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Autore: Il Cavaliere Nero    16/12/2017    17 recensioni
Shinichi Kudo è famosissimo: il più giovane detective, un curriculm che vanta il maggior numero di casi- rapidamente!- risolti. Per la sua consapevole abilità, e talvolta saccente professionalità, parte della polizia lo applaude e lo stima; l’altra metà, per la stessa ragione, lo ostacola nascondendosi dietro una finta esaltazione di rigorismo, che è in realtà qualunquismo.

“Tu…sei, sei stato in centrale oggi?”
“Sì. Ma sai, non mi sono fermato lì con loro, non sono soliti parlare benissimo di me."
In quella dichiarazione di consapevolezza, in lui tornò a dominare il detective orgoglioso e sicuro di sé, distaccato e persino un po’ scontroso.
"Tu...sai che..."
"Mph, credi che io viva sulle nuvole? Dicono che io sia ancora più arrogante da quando sono amico suo. Un mese fa ero un eroe, ora improvvisamente uno sbruffone. Come si spiega quest'incoerenza? Io sono sempre io. Sono sempre stato un eroe, sarò sempre uno sbruffone. Purchè scelgano. Sono lo stesso di un mese fa, non c'è nulla di diverso in me."

Ran apprezza i suoi metodi, totalmente distanti da quelli di suo padre. Ma li apprezzerà anche quando ne verrà travolta?
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Ran Mori/Shinichi Kudo
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo Dieci- Tropical Land
 
 
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Con tanti auguri per le feste a tutti i miei lettori,
e in particolare alla carissima e sempre disponibile
Rob, la complice numero uno


 
«Ti ho amato e ti amo nonostante la verità.
La verità non cambia nulla di ciò che proviamo per gli altri.
È la grande tragedia dei sentimenti.»
Joel Dicker


 
 
Dal momento che gran parte del capitolo è costituita da flashback, per stavolta ho preferito contrassegnare i paragrafi analettici dal corsivo, per non appesantire la vista alla lettura.
 



“Buonasera, ragazzi! Cosa vi porto?” un giovane cameriere si era avvicinato con atteggiamento spigliato, ma Ran, nonostante fosse solitamente una ragazza estremamente educata, non alzò neanche gli occhi per accennare un sorriso. Rimase in silenzio, fingendo di sistemare il cappotto sullo schienale della sedia in equilibrio con la sacca della palestra; in realtà, era preda di un potente imbarazzo, tanto profondo da non riuscire a pensare lucidamente che un solo, lento, scandito gesto alla volta. Con gran cautela, guardò di sottecchi il detective, senza però voltarsi: lui aveva già preso posto di fronte a lei, e, seduto aspettava evidentemente una sua reazione. Era proprio questo a imbarazzarla: in quel momento, si sentiva come su un palcoscenico, nuda di fronte agli occhi del suo spettatore con tutte le sue incertezze, i suoi limiti e le sue insicurezze. La gioia immediata che l’aveva invasa quando aveva sentito Shinichi pronunciare quella frase –per i primi dieci secondi aveva continuato a pensare d’aver frainteso totalmente la richiesta- stava gradualmente lasciando spazio al timore: in quella sera, si sarebbe giocata tutto: come se ogni azione compiuta dal giorno in cui i loro occhi si erano incrociati nell’agenzia investigativa di suo padre [1] fosse stata interamente cancellata, e allora non rimasse nient’altro che i frutti che la performance cui stava per prendere atto avrebbe portato. E lei non si sentiva all’altezza.
Aveva provato anche in passato quella medesima sensazione: ansia da prestazione, ogni volta che il candidato che la precedeva nella lista dei partecipanti scendeva dal ring, e solo qualche istante la separava dall’incontro. Nondimeno, messo piede sul tatami, la paura si dileguava pian piano lasciandosi sostituire dall’entusiasmo del combattimento e dalla sua passione per il karate.
Aveva pensato sarebbe accaduto lo stesso: messo piede nel pub, la preoccupazione e la vergogna sarebbero scemati fino a svanire, e invece era capitato l’esatto opposto. Shinichi le aveva tenuto aperta la porta del locale, e lei, entrata, si era ritrovata catapultata dentro un salotto gigantesco, pieno di tavoli e divanetti, gremito di clienti e chiacchiericcio. In fondo alla sala aveva visto aprirsi una grande veranda illuminata da piccole lampadine pendenti dai gazebi circostanti, e la luce all’interno non era che il riflesso di quella esterna, perciò l’ambiente era piuttosto oscuro, soffuso.
Non aveva saputo muovere un passo e, fingendo di aspettare che il suo accompagnatore la raggiungesse, aveva atteso Shinichi rivolgendogli un timido sorriso.
 
“Ran!!” si sentì apostrofare, e si voltò. Sonoko le stava correndo incontro, ma la minigonna che aveva scelto di indossare le rendeva goffa la camminata.
La castana salutò l’amica, cercando immediatamente di stabilizzare i loro discorsi su un territorio neutro.
“È stata una bella idea venire qui! Proprio ieri sera ho visto un servizio in tv dedicato interamente alla ruota panoramica di questo luna-park, dicevano che al punto più alto si riesca addirittura a vedere…”
“Oh, Ran, Ran, Ran. - La interruppe l’altra, pestifera. Un sorrisetto malizioso le spiccava sulle labbra –Ora ti ricordo perché siamo qui.”
La prese a braccetto, e con una piroetta la indirizzò verso un chiosco di granite poco distante da loro.
“La bellezza di due, dico due, sere fa dovevamo andare al cinema insieme, e questa povera fanciulla ti ha aspettato per ben venti minuti davanti alle sale, prima di ricevere un misero sms: sono in un pub con Shinichi, dopo ti racconto, e cosa ha ricevuto in cambio? Una telefonata striminzita in cui non mi hai raccontato praticamente nulla. Perciò, adesso, sputa il rospo: voglio sapere tutto!”
“Perché tanto entusiasmo, Sonoko? In fin dei conti eravamo già state con lui in un bar, e insieme! [2] Te lo ricordi? È semplicemente ricapitata la stessa cosa, ma senza di te…”
Le due ragazze si sedettero ad uno dei tavolini nei pressi del chioschetto, richiamando l’attenzione del cameriere.
“Ran, ti prego. Non fare la finta tonta! Un conto è Shinichi Kudo che ti aspetta fuori scuola, firma un numero spropositato di autografi, viene al bar e si piglia una spremuta, in pieno giorno, con me presente. Un conto è Shinichi Kudo che, praticamente, ti viene a prendere in palestra e ti porta, di sera, in un pub, da sola e bevete champagne insieme!”
“Ma quale champagne!”
“Qui non serviamo champagne. Volete la lista dei gusti?” il cameriere, appena sopraggiunto, aveva frainteso la frase della ragazza. Sonoko allora, con un’espressione dispettosa stampata sul viso, prese la parola: “Ma se lo serviste a quest’ora a due ragazzi cosa pensereste? Che sono fidanzati?”
“Sonoko!”
“Che lui ci stia spudoratamente provando?”
“Sonoko, dacci un taglio! Sì, ci porti la lista per favore.”
Il ragazzo si allontanò ridacchiando e Ran lanciò uno sguardo all’amica come se volesse incenerirla.
“Smettila, Sonoko.”
“Allora sputa il rospo, ti dico. Non puoi essere così ingenua da non capire che quello sbruffone d’un investigatore ci sta provando con te.”
“Ancora?”
“Dimmi la verità, Ran, subito!”
“La verità è che…- paonazza, sospirò -… io non so cosa pensare, davvero. Sono passati due giorni da quella sera, io non me l’aspettavo, e ancora non riesco a smettere di pensarci.”
“Oh, adesso ragioniamo.” Esultò la biondina, schioccando rumorosamente le dita.
“E più ci penso, più sento l’entusiasmo crescermi dentro. Non so come spiegarlo, è come se sentissi un’energia tale da non riuscire a star ferma, devo sempre muovermi, fare qualcosa, pensare…”
“Eccolo il problema: tu pensi troppo, Ran! Ma a cosa vuoi pensare?” Sonoko si sporse con il busto verso l’amica, i gomiti sul tavolo.
“Senti, prima di ora noi siamo già stati insieme da soli. Ok?” Ran non aveva minimamente accennato all’incontro che i due avevano avuto quella fatidica notte dopo la sparatoria, né aveva intenzione di raccontarglielo.[3] D’altronde, non sapeva neanche lei cosa pensare o come interpretare la rapida successione di fatti che mai aveva sperato di poter vivere e che, in quel momento, la stavano travolgendo procurandole una gioia che solo la confusione poi riusciva a smorzare.
“E non nego che talvolta sia stato anche a lui a cercarmi, ma, più o meno, sempre per motivi professionali: per parlare con mio padre, per sapere che mosse di karate adoperare, per questioni che riguardavano l’indagine…capisci? Insomma, riesco a trovare una spiegazione sensata quasi per tutto… ma non per questo.”
 
