di Voltron Legendary Defender (https://www.facebook.com/notes/voltron-legendary-defender-it/calendario-dellavvento-2017linee-guida-per-disegnatori-e-scrittori/741639956009528/ ) e cosa faccio, non partecipo? :D

Quindi occhio, è una fyccina arrugginitissima, poi sparirò di nuovo.

Buona lettura, people!

 

Desideri di Natale

Non vi era alcuna ragione logica per cui Kenneth Kogane, chiamato Ken dai pochi amici che aveva, se ne stesse seduto accanto alla scrivania a scrivere un biglietto per Santa Klaus. Non quando era ormai una persona adulta, per di più padre di un bambino, e perfettamente consapevole del fatto che non esisteva alcuna entità sovrannaturale che portava doni ai bambini buoni. Credeva nell’esistenza degli extraterrestri però. O meglio, ci aveva creduto ancor prima di aver avuto la conferma della loro esistenza, una prova molto concreta, che rispondeva al nome di Keiràrye, ma era stato scettico già da bambino circa l’esistenza del panzone barbuto vestito di rosso.  Ad ogni modo, trovatosi solo nella sua stanza da letto, a poche settimane dal 25 dicembre, l’adulto Ken aveva appena scritto su tale biglietto un desiderio che aveva, per forza di cose, taciuto a chiunque, un desiderio innocente tutto sommato, ma che non si sentiva di condividere nemmeno col piccolo Keith che dormiva ormai da alcune ore nella sua cameretta.

“È una cosa che appartiene solo a noi due”.

Ken non si era sentito affatto colpevole di non aver coinvolto il figlioletto in quella che, ormai, era diventata per lui una tradizione privata, nata alcuni anni prima, poco dopo la nascita di Keith.

“Keira, che stai facendo?” chiese un giovanissimo Ken alla ragazzina china su un foglio e intenta a scarabocchiare ghirigori geometrici su un foglio di carta, a poca distanza dal piccolo Keith che dormiva beato nella sua culla.

“Oh, niente” chiosò la giovane nascondendo in modo maldestro quanto stava scrivendo. Un gesto inutile comunque, visto che Ken non aveva alcuna possibilità di capire il significato di quella che, con molta probabilità, era la lingua scritta della giovane. Non glielo aveva mai detto, ma aveva sempre trovato adorabile l’espressione imbarazzata che faceva quando veniva beccata a fare qualcosa di infantile.

Da quel poco che aveva saputo, Keira aveva perso da molto tempo la possibilità di fare cose infantili, pur essendo apparentemente solo una diciassettenne. Una diciassettenne con grandi ma deliziose orecchie vagamente somiglianti a quelle di un felino. Una diciassettenne appena un po’ più alta di lui, cosa incredibile visto che Kenneth era decisamente alto (per non parlare dello shock subìto alla notizia che Keira era giudicata una nanerottola dai suoi ex compagni di accademia!). Una diciassettenne di colore, ma di un colore decisamente insolito per qualsiasi straniera di quel pianeta. Violetto, per l’esattezza.

Una diciassettenne che aveva il terrore (come lui, del resto) di non essere pronta a prendersi cura di un bambino, data la giovane età e l’inesperienza, ma che, appena aveva preso Keith in braccio per la prima volta, sembrava non avesse fatto altro che la madre in tutta la sua vita.

“Kenneth…” aggiunge la ragazza con fare fintamente noncurante e senza guardarlo in faccia, mentre le guance si coloravano lievemente di ciclamino “ma questo Santa Klaus di cui mi hai parlato qualche giorno fa come riesce a ricevere le lettere che i bambini gli mandano? E davvero è capace di accontentarli tutti? Non ha alcun problema a comprendere tutte le lingue del mondo?” .

“Stai scrivendo una lettera a Santa Klaus” replicò Ken con un sorriso accondiscendente, contento di aver ottenuto la risposta alla sua precedente domanda.

“Non sto scrivendo una lettera a Santa Klaus! Non sono una bambina, e nemmeno così buona!” esclamò scandalizzata, mentre le guance diventavano di un ciclamino ancor più acceso.

“Oh, lo so che sei una ragazza cattivella!” mormorò maliziosamente Ken avvicinandosi a Keiràrye. Ma la ragazza non comprese. “Ho cavato un occhio a un soldato che mi aveva aggredita” aggiunse asciutta “In… uhm… un’altra occasione tagliai un braccio al medesimo soggetto e uccisi il suo compare. Tu la chiameresti legittima difesa, ma difficilmente troverai nell’Universo qualcuno disposto a definire un Galra buono”.