“Perché non ci lascia il menù e ripassa tra qualche minuto?” pronunciò allora Shinichi, affabile. Il cameriere annuì e si dileguò oltre il buffet poco distante da loro.
Rimasti soli, Ran trovò infine il coraggio di sedersi. Prese posizione di fronte al detective, poggiando i gomiti sul piccolo tavolino quadrato dove una giovane inserviente li aveva accompagnati poco prima, e accavallò le gambe con il proposito di apparire disinvolta. Nondimeno, lo sguardò le volò alle altre donne in quel pub, e poi di nuovo sulla sua uniforme scolastica. Se avesse saputo che dopo gli allenamenti Shinichi le avrebbe proposto quel locale –totalmente fuori zona- di certo avrebbe optato per un altro cambio, anziché la sua divisa con la gonna plissettata a la giacca dello stesso colore.
- Un abbigliamento da ragazzina… - si compatì mentalmente, scrutando con rinnovata soggezione gli abiti eleganti e sofisticati delle altre clienti.
“Non preoccuparti, non devi bere per forza.” Shinichi richiamò la sua attenzione, equivocando il motivo del disagio della giovane che le sedeva di fronte.
All’espressione interrogativa di lei, continuò: “Non so cosa tu sia abituata a bere con i tuoi amici ragazzini che ti portano fuori. Ma se non sei solita servirti di alcolici, non devi preoccuparti di fare una brutta figura. Prendi quello che vuoi. Una spremuta, magari?”
E voltò nella sua direzione il menù che reggeva tra le mani.
“I miei amici ragazzini?” gli fece eco, afferrando la seconda lista che il cameriere aveva poggiato sul tavolino. Ma il giovane la bloccò:
“Leggi pure dal mio.” Insistette e lei, alzando gli occhi sul suo viso, vi scoprì un sorriso malizioso, che la contagiò. Le labbra increspate a sua volta, fu costretta a sporgersi verso di lui per poter leggere ciò che le stava indicando con l’indice, e vide Shinichi fare altrettanto. I loro visi quasi si sfioravano, sopra il foglio delle bibite.
“Arancia?” le propose, e lei afferrò un lembo della carta.
“Mhm…l’arancia non mi piace…” lui mosse le dita, a contatto con quelle di lei.
“E cosa ti piace allora?”
Contemporaneamente, i due giovani alzarono lo sguardo e si fissarono.
“Non esco con i miei amici ragazzini.” Precisò.
“Che cosa ci fai, se non ci esci?”
“Non ci faccio niente.”
“Sei una piccola bugiarda.”
“Uno sbruffone come te non ha il diritto di parlarmi così.”
“Sei troppo carina perché qualche imbecillotto non ti ronzi attorno, ma finora me l’hai sempre nascosto.”
“Sono una ragazzina che sta seduta al tavolo di un pub con la divisa della scuola.”
“Sì, in effetti quella gonna è un po’ troppo lunga, ma confido che la prossima volta mi delizierai con una più corta.”
“Ecco il re degli imbecillotti che mi ronzano attorno.”
Il detective scoppiò a ridere e Ran tornò a poggiarsi contro lo schienale della sedia, soddisfatta.
Lui la guardava ancora maliziosamente, un dito poggiato sul labbro e il braccio sul tavolo.
“E tu, invece? Che cosa prendi?”
“Sono indeciso.”
 
“Signorine, avete deciso cosa volete in alternativa allo champagne?” il cameriere, nuovamente avvicinatosi al loro tavolo, pensò di esordire con spirito, persuaso di aver trovato modo di approcciare le ragazze; ma Sonoko, repentina, sbottò:
“Stiamo parlando! Portaci due granite a tua scelta e togliti di mezzo!”
Ran ridacchiò, a disagio: “Sonoko…”
“Continua a raccontarmi! Sono sicura che ci sta provando, è davvero troppo evidente.”
“Ascolta. Io sono disposta ad ammettere che, se qualunque altro ragazzo si fosse comportato in questo modo, con me, non avrei avuto dubbi sul suo…beh…- arrossì, abbassando gli occhi.
“Sul suo volerti portare a letto?”
-Sul suo interesse.” Sospirò mentre Sonoko sghignazzava, pettegola. “Ma lui non è una persona qualunque, lui è Shinichi Kudo. Io non posso credere che lui…-
“Non credi che sia un uomo, Ran? Non capisco come tu possa tentennare in questo momento! Approfitta dell’occasione, aspetti questo da tutta la vita!” la ragazza parlava con enfasi, ingigantendo la questione e perdendo completamente di vista l’obiettivo –lei era innamorata di Shinichi, non aveva una cotta che da un momento all’altro sarebbe svanita come la sabbia soffiata via dalle dita.
Eppure, a suo modo, parlava a buon diritto: Ran sapeva che in fin dei conti, Sonoko aveva ragione: avrebbe dovuto vivere con spensieratezza quel momento che, in passato, neppure aveva mai osato immaginare, tanto le sembrava improbabile. Ma non riusciva a trovare un significato logico agli avvenimenti degli ultimi giorni, e lei non poteva agire se non scovava il senso di ciò che le accadeva intorno. Persino quella notte sotto l’appartamento poteva paradossalmente essere comprensibile: lasciarsi andare per qualche momento ai propri istinti poteva essere attrazione, ma cedere a un appuntamento doveva essere qualcosa di più. E Ran non poteva credere che Shinichi provasse per lei qualcosa di più che attrazione per un tempo che superasse i quindici secondi; l’attimo dopo, ecco che si dava della stupida e si ammoniva, già disillusa, di non crearsi delle false speranze alla cui frantumazione sarebbe caduta prona molto presto. La sola idea che quella Hidemi fosse sua amante le aveva procurato un dolore fortissimo, e singolare: tutto si era tradotto in assenza di rancore, risentimento o rabbia, e la grande vincitrice tra le sue passioni era stata l’apatia. Non voleva sentirsi ancora così, e per proteggersi da quella sofferenza era indispensabile per lei non lasciarsi andare, vivere con leggerezza quel momento, senza troppe aspettative.
…ma come poter controllare i guizzi del suo animo quando Shinichi le dava spago? Quando la cercava, le sorrideva, le faceva battutine maliziose, e persino la sfiorava con mani che, lei se ne accorgeva, fremevano per il desiderio di toccarla meglio, e più a fondo?
 
“Sono indeciso.”
Fu Ran a ridere, dipingendo la faccia del ragazzo in una smorfia interrogativa.
“Cosa c’è?”
“Non lo so, ma mi fa ridere.”
“Che cosa?”
“Il fatto che tu sia qui, con me, seduto a questo tavolo. E che io possa vedere il grande detective Kudo sorseggiare qualcosa.”
“Addirittura…”
“Ti ho offeso?”
“No, ma credo proprio che tu abbia visto il grande detective Kudo fare ben altro.” Si morse un labbro, e lei arrossì di nuovo.
“Posso essere sincero, signorina Ran?”
“Mi dica, signor Kudo.”
“Prendo quello che vuole, se lei mi assicura che così riuscirò a sedurla.”
La giovane strabuzzò gli occhi e il ragazzo, sorpreso dalla reazione intimidita, tacque di colpo.
“Sto scherzando.” Aggiunse repentino, un lieve rossore che compariva anche sul suo volto.
Ad ogni modo, al cameriere, Shinichi ordinò due spremute.
“Non mangi nulla?” le chiese poi “Sei a dieta?”
Lei rise, senza smentire. Sperò che il suo intuito da detective non gli rendesse chiaro il disagio che le avrebbe procurato mangiare di fronte a lui.
 
“Ran! Ma stai scherzando? Mi prendi in giro!” Sonoko interruppe il racconto, battendo entrambe le mani sul tavolo.
“Che dici?” avvampò, trasalendo.
“Che cosa significa questo?”
“Quando…quando mastichi, la faccia si deforma…” balbettò, gli occhi ridotti a due puntini.
“Questo Kudo ti piace troppo, Ran.” Decretò “Ti fa pensare delle gran stupidaggini!”, ma la giovane subito rispose:
“Non chiamarlo per cognome. Suona così formale…”
Il cameriere tornò al loro tavolo, e portò due granite alla fragola. La castana sorrise, mentre la biondina la schernì civettuola: “Prendiamo delle patatine o ti vergogni che ti si deformi la faccia?”
 
“Ti dispiace se io prendo qualcosa? Approfitto per cenare, in casa non ho niente di pronto.”
“Non sai cucinare?”
“Mi insegneresti tu?”
“Ho l’impressione che butteremmo il nostro tempo.”
“Hai ragione, ci sono modi migliori per impiegarlo.”
“Ad esempio?”
“Vieni una sera a cucinare per me, a casa mia, e te ne mostro uno…”
Ran trovò la visione di Shinichi che mangiava assolutamente tenera. La maniera che lui assumeva le moltiplicava silenziosamente l’entusiasmo, perché aveva l’impressione che si comportasse naturalmente, mostrandosi a lei per com’era davvero e non per l’immagine che avrebbe voluto dare di sé – era già successo, ma, sempre di più, le parve che pian piano si stesse lasciando conoscere, e lei lo reputava delizioso.
Si rese conto di starlo ad osservare con troppo coinvolgimento mentre, addentando delle verdure condite, le parlava di sua madre e del suo passato da attrice famosa – di come, quando era più piccolo, si divertiva a vederla camuffarsi nei travestimenti più buffi e la faceva arrabbiare, domandandole: “Perché tanta fatica? Sono anni che non calchi le scene, non ti riconoscerà più nessuno neppure se mostri chiaramente la tua identità.”
Rideva sinceramente ai suoi aneddoti, poggiava il mento sul dorso della mano e stava ad ascoltarlo parlare con espressione sognante, grata di ogni dettaglio privato che lui si fidava di raccontarle, e non ce n’era uno che smentisse l’idea meravigliosa che nutriva di lui. Lo guardava abbassare lo sguardo sul piatto e accompagnare le sue parole con ampi gesti delle posate, e sentiva le sue emozioni divampare.
Venne il momento in cui Shinichi le chiese di lei, di suo padre e di sua madre, e contro ogni previsione pessimistica, Ran non provò alcun imbarazzo a parlargli apertamente di lei, ma non seppe fissarlo negli occhi: conversava puntando gli occhi su un cameriere, su un cliente, su una colonna al lato della sala. Solo di tanto in tanto, sentiva forte l’esigenza di scrutarlo, non resisteva, e lanciava un’occhiata al suo viso, scoprendolo interessato al volto di lei. Se ne compiaceva, esitava qualche momento dello sguardo del ragazzo puntato su di lei – e del modo in cui quello sguardo la leggeva – e di nuovo ruotava il corpo, interessandosi delle sue mani intrecciate sul tavolo.
C’era stato un momento, addirittura, in cui le era sembrato di averlo colto in flagrante:
“Quel giorno mia madre non aveva fatto che cucinare, tutto il tempo passato sui fornelli. E mio padre, a cena, lo sai cosa le disse? ‘Ma Eri, questa robaccia è disgustosa! Come ti viene in mente di servirmela?’[4] Naturale che dopo anni e anni così, mia madre adesso sia furiosa! Non trovi?” e gli aveva puntato lo sguardo addosso: lo aveva scoperto fissarla con gli stessi occhi con cui lei fissava lui, ed infatti non aveva saputo aggiungere nient’altro che un: “Naturale, naturale” trasognato, le spalle sbilanciate verso di lei, il peso del corpo totalmente concentrato sui gomiti poggiati sul tavolo, i muscoli ben evidenti dalla giacca tirata che tale posizione stringeva attorno alle braccia.
Quell’immagine le piacque tanto che, nei giorni a venire, le sarebbe tornata alla mente innumerevoli volte, e sempre accompagnata dallo stesso commento sussurrato a fior di labbra: “Che stupido…”
Avrebbe voluto zittirsi sul momento e toccargli le spalle, il petto: accarezzarlo risalendo dalle spalle, scompigliargli i capelli e baciarlo.
Parlarono a lungo, complici, divertiti, sereni.
Quella sera si stava creando un’atmosfera che Ran avrebbe ricordato, felice, per tantissimo tempo, e che sarebbe valsa a consolarla da qualsiasi tristezza: qualcosa di magico.
Tuttavia, una improvvisa telefonata aveva interrotto la loro serata.
“Non preoccuparti, dimmi pure.” Aveva risposto, affabile, e la gelosia di Ran era tornata ad essere particolarmente ricettiva.
“Quando?” il tono s’era fatto serio, e aveva ruotato il braccio per guardare il suo orologio da polso.
“Un’ora? Ehm…” aveva titubato per qualche secondo, poi aveva ceduto. E Ran si era intristita di colpo. “Va bene, a tra poco.”
Chiudendo la chiamata, le aveva sorriso. “Ti chiedo scusa, Ran. Ma…”
“Immagino che bisognerà chiedere il conto.” Lo precedette, cercando di dissimulare il disappunto.
“Non ho fatto in tempo a chiedere il dessert.”
“Hai mangiato a sufficienza, non avevi bisogno del dessert.”
“Non lo avrei ordinato mica per fame…” alluse, facendo cenno al cameriere.
“E allora perché?”
“Per fartelo assaggiare con la mia forchetta.”
L’inserviente presentò il conto e Ran fece per aprire il borsone, ma Shinichi le vibrò un lieve calcio sotto il tavolo. Pagò per entrambi e si alzò, aggiustandosi leggermente i bordi della camicia.
“Quando ti ho chiesto di venire qui, non ho preso proprio in considerazione la possibilità che pagassi tu.”
“Un gesto molto carino.” Gli concesse, recuperando il cappotto. Il rossore che le imporporava le guance aumentò quando lo sentì parlare alle sue spalle.
“Lascia…” le si era avvicinato, e l’aiutò a vestire entrambe le maniche. Poi le sostenne la cinghia del borsone finché non l’ebbe messo a tracolla.
“Avresti accettato?”
“Che cosa?”
Le liberò i capelli dal collo del giacchetto, cosicché le ricadessero lungo la schiena, ribelli.
“Di assaggiare il mio dolce.”
“Dipende. Che dolce avresti preso?”
“Oh, dunque non avresti detto di sì a prescindere!” si finse offeso, e lei ridacchiò.
 