Kenneth, a quelle parole, ammutolì, sbigottito dalla brusca piega che stava prendendo il discorso. Lui era soltanto un ragazzo sognatore e amante delle stelle, le storie di guerra erano per lui solo vaghi ricordi descritti dai nonni, ma ancor più erano rappresentate dalle eroiche imprese della trilogia di Star Wars. Viveva in un paese pacifico, con un po’ di fortuna la guerra non avrebbe mai fatto parte del suo futuro. Invece, davanti a lui, c’era una ragazza addestrata per essere un soldato al servizio di un Impero che aveva fatto della conquista e della sottomissione le sue primarie missioni. Sembrava un remake di Star Wars ma la ragazza non gli aveva affatto presentato un simile scenario nei suoi racconti, messi insieme da una voce sommessa e un’ombra negli occhi.

Keira si rese conto di aver parlato troppo. Sospirò. “Sì, è una lettera per Santa Klaus. La sto scrivendo per Keith. Lui è troppo piccolo per farlo”.

Ken le accarezzò i capelli color mirtillo “Invece c’è qualcuno che nell’Universo è disposto a chiamare buona almeno una Galra di nome Keiràrye” replicò alludendo chiaramente a se stesso.

“Ma se prima mi hai definito cattivella” rispose sorridendo lievemente a suo interlocutore.

“Sì, sei anche cattivella, ma modo molto eccitante… tanto che mi piacerebbe avere ancora a che fare con te, almeno finchè Keith dorme tranquillo” e avvicinò pericolosamente le sue labbra contro quelle della ragazza.

Ma come quando parli del diavolo e spuntano le corna, appena nominato, il proprietario del nome decise di svegliarsi, reclamando chiassosamente la pappa e interrompendo delle interessanti premesse.

Keira rispose prontamente alla chiamata del neonato ma non senza prima rivolgere un sorrisetto carico di scherzosa minaccia al suo compagno “Poi continuiamo…” ammiccò, finalmente, cattivella.

 

Non appena ebbe terminato di scrivere, Ken ripose il biglietto nella busta. Non era una busta grande, anzi, la dimensione era quella standard di un bigliettino di auguri che di solito si attacca ai pacchetti regalo per riconoscerne il destinatario. Tanto non aveva molto da scrivere. Si alzò dalla sedia e uscì dalla stanza, dirigendosi verso l’ingresso. Non aveva avuto il cuore di dire a Keiràrye che i bambini, di solito, lasciavano la letterina sulla finestra e in seguito i genitori avrebbero intrapreso mosse da ninja per intercettare la missiva, comprare i doni richiesti, tenerli nascosti e, infine presentarli sotto l’albero di Natale senza che i pargoli se ne accorgessero fino al giorno successivo. La ragazza probabilmente non avrebbe gradito la menzogna ma a Ken sembrava che avesse un disperato bisogno di fare qualcosa di magico, folle e distante anni luce, letteralmente, da quella che era stata la sua realtà quotidiana fino all’anno e mezzo precedente, e non le disse nulla. Pensava ingenuamente che avrebbe avuto il tempo di sciogliere l’equivoco più avanti nel tempo.

Aveva portato Keira in un campo poco distante dal loro rifugio ma comunque ben isolato e lontano dalle strade. Vi era al centro un bell’abete, non maestoso come quelli che di solito troneggiavano nelle piazze cittadine ma molto adatto allo scopo che si era prefissato. Kenneth si era praticamente ispirato alla tradizione giapponese del Tanabata, in cui i biglietti erano attaccati ad una pianta di bambù. Non era certo una tradizione coreana ma il ragazzo aveva sempre amato guardare le stelle e si era letteralmente innamorato della leggenda sull’amore che legava le divinità Orihime e Hikoboshi, rappresentanti le stelle Vega e Altair, la prima volta che l’aveva letta su internet. Dopotutto, anche lui aveva trovato la sua “stella”.

“I biglietti vanno appesi ai rami dell’albero, il più in alto possibile. I bambini vengono aiutati dai genitori” spiegò il ragazzo mentre si avvicinava con il suo bigliettino.

“Mi sembra un albero con rami poco pratici da raggiungere” aveva constatato Keira avvicinandosi con il proprio.

“Beh, la tradizione natalizia coinvolge l’abete. Oltre ai biglietti, l’albero verrà decorato con palle di vetro, ghirlande, stelle e luci colorate al neon”. Una mezza verità.