“Secondo te era un appuntamento?” tentennò, arricciando il naso.
“Certo che era un appuntamento!” la rimbeccò, entusiasta quanto e forse più di lei.
“Ma scusa, Ran, ricapitoliamo: ti ha portata in un pub, di sera. Si è messo a fare il cretino, a sfiorarti le mani, a fare battute maliziose, Leggi dal mio menù bla bla. E hai ancora dubbi? Non capisci che si sta comportando come il più banale degli uomini quando ci provano con una ragazza?”
Scrollò le spalle, senza rispondere. La mente rievocò la conversazione avuta a fine serata, ma si guardò ben dal raccontarla all’amica. Tacque ogni altra cosa, come aveva taciuto gli eventi della notte della sparatoria.
 
La accompagnò a casa, e Ran gioì ogni volta che, con una scusa (“Se non la smetti di dire stupidaggini che non si addicono a una signorina, ti darò uno spintone ancora più forte di questo”) lui non esitò, audacemente, a sfiorarle le gambe o le braccia. Camminare al suo fianco, nell’oscurità della sera inoltrata: qualcosa che sperò ardentemente capitasse ancora.
Non voleva rovinare quella serata, ma sapeva che, rincasata, un dubbio le avrebbe contaminato il ricordo, altrimenti splendido, delle ore appena trascorse ed era desiderosa di godersi solo il fervore di un’emozione rivissuta a posteriori. Perciò, allorché i due ragazzi ebbero raggiunto l’agenzia investigativa –le luci erano spente, suo padre dormiva tranquillo credendola al cinema con Sonoko-, Ran sospirò e, contraendo i muscoli delle mani nelle tasche del cappotto, domandò:
“Era Hidemi al telefono?”
Shinichi aggrottò le sopracciglia, sorpreso. Aveva creduto che quell’argomento fosse stato esaurito con le allusioni del pomeriggio.
“Ti vedi con lei adesso?” poi, quasi pentita –non era più tanto sicura di voler conoscere la risposta- aggiunse: “Non sei costretto a dirmelo, ma…”
“Hidemi è la mia informatrice, te l’ho già detto e non mentivo.” Prese la parola, muovendo qualche passo verso la karateka. Si fermò a poca distanza da lei, e proseguì: “Mi mette al corrente di alcuni movimenti che, per un’indagine che sto seguendo, sono vitali. Viene a casa mia perché è più sicuro, se nessuno la vede entrare oppure uscire. Ed infatti, per una volta che ci siamo incontrati in un parco, nonostante tutte le misure adottate, siamo finiti sul giornale. È una fortuna che la foto la ritraesse di spalle, se qualcuno l’avesse riconosciuta l’indagine sarebbe stata compromessa irrimediabilmente, e probabilmente la stessa Hidemi avrebbe corso un grosso pericolo.”
Aveva parlato tutto d’un fiato, serio, e la ragazza non aveva potuto fare a meno di prestar fede a ogni parola proferita.
Sebbene fosse consapevole di non doverle tanti dettagli, e che anzi probabilmente non avrebbe dovuto essere tanto didascalico, Shinichi volle fugare qualunque potenziale dubbio e, arrendendosi definitivamente a quel lato così sentimentale che nei giorni continuava a farsi largo nel suo ostentato snobismo, aggiunse:
“Mi vedo con Shuichi Akai. Ricordi chi è?”
La ragazza annuì, e lui le sorrise di rimando. “Nessuna amante segreta.”
Quest’ultima affermazione però gli suonò troppo sentimentale, e provò imbarazzo, quindi mutò tono di voce, facendosi nuovamente serio.
“Non…non devi dire a nessuno quello che ti ho raccontato. È estremamente importante che nessuno sappia nulla, perciò, per favore, non farne parola con nessuno.”
Ran lo vide abbassare lo sguardo, e fraintese la vergogna con il disappunto; pertanto, pur sollevata dalla notizia, si sentì in colpa per avergli lanciato una velata accusa –Ti vedi con un’altra donna un’ora dopo essere uscito con me?- e cercò un modo per alleggerire la tensione.
“Quindi…che dolce avresti preso?”
Il ragazzo batté ripetutamente le palpebre, meravigliato.
“Se Shuichi Akai non ti avesse telefonato. Cos’avresti preso? A me piace il soufflé.”
“Non avrei mai preso il soufflé. Sorbetto soltanto.”
“Allora niente assaggio. Ti piace il sorbetto?”
“No, ma ti avrebbe fatto una buonissima impressione, quando ne avresti sentito il retrogusto in bocca.”
“Ti ho appena detto che non lo avrei assaggiato, non avrei sentito nessun retrogusto.”
“Lo avresti sentito quando ti avrei baciato.”
Quel sorrisetto malizioso gli tornò a guizzare sulle labbra, e la ammutolì. Non disse nulla neppure quando, poco dopo, il giovane le aggiustò un bottone del cappotto che si era slacciato dall’alamaro. La mano risalì sino ad accarezzarle la guancia: il cuore di Ran prese a battere ferocemente, e sperò che il ragazzo traesse a sé il volto perché le labbra si incontrassero ancora.
Attese, ma Shinichi non faceva altro che scrutarle la bocca, immobile, la mano calda ancora sulla guancia. Con uno slancio che non credeva d’avere, esattamente come la notte della sparatoria, Ran si protese verso di lui e gli sfiorò le labbra, con rapidità, per poi allontanarsi timidamente. Ma lui la trattenne arrestando il movimento della nuca di lei con le dita, e stavolta la trasse effettivamente a sé, ma non le baciò le labbra. Le posò un bacio delicato sulla guancia libera. Ran chiuse gli occhi e lo sentì seminare una lieve scia di baci, dallo zigomo all’angolo della bocca: lì si fermò, insistendo su quel punto con particolare sapienza.
Lei si sollevò sulle punte, stringendogli un braccio intorno alle spalle perché quei baci fossero più intensi. Percepì allora sulla sua pelle il sorriso di Shinichi, e poi lo sentì sussurrare:
“Che c’è? Vuoi che ti baci davvero, signorina Ran?”
“Sei solo un arrogante…”
“Sta’ zitta…”
“Imbecillotto…” gli fece il verso, e la presa sulla sua nuca aumentò: il detective le stava piegando la testa di lato.
“Zitta…”
“So-tutto-io…”
“T’ho detto di stare zitta...” sussurrò, prima di posarle un bacio nell’incavo del collo.
Con voce esile per l’eccitazione, lei insistette:
“Fanatico di misteri…”
Continuò a baciarle il collo a fior di labbra, ma ad ogni parola che la ragazza aggiungeva il tocco di lui si accentuava, più pressato e più umido.
Ran si strinse con maggior forza al corpo dell’investigatore che, a sua volta, la afferrò per un fianco portandola a contatto con la sua pancia. Le inferse un morso lieve e lei sussultò; dal fianco, la mano s’infilò dietro la schiena e scese, arrestandosi poco sopra il sedere.
“Sto per comportarmi in maniera davvero poco galante…” le soffiò sul collo, facendola sorridere.
“Non sei più galante da un pezzo.”
“Ma tu mi hai dato dell’arrogante so-tutto-io.”
“Dimentichi imbecillotto fanatico di misteri…”
La mano scese ulteriormente, tirando a sé la ragazza per le cosce: lei finse di resistere, facendo ostacolo con le mani sulle sue spalle.
“Ti ritrai?”
“Non dovrei?”
“Vuoi che ti baci davvero, oppure no?”
“No.”
Shinichi sorrise, divertito. Esitò per un breve istante, poi allentò la presa.
“D’accordo…”
 
Erano trascorsi due giorni, e ancora Ran non aveva deciso se quella reazione fosse stata un bene o un male.
 
§§§
 
Le nove e quarantacinque. Il grande orologio a pendolo del luna-park batteva dodici tocchi.
Due riflessi intermittenti, dalla sfumatura vermiglia, lampavano dal tetto di un edificio per la manutenzione dei giochi a ridosso dell’otto volante. Mescolandosi tra la folla in fila per i biglietti della casa degli orrori, Shinichi Kudo aveva immediatamente cercato il punto più alto nei pressi del luna-park, immaginando sarebbe stato il luogo più adatto per un appostamento; una volta localizzato, aveva subito visto quegli scintillii ripetersi con regolarità ogni dieci secondi: erano fucili, il cui riflesso si colorava di rosso per contrasto con le luci artificiali che l’oscurità di quella notte faceva risaltare più del solito.
- Chianti e Korn, i cecchini dell’Organizzazione. -
Sorpassando con nonchalance le transenne delle montagne russe, s’appoggiò con la spalla a un muretto di mattoni chiari, calando le mani nelle tasche dei jeans.
- Gli stessi che hanno sparato addosso a me, Ran e Kogoro qualche giorno fa…-
Calcolando la traiettoria dei fucili, Shinichi poteva facilmente circoscrivere la probabile area d’azione degli altri Mib presenti quella notte al Tropical Land.
 
“Il Tropical Land? Perché s’incontreranno lì?” mentre l’amico gli esponeva i fatti, non aveva saputo tacere; s’era sorpreso, a sentir pronunciare il nome di un luogo tanto farsesco per un’operazione del genere.
“Credo che quei corvi abbiano un concetto molto deviato del famoso ‘Nascondi una foglia nel bosco’. Un luna-park è l’ultimo posto dove la polizia andrebbe a cercare movimenti sospetti, e dove chiunque altro potrebbe insospettirsi.”
“Hai ragione. Inoltre, quel parco divertimenti è stato aperto da poco tempo ed è sempre gremito di persone. In una confusione tale, nessuno noterà lo scambio.”
Fece una breve pausa prima di riprendere la parola:
“Hai già capito cosa sto per chiederti, non è così?” Alzando lo sguardo per incontrare quello sicuro di Shinichi Kudo, lui non ebbe bisogno di una risposta.
“Ho l’impressione che ciò che stai pensando e tu ciò che penso io coincida, Akai-san.” [5]
 
Ed infatti, alzò lo sguardo e vide un uomo calvo e tarchiato totalmente vestito di nero. Sorrise tra sé e sé, soddisfatto per la deduzione corretta che gli aveva immediatamente permesso di scovare la foglia nel bosco, e si scostò dal muro pronto a seguirlo; tuttavia, l’uomo sembrava attendere qualcuno, e allora il ragazzo, che oramai s’era mosso e non poteva assumere di nuovo la medesima posizione, si mescolò alla gente accalcata davanti lo stand dello zucchero filato, scrutando con attenzione quel tizio sospetto.
Si possono capire molte cose semplicemente osservando la persona che si ha davanti. La deduzione, mio buon Watson, è un’arte.[6]
L’uomo era basso e decisamente robusto, il tessuto del completo nero di buona fattura e il colletto della camicia perfettamente stirato. Dunque un uomo ricco, sposato - o pronto a pagare una governante che attendesse al suo bucato, la fede non l’aveva, dopotutto. Un orecchino di forma circolare, tuttavia, tradiva un passato da anticonformista, tratto di cui il detective ebbe la conferma quando fece calare lo sguardo sulla mano destra, parzialmente occupata da una scritta inglese tatuata sulle nocche delle dita. Tiger.
Shinichi aveva letto tutte le schede delle persone coinvolte in quell’affare, perciò non ebbe dubbi sull’identità del sospettato: Oki Rurushi [7].
L’investigatore sorpassò un paio di bambini in coda, per cambiare posto e osservare l’uomo da un’altra angolazione: la sua attenzione si fermò alla ventiquattrore che teneva tra le mani, attento che non subisse nessun urto inferto casualmente dai passanti.
- Quelli debbono essere i soldi… -
Continuando a camminare per fingere disinteresse, alzò lo sguardo ed ebbe la certezza che Chianti e Korn stessero puntando quell’uomo. Per un momento sentì l’impulso di gettarsi su di lui e salvarlo dagli spari
L’impulsività è nemica della facoltà logiche. [8]
…ma capì la situazione in tempo per fermarsi:
- Se avessero voluto ucciderlo subito, gli avrebbero dato appuntamento in un luogo più appartato. Non spareranno nel mezzo della folla, attirerebbero troppo l’attenzione, specie dopo il polverone dell’altra notte. I cecchini sono qui per precauzione, c’è qualcun altro che ha il compito di occuparsi di lui…-
Girò intorno ad un cestino dell’immondizia e si sedette su una panchina colorata, poggiando i gomiti sulle ginocchia.
– Dunque, ragioniamo. Ci sono Korn, Chianti… -
Ma a interrompere il procedimento deduttivo, la verità dei fatti: l’intuizione del detective venne confermata dall’apparizione repentina di un altro uomo alle spalle di Rurushi.
-… ed ecco Vodka. –
Dopo aver sillabato qualche parola che Shinichi non riuscì a comprendere, i due scomparvero nel vicolo tra due negozi dalle saracinesche abbassate. Scattò in piedi per seguirli, ma urtò con la spalla qualcuno che dietro di lui era piegato sulla panchina.
“Mi scusi…” s’affrettò a dire senza neppure voltarsi, lo sguardo fisso su Vodka per non perderlo.
“Ehi…” sentì una voce femminile lamentarsi, ma non prese in considerazione per un solo istante la possibilità di voltarsi e porgere delle scuse più appropriate. Probabilmente, non l’aveva neppure udita parlare.
Notare tutto senza distrarsi neppure un minuto. La totalità, caro Watson, è l’orizzonte di un investigatore. Il compenso è la tua vita.
Corse in direzione di quel vicolo, percorrendolo con circospezione e guardandosi intorno: i negozi ai lati del viottolo erano chiusi per inventario, oltre gli edifici si apriva uno spiazzo senza pavimentazione e piuttosto trascurato, intorno solo erbaccia e qualche cassetta di legno vuota abbandonata a terra. Arrestò il passo all’angolo dell’ultimo edificio, celando la sua presenza dagli altri due: si trovavano alle spalle della ruota panoramica, davanti a un grande blocco di cemento che in passato forse aveva costituito una delle basi dell’attrazione.
Shinichi sporse la testa oltre il muro, calando la mano nella tasca del cappotto verde che aveva indossato.
“Scusi il ritardo…” esordì Vodka, ironico. Appoggiò una mano contro il blocco di cemento, e si godette lo spettacolo di quell’uomo terrorizzato “…signor Rurushi Oki.”
“Ho…ho rispettato gli accordi, sono solo!” Disse Rurushi, la valigetta stretta in grembo.
“Certo, lo sappiamo…Abbiamo controllato dall’otto volante.” Gli si avvicinò.
“Presto, la roba!”
“Calma, amico. Prima i soldi…”
“Ecco: questi penso bastino!”
Aprì con uno scatto la ventiquattrore, al cui interno –come previsto- erano ordinate le serie di banconote; contemporaneamente, Shinichi sporse il braccio oltre il muro reggendo nella mano la piccola fotocamera che aveva appena estratto dalla tasca del soprabito verde.
- Wow…sono almeno cento milioni di yen…-
“Bene, affare fatto.” Sancì Vodka, afferrando malamente la valigetta e senza neppure accennare a contare le banconote.
“Presto allora, la registrazione…!”
– Registrazione? –
“Ecco a te…” Vodka estrasse una piccolissima chiavetta usb dalla tasca della giacca e gliela lanciò. Rurushi l’afferrò con un sussulto: Shinichi distinse chiaramente del sudore a imperlargli la faccia.
“La registrazione della conversazione avuta con noi l’altro giorno. La tua collaborazione, da questo momento, non ci serve più.”
“E che mi dici delle altre cose che provano che io…”
“Tutto cancellato. Adesso puoi tornare ai tuoi incontri clandestini di boxe.”
Shinichi continuò a scattare foto, l’orecchio teso a captare qualunque indizio su cui ragionare.
“Con tutti i soldi che mi avete chiesto per non fregarmi, la cifra che mi avevate dato ve l’ho restituita tutta, anzi vi ho pagato persino di più!! Praticamente ho svolto quell’incarico gratuitamente, e adesso sono di nuovo coi debiti fino al collo. Che c’ho guadagnato?”
Rurushi aveva paura, però si lamentava; piagnucolava sudando, pretendeva di persuaderli con la contrattualità.
“La vita, ecco cosa. Il crimine si paga, amico. Se non volevi avere debiti, non dovevi scommettere su quei tuoi ridicoli pugni, che non ti fanno più vincere nemmeno un incontro.” Vodka era superiore, divertito, minaccioso: un connubio di atteggiamenti si susseguivano senza ordine, Shinichi capì che non poteva essere di certo lui l’uomo di comando dell’Organizzazione.
Che niente sia mai lasciato al caso, Watson. La vera abilità risiede nella capacità di previsione.
“Dammi retta, da oggi scommetti sulla tua sconfitta. Ti spaccheranno il muso sul ring, ma almeno non ti sgozzeranno per avere i soldi che non riesci a procurarti.”
Si perdeva in troppe chiacchiere, era un imbecille. Strano che l’avessero mandato solo…
“Rispetto a quel che fa la vostra organizzazione, quello che faccio io…”
“Ti consiglio di tacere.”
Uno scricchiolio alle sue spalle.
Era talmente preso dalla conversazione tra quei due, animato dalla preoccupazione di comprendere il prima possibile ciò di cui stavano parlando e collocare quell’avvenimento in un quadro più generale, che non si sarebbe neppure voltato se quel rumore quasi impercettibile non fosse stato accompagnato da una frase, pronunciata quando l’imprecazione di Rurushi terminava: “Sei uno sciacallo!”
“Adesso hai finito…-
Una voce roca e gutturale. Shinichi sussultò voltandosi di scatto, dimentico di ogni mossa di karate o di jeet kune do che Ran e Shuichi gli avevano pazientemente insegnato. Sentì il cuore risalire sino alla gola ancor prima di capire a chi appartenesse quella voce, simile a un’epifania puramente percettiva giacché l’uomo dietro di lui, totalmente vestito di nero e abile nei movimenti, si mimetizzava con l’oscurità della notte.
Non lo aveva sentito arrivare.
Un fruscio lo portò ad alzare gli occhi, ma poté distinguere a malapena un oggetto sollevato oltre la sua testa. Fece per muoversi e prendere le distanze dall’ombra che, vicinissima, lo minacciava; ma non riuscì neppure ad accennare un gesto, perché uno strano bagliore attirò la sua attenzione, facendogli muovere gli occhi prima dei muscoli: i capelli, d’un candore spettrale, erano l’unica parte del corpo a distinguersi da quella informe massa di nero.
Mentre udiva chiaramente il rumore prodotto dall’oggetto indistinto sferzare l’aria, segno che stava per calargli sulla testa, fece a malapena in tempo a scrutare gli occhi di quell’uomo, glaciali come quelli di un androide.
- Che sguardo inquietante…Lo sguardo di uno spietato assassino…Quest’uomo è… -
Gin vibrò il colpo con potenza calcolata: la spranga di ferro che aveva raccolto tra i detriti di quel pratone atterrò sulla testa del giovane detective, scaraventandolo a terra con la faccia rivolta sull’erba.
-…di giocare al detective.”
 