 

Ken uscì in giardino: Keith aveva compiuto da poco un anno quando si era trasferito con lui nella nuova casa, molto lontana dal rifugio in cui aveva passato i suoi primi mesi di vita. La prima cosa che aveva fatto nella sua nuova esistenza da padre single (separato? Vedovo? Non aveva modo di saperlo) era stato far piantare un giovane abete, già bello alto, con la scusa di avere dell’ombra durante l’estate.

Si avvicinò all’albero e, alzando un po’ le braccia, appese al ramo più alto che poteva raggiungere il suo biglietto…

…comunque  molto più in basso rispetto al ramo dove Keira aveva attaccato il suo, quando con due balzi felini aveva quasi raggiunto la cima e, vedendo su di sé lo sguardo sbigottito di Ken (aveva partorito da appena due mesi, diamine!) aveva sentito il bisogno di giustificarsi. “Più vicino sarà alle stelle, più facilmente Santa Klaus lo troverà e potrà realizzare il mio desiderio!”

Già, Ken non aveva specificato che Santa Klaus esaudiva soltanto richieste materiali, mentre Keira gli aveva detto che il suo era un desiderio, pur rifiutandosi di rivelarlo (nel dire così, le guance si tinsero nuovamente di ciclamino e Ken, finalmente, aveva realizzato che il ciclamino dei Galra era il rossore degli umani). Un dettaglio che faceva davvero assomigliare la sua tradizione natalizia al Tanabata. Era un  “Tanabata natalizio”, ma andava bene così: l’unione di due realtà lontane avevano dato origine a qualcosa di unico che apparteneva soltanto a loro due.

Guardava le stelle, ora, Ken. Non avrebbe saputo quali sentimenti riversare sul firmamento che, da quel piccolo angolo di mondo, poco coinvolto dall’illuminazione cittadina, brillava orgogliosa sul manto nero bluastro della sera. Era la meraviglia per il pensiero che, oltre ad esse, vi erano tanti mondi sconosciuti ma vivi e affascinanti, che avevano dato i natali alla bellissima aliena con la pelle color mirtillo e con il sole negli occhi? Oppure era risentimento, perché verso quelle stelle l’aveva vista suo malgrado esser trascinata via contro la sua volontà da altri alieni? Alieni che lui aveva compreso essere alleati della ragazza ma che avevano guardato Ken come un fastidio facilmente eliminabile, qualora avesse reagito al rapimento (e l’avrebbe fatto, se Keira non lo avesse fermato).

“Non potrò restare qui per sempre” aveva dichiarato con tono grave, mentre cullava Keith, diverso tempo prima del suo sequestro. “Sono una ricercata. Sono una criminale. Non sono neanche lontanamente importante ma ho suscitato le ire di un soldato molto vendicativo, vicino all’Impero… Se dovessero arrivare fin qui…” Ken non avrebbe dimenticato tanto facilmente la paura che aveva attraversato per un momento il volto di Keira. “Kenneth, questo pianeta pullula di Quintessenza: la varietà di biodiversità e il numero incredibile di culture e lingue del popolo più evoluto della Terra ne è la prova. Forse è per questo che il resto del vostro Sistema Solare, e persino quelli confinanti, non ospitano alcuna forma di vita: è stata completamente assorbita dalla Terra, diventando così un’oasi azzurra in un deserto nascosto. E già ti ho detto la fine che fanno i pianeti colmi di Quintessenza che hanno avuto la disgrazia di attirare l’attenzione dell’Impero!”. Ken stava per ribattere che non doveva per forza accadere, che solo un puro caso aveva mandato fuori rotta la navicella guasta di una fuggitiva, che appunto la Terra era ben nascosta, lei lì era al sicuro!

Ma Keira aveva continuato come un fiume in piena.

“Ti ho già detto che il pianeta viene defraudato di tutta la sua Quintessenza, condannandolo di fatto a morte, e che i suoi abitanti vengono fatti schiavi. Ma la sorte peggiore spetterebbe proprio a Keith in quanto mezzo Galra! Che sia un figlio dell' amore o della violenza, la vita di un bambino di sangue misto non potrà mai essere felice”.

“Keira, non capisco”.