§§§
 
Le nove e quarantacinque. Il grande orologio a pendolo del luna-park batteva dodici tocchi.
“Chiamalo!” squittì Sonoko, ammiccandole.
“Che cosa?”
Le due amiche avevano terminato le granite e si erano messe in fila per pagare la loro consumazione.
“Dai! Chiamalo. Fallo venire qui! Voglio vedervi tubare!” cinguettò pettegola, facendo avvampare la ragazza per l’ennesima volta.
“Non avrei dovuto raccontarti niente.” Le fece la linguaccia, mentre quel cameriere di poco prima passava loro di fianco per pulire i tavoli. Urtò leggermente il braccio della giovane ereditiera, così gli spicci che teneva nella mano tintinnarono a terra.
“Mi dispiace, la aiuto subito!” si offrì, ma loro declinarono. Dopo averli pazientemente raccolti, si misero a contarli poggiandosi su una panchina poco distante dal chiosco.
“Ran, posso farti una domanda?” esordì d’un tratto, e il suo tono non piacque affatto alla giovane karateka.
“Sì…” rispose comunque, mordendosi un labbro.
“Fino a che punto ti spingeresti con lui?”
 
Sospirò ancora rumorosamente, mandandogli il sangue al cervello: afferrò i bordi della canottiera, e la lasciò nuda.
Ran rimase ferma, in imbarazzo, con la fronte appoggiata ancora sulla sua; Shinichi la scrutò completamente, facendo scorrere le mani di nuovo sulle sue gambe, perché si sedesse sul suo grembo più comoda. Risalì poi con gli occhi sul viso di lei, scoprendolo imporporato dall’imbarazzo.
“Mi vuoi, Ran?” si assicurò in ultimo barlume di lucidità.
“Sì.” Rispose in un bassissimo sussurro, arrossendo ancora di più.
 
“Che-che dici?”
“Hai capito benissimo, furbetta. Se lui volesse…- non portò a termine la frase, perché di nuovo ricevette una spallata e, per la seconda volta, le monetine rotolarono a terra, sparpagliandosi sul marciapiede.
“Ehi…” polemizzò, voltandosi indietro.
Ran e Sonoko strabuzzarono gli occhi quando si trovarono davanti il protagonista della loro conversazione: Shinichi Kudo troneggiava a pochi passi da loro, dei jeans scuri e un cappotto verde con il cappuccio blu.
Immediatamente, il sangue le infiammò le gote. Da quanto tempo era dietro di loro, cosa le aveva sentire dire?
“Mi scusi…” rispose lui, senza neppure indirizzare lo sguardo nella loro direzione. Allora fu chiaro e entrambe che il detective privato non le aveva viste, tanto era preso ad osservare qualcosa oltre la calca di quella sera.
Di nuovo, la gelosia divampò nell’animo della ragazza, arrotolandole lo stomaco dal risentimento.
- Deve incontrare anche qui Shuichi Akai? – ironizzò, polemica. Il timore che potesse avere appuntamento con una donna si dileguò quando l’attenzione venne attirata dallo sguardo di lui: era proiettato verso un obiettivo preciso, e irrigidiva il viso in un’espressione di tesa concentrazione.
– Segue qualcuno. -
Sonoko cercò di chiamarlo ancora, ma il ragazzo si allontanò rapidamente dopo aver lanciato uno sguardo verso l’alto.
“Shinichi!” lo chiamò allora Ran, muovendosi verso di lui. Cercò di afferrarlo per la manica del cappotto ma non fu rapida abbastanza: il laccio della scarpa da ginnastica che calzava si ruppe per intero, facendola inciampare.
- Cattivo segno... –
Lo osservò correre via, e le sembrò di poter persino distinguere il rumore dei suoi passi da quello di tutti gli altri presenti.
Ebbe un bruttissimo presentimento, e si voltò per parlare con Sonoko.
 
 
§§§
 
Rurushi cessò fulmineo ogni tentativo di trattiva e corse via, la chiavetta usb ben stretta nel palmo della mano. Vodka non lo vide scappare, guardingo di fronte al corpo inerte del ragazzo.
“Ti sei fatto seguire.” lo ammonì Gin, lapidario, scatenando nell’altro un tremore impercettibile.
“Lo-lo facciamo fuori?” cercò di rimediare all’errore commesso, pronto a risolverlo in prima persona: estrasse la pistola dalla giacca, e tolse la sicura tirando indietro il grilletto.
“Non con la pistola.” Lo bloccò il biondo, chinandosi sulle ginocchia vicino la bocca del ragazzo.
Shinichi era disteso a terra, a pancia in giù: nella caduta, aveva battuto il volto contro il terriccio, ferendosi lo zigomo e graffiandosi una tempia. Il colpo sulla testa era stato tanto violento da aprirgli una ferita, e il sangue oramai macchiava l’erba. Nonostante il dolore penetrante gli scuotesse il corpo, era ancora cosciente: pur con fatica, teneva gli occhi aperti, nondimeno ogni forza era esalata via e gli era impossibile anche solo deglutire.
“È meglio questa. È la nuova sostanza che l’Organizzazione ha creato: nel cadavere non lascia tracce, consente il delitto perfetto.” Estrasse un portasigarette in metallo e, aprendolo, ne tirò fuori una pillola per metà bianca e per metà rossa.
“Un ultimo omaggio alla nostra piccola Sherry.”
Afferrò l’investigatore per i capelli, sollevandolo con forza da terra. Lui gemette, una serie di fitte che dalla nuca si ripercuotevano lancinanti sulla colonna vertebrale. Allora chiuse gli occhi, cercando di resistere alle scosse di dolore propagate simultaneamente. Grazie a un estremo guizzo di energie, afferrò la giacca di Gin con una stretta notevole per le condizioni in cui versava; l’uomo credette che il giovane volesse opporre resistenza, così, ghignando, gli ficcò la pasticca nella bocca forzandogli la testa indietro mentre serrava crudelmente la presa sulla frangia.
 “Però, sugli umani non è stata ancora provata…”
Diede un ultimo tiro ai capelli, allargando ulteriormente la ferita che la spranga aveva aperto. Solo quando sentì il giovane abbandonare la stretta sulla giacca, aprì la mano: il capo di lui precipitò a terra, urtando ancora una volta contro i sassi che gli graffiarono la pelle.
D’un tratto, si rese conto che non l’aveva neppure guardato in faccia. Chi diavolo era quel tipo?
Allungò nuovamente la mano per sollevargli la testa e voltarlo, ma Vodka, taciturno fino ad allora, riprese la parola: “Sento dei passi, meglio andare!”
Era vero: qualcuno stava correndo verso di loro, e presto sarebbe sbucato dal viottolo buio: il suono delle scarpe che urtavano il terreno si faceva sempre più vicino, perfettamente udibile.
“Sì…- il biondo si risollevò, tornando in piedi. Lanciò un ultimo sguardo alla schiena del ragazzo, e lo vide stringere convulsamente l’erba tra le dita. Comprese che la pillola stava facendo effetto e che presto sarebbe morto: il suo volto era inutile ed anonimo, come quelli di mille altri imbecilli.
Pertanto, rinunciò a scoprirne l’identità; in fin dei conti, non gliene importava affatto. Si calcò meglio il cappello sulla testa e seguì Vodka, oltre il muro divisorio che dava sulla strada.
Gin svanì sotto il suo cappotto come un corvo si contrae al riparo delle ali.
- Addio, super-detective.”
 