“Ho una sorella mezza Galra, Ken, sappi che noi la situazione la capiamo molto bene. Vedila così: gli invasori vedono un bambino mezzo sangue come figlio di un essere inferiore (perché le popolazioni invase nella logica del conquistatore devono essere per forza inferiori – no, non ribattere Ken, ho visto i documentari storici alla televisione, assomiglia a diverse situazioni avvenute pure qui in passato!) e di un Galra che si è “divertito”, quindi lo trattano come uno scherzo della natura. La gente della “popolazione inferiore” ovviamente vede giusto la parte mezza Galra, quella dell’invasore, e farà pentire al bambino di essere nato fino alla fine dei suoi ingloriosi giorni. Vuoi questo futuro per Keith? Io no.” Keira sembrava ancora nel bel mezzo del fiume di parole ma si arrestò, apparentemente incapace di proseguire.

“C’è mia sorella là fuori, Ken. Aveva solo dodici anni quando l’ho vista l’ultima volta e se non fossi intervenuta in tempo lei …!” si interruppe. Kenneth non osò intervenire. “Ora non so come sta, non so se è viva o morta, e non sarei mai in pace con me stessa se rimanessi qui a nascondermi come il peggiore dei codardi” si guardò intorno. “Questo pianeta è prezioso, tu, i tuoi amici e la tua famiglia siete stati tanto cari ma… è troppo rischioso vivere in un pianeta che nutre una tale ambivalenza nei confronti degli “extraterrestri”. Dovrei vivere come un topolino, sempre nascosto per non farmi beccare dai padroni di casa”.

“Quindi lascerai me e Keith?” chiese quasi sussurrando Ken.

“Questo sarà inevitabile, non credi?” rispose Keira con voce tremola. Poi prese un respiro “Ma non accadrà certo domani o dopodomani” ricominciò con fare pragmatico “Keith deve essere svezzato prima, e bisognerà assicurarsi che non manifesti caratteristiche strane agli occhi degli umani. Almeno per i prossimi due anni, di partire non se ne parla”.

Ken non seppe mai che il piccolo Keith, risvegliatosi dal suo sonno e andato in soggiorno alla ricerca del padre, lo aveva osservato dalla finestra mentre appendeva qualcosa all’albero. Non fece in tempo a chiedergli cosa ci facesse fuori quando il padre rientrò in casa dopo qualche minuto: Ken aveva sviato subito la sua attenzione prendendo dell’acqua per il figlio e riaccompagnandolo in camera sua con la promessa di leggergli un’altra favola per farlo riaddormentare. Ma il giorno successivo, fattosi ormai negli ultimi tempi un arrampicatore scavezzacollo, Keith era andato ad esaminare da vicino quel foglietto. Scoprì con sorpresa che non era presente solo un biglietto bensì sette, e soltanto uno non mostrava i segni del tempo e delle intemperie. Aveva cominciato la scuola primaria a settembre e, grazie a quei pochi mesi di istruzione, era stato in grado di soddisfare la sua curiosità e scoprire finalmente cosa fossero quei biglietti.

“Caro Santa Klaus, voglio che la mia famiglia torni ad essere completa”

Keith, a quelle parole, si confuse non poco: in che senso completa? Non capiva, la sua famiglia era a posto, cosa mancava? E soprattutto: davvero papà aveva mandato una LETTERINA A SANTA KLAUS? Era imbarazzante persino per lui che aveva sei anni…

Lo stupore e la confusione non fecero che crescere appena notò che anche i foglietti più vecchi recavano lo stesso, identico, messaggio. Tutti tranne uno, il foglio più rovinato e anche lievemente sporco di sangue. Il sangue di suo padre, che aveva penato non poco per recuperare quel biglietto dall’albero su cui era stato originariamente appeso. Quel foglio riportava simboli stranissimi, completamente diversi dalle lettere dell’alfabeto o da qualsiasi simbolo pregrafico o geometrico imparato a scuola. Ecco, quel foglio segnò il punto più elevato di confusione e di dubbio che il suo papà fosse impazzito, e Keith stabilì che, forse, era meglio non indagare ulteriormente.

Essendo il bambino il tipo che era, assorbito dalle mille attività tipiche di un seienne, in realtà smise presto di curarsi di quel bizzarro ritrovamento e, col tempo, finì per dimenticarsene.

Non venne dunque mai a sapere, e del resto nemmeno Ken lo seppe mai, che il messaggio celato dietro a quei segni particolari era, in tutto e per tutto, uguale a quelli di Ken stesso:

“Caro Santa Klaus, voglio che la mia famiglia torni ad essere completa”.

 

FINE

  
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