§§§
 
Aprì con fatica un occhio, ma un dolore terribile gli squassò le tempie; allora lo richiuse immediatamente, sospirando.
Aveva sentito anche lui quei passi, e continuava a udirli sempre più vicini.
Doveva alzarsi e dileguarsi il prima possibile, non aveva tempo. Con un grande sospiro tentò di issarsi sul busto, ma si ritrovò a strappare l’erba del terriccio che pochi istanti prima aveva afferrato per resistere alle scariche di dolore.
– Eh eh…in che squallida prestazione mi sono esibito, stasera…-
Due ginocchia gli si affiancarono e una mano gli si posò sulla schiena.
 – Mi sa che sono morto… -
Attese, senza forze, di sentire la canna di una pistola a contatto con la nuca.
Al contrario, due dita tremanti gli circondarono il polso, probabilmente per verificare il suo battito cardiaco. Poi, una voce lo sorprese a tal punto da pensare d’essere in pieno stato di shock post traumatico.
“Shinichi?”
Sospirò ancora, scaricando la tensione accumulata.
– Devo essere davvero in gravi condizioni… -
“Shinichi, riesci a sentirmi? Shinichi!”
– Oramai sento la tua voce dappertutto…-
“Mi senti? Svegliati, avanti! Apri gli occhi!”
– Ran… -
“Shinichi!”
Aprì piano un occhio, e notò che le fitte alla testa si erano placate. Vide davanti a lui due gambe nude, inginocchiate: solo le cosce erano fasciate da dei calzoncini grigi.
“Shinichi!”
Una mano gli si posò sulla fronte, perciò provò a sollevare lo sguardo. Ma ecco di nuovo quelle fitte insopportabili che gli fecero strizzare le palpebre.
“No, no! Cerca di non dormire, Shinichi. Resta con me, coraggio!”
Aprì ancora una volta gli occhi, e si ritrovò davanti il viso della ragazza, che s’era accovacciata perché lui potesse vederla.
“Bravo, Shinichi, così. Riesci a sentirmi?”
Una goccia d’acqua gli cadde sul naso, solleticandolo. Era una lacrima: la ragazza stava piangendo.
Chiuse gli occhi ancora, per raccogliere le forze che stava richiamando con tenacia stoica, e finalmente riuscì a far scivolare le braccia sino a che le mani non furono all’altezza delle spalle. Contò fino a tre e si issò sui gomiti, soffocando un gemito di dolore.
“Non alzarti! Hai una ferita sulla testa, dovresti rimanere immobile…”
“Non ho…mai…perso conoscenza…” riuscì a sillabare, dopo essersi schiarito la voce un paio di volte.
“Ma parli a fatica…”
Shinichi si sistemò carponi, le ginocchia e i palmi delle mani a sollevarlo dal terreno.
Ran gli teneva una mano sulla schiena, e, ancora china, gli scrutò il volto: nonostante il buio della zona che a malapena era raggiunta dalle luci del luna-park, distinse i graffi che si era procurato battendo la faccia contro i sassolini e il terriccio. Lo vide muovere la mascella verso destra, e pensò che non riuscisse a parlare –o che il trauma avesse coinvolto anche i denti. Invece, il ragazzo sputò fuori dalla bocca una pillola bianca e rossa, con un gesto di stizza che lei non riuscì a cogliere fino in fondo.
“Per non deglutire questa…” le spiegò poi, il respiro ancora un po’ affannato.
“Che cos’è?”
“Non toccarla!” la ammonì. “È un veleno.”
“Un-un veleno?”
Riuscì a sedersi sul terreno, poggiando una mano sul ginocchio di lei.
Si portò una mano alla testa, ridacchiando:
“Pare che io sia ancora vivo…”
“Non dirlo neanche!” singhiozzò lei, che gli aveva afferrato il polso, pronta a sorreggerlo.
Gli teneva ancora una mano sulla schiena, e solo allora Shinichi recuperò la padronanza della situazione, tornando a vestire i panni dell’investigatore.
“Che cosa fai qui, Ran?”
“Ero con Sonoko. Ti ho visto passare…”
“Perché mi hai seguito?”
“Perché ho avuto un brutto presentimento.”
“Molto brava, io non l’ho avuto.” Lo vide abbassare lo sguardo, liberandosi la fronte dalla frangia spettinata. Nonostante tutto, il suo tono di voce era ironico.
“Tu sei un pazzo…” lo rimproverò lei, riuscendo a stento a trattenere i singhiozzi che fino ad allora aveva accantonato per dedicare ogni energia al soccorso del ragazzo.
Le sorrise, spavaldo.
“Ti stai finalmente rendendo conto di quanto?”
Ran gli passò le dita sulle labbra, sussurrando: “Ti fa male?”
“No. Mi fa male la test…- ma non poté terminare, perché lei lo baciò.
Lo baciò davvero, aprendogli la bocca con le sue labbra e sfiorandogli subito la lingua.
Shinichi serrò gli occhi, rendendo quel bacio ancora più intenso, quasi aggressivo.
La lasciò senza fiato, costringendola a separarsi da lui quasi subito; ma non appena si fu staccata, lui la prese per i fianchi e la tirò di nuovo a sé, baciandola di nuovo.
“Shinichi…” ansimò, poggiando la fronte sulla sua e guardando da vicino i segni che gli graffiavano il viso.
“Me lo dovevi da due giorni, Ran. Ho dovuto farmi pestare per averlo? Non ti ci abituare.”
Risero entrambi, e lui le passò una mano sulle guance – lentamente, le forze che ancora scemavano a causa del dolore alla testa.
“Perché piangi?”
“Perché ho pensato…che…” la voce le morì nella gola, e gli occhi tornarono a lacrimare.
“Che fossi morto?”
“Sì.”
“Un uomo mi ha colpito in testa.” Ammise, carezzandole una gota. “Non l’ho sentito arrivare.”
“Sei ferito, hai il cappuccio sporco di sangue.”
“Sei stata fortunata, Ran. Lo sai che sulla scena di un crimine il primo sospettato è sempre la persona che trova il corpo?”
“Non sei ancora fuori pericolo. Io vorrei picchiarti in questo momento.”
“Ho sempre immaginato che una karateka amasse divertirsi in modi violenti…” alluse, il sangue che ricominciava a circolare bene nel corpo colorandogli il viso, prima pallido.
“Smettila di fare lo stupido.” Lo ammonì, ma lui continuò: “Vuoi mostrarmene qualcuno?”
“No. Voglio portarti in ospedale.”
“Mi dici sempre di no, è una tattica?”
“Basta, andiamo in ospedale. Sei ferito.”
“Funziona molto bene. Ogni volta che mi dici di no, non sai che voglie che mi vengono…”
“Lo vedi? La botta ti ha compromesso il funzionamento cerebrale, stai dicendo delle stupidaggini.”
Entrambi sentirono che la tensione era scemata e il pericolo era scampato, perciò si abbandonarono a quelle schermaglie che, tra di loro, divenivano sempre più abituali. Nondimeno, l’adrenalina nata dalla paura persisteva, ma si adattava alla rinnovata situazione, trasformandosi in eccitazione – e quel bacio non aveva aiutato a diminuirne gli effetti.
Shinichi la osservò: sotto il maglione a collo alto s’intravedeva una magliettina bianca, e il cappotto azzurro era slacciato ai due lati dei fianchi.
“Vuoi sapere che voglia ho adesso?”
“Ti aiuto ad alzarti. Appoggiati a me.”
“Vorrei vederti come ti ho vista quella notte.
“È la commozione cerebrale a parlare. Stai perdendo tutta la tua rinomata intelligenza.”
Con fatica, il detective s’alzò in piedi, aggrappandosi al braccio di Ran con una mano. Solo allora la ragazza vide che anche la maglietta gialla di lui era macchiata di rosso.
“Ho avuto tanta paura, Shinichi.” Gli confidò, a bassa voce. Lui le poggiò una mano sopra la testa, scompigliandole i capelli.
“Non temere, ne ho viste di peggiori.” Mentì, per tranquillizzarla.
Ma una nuova fitta alla tempia lo tradì subito, e le dita tornarono a tingersi di rosso nel tentativo di alleviare quella pulsazione.
“Devi andare in ospedale…” insistette lei, ma lui scosse la testa.
“No. Non ce n’è bisogno, non è grave. Devo solo medicarmi la ferita e metterci una fasciatura.”
“Ma potrebbe peggiorare!”
Di nuovo, l’investigatore si trovò a fronteggiare l’inconveniente di una ragazzina che lo metteva in difficoltà con riferimenti puntuali; scelse senza esitazione di essere sincero, e parlò:
“Non posso andare in ospedale, Ran. Non bisogna assolutamente attirare l’attenzione in questo momento, e già c’è stato sufficiente polverone mediatico a mettere a rischio l’operazione. La mia aggressione non passerebbe sotto silenzio, e io non posso permettere che le cose vadano male.”
“Allora ti medicherò io. Mio padre sta giocando a mahjong, non tornerà prima dell’alba: vieni a casa mia.”
Il detective annuì, ma, nonostante la fiducia che nutriva in quella impicciona, celò come meglio poté una pistola nella cintura dei jeans.
La calibro ventotto che aveva sottratto a Gin.
 

Note dell’autrice: Ok, ok, ok. Lo so.
Con calma, vi spiego tutto =D
 
Allora: l’appuntamento tra Shinichi e Ran è qualcosa che dovevo scrivere da tanto tempo, ci ho messo davvero poco perché ho riversato tutto quello che avevo sul foglio bianco. Come al solito, spero sia stato corrispondente all’immagine di entrambi.
La presenza di Sonoko mancava da un bel po’, e non volevo escluderla d’un tratto dalla storia dal momento che in questa fic è praticamente la più grande confidente di Ran – non conoscendo Kazuha, non parla dei suoi sentimenti per Shinichi con nessun’altro, per il momento.
 
Ma quel che volete sapere di più è il famoso episodio al Tropical Land, suppongo. Avevate pensato si fosse rimpicciolito, eh?! No, i miei occhi contemplano soltanto uno Shinichi adulto e consapevole. =P Tuttavia, questo episodio meglio di altri mi permette di rivelare finalmente quella struttura portante di cui vi parlavo nei precedenti capitoli, il progetto, insomma, su cui si basa questa fic. Ho pensato sarebbe stato interessante riprendere alcuni momenti particolarmente salienti nella trama di DC, quindi momenti d’autore, per riproporli in un contesto un po’ diverso, nel quadro generale di una What if?. Questo non è il primo che propongo (nei capitoli passati ho fatto cenno al primo incontro, anche se un po’ modificato, tra Ran e Shuichi Akai, e un rapidissimo commento sull’errore di Andre Camel che è costata l’operazione di Shuichi) ma è sicuramente il primo più importante, e più esteso, su cui mi soffermo. Spero non si tratti di una scelta troppo azzardata, o banale, o poco originale, o insensata, o stupida…insomma: spero non si tratti di una cattiva scelta, che vi faccia scadere la mia storia. Ripercorrere questo momento, che è quello d’avvio del manga, è stato per me particolarmente significativo – il primo grande incontro tra Shinichi e Gin.
Spero davvero che la mia trovata possa essere quantomeno decente, e che non vi abbia invece fatto rabbrividire. Sarò contenta se vorrete dirmi che cosa ne pensate: naturalmente, sono accette anche le critiche!
Un bacio grande dalla vostra Cavy :*
 
[1] Nel capitolo primo.
[2] Nel capitolo due.
[3] Nel capitolo sette.
[4] Aneddoto dal quarto film.
[5] È la stessa frase che Conan pronuncia a Shu sul tetto dell’ospedale, durante l’arco del coma di Kir.
[6] Da Uno studio in rosso.
[7] Dal capitolo quattro.
[8] Altro aforisma di Sherlock Holmes.
   
 
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