Anime & Manga > Uta no Prince-sama
Ricorda la storia  |      
Autore: Starishadow    16/12/2017    0 recensioni
[Pre-serie / What if]
Per la prima e ultima volta nella sua vita, Aine aveva scelto di essere egoista.
E Reiji non avrebbe mai trovato la forza di fargliene una colpa.
Genere: Angst, Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Aine Kisaragi, Kei Onpa, Reiji Kotobuki
Note: Otherverse, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


-Egoista.

[e-go-ì-sta] agg., s. (pl.m. -sti)
Che persegue solo il proprio benessere, il proprio vantaggio senza curarsi degli altri



  Dopo il terzo giorno in cui Aine rimase a letto, rifiutandosi di alzarsi per andare a lezione o unirsi agli altri per mangiare, Kei decise che era arrivato il momento di ritenersi in diritto di telefonare allo zio del suo compagno di stanza e richiedere il suo intervento.

  In quei tre giorni, aveva chiesto all’ amico cosa si sentisse, come mai non volesse alzarsi. La prima volta, l’altro aveva dato la colpa semplicemente alla stanchezza, il che era plausibile, dato che la settimana prima non si era concesso nemmeno una pausa per respirare, e Kei non si era preoccupato. Gli aveva detto di restare a riposarsi e che gli avrebbe portato lui i suoi appunti.

  Il secondo giorno, la motivazione era stata già meno convincente: “fuori è troppo freddo per uscire”. Detto da qualcuno abituato a passare le vacanze natalizie nelle regioni più fredde dell’Inghilterra, innamorato della neve e dell’inverno, capace di uscire a ballare sotto la pioggia, rifiutarsi di abbandonare il proprio letto per un po’ di freddo dovuto al malfunzionamento dei termosifoni la sera prima era qualcosa di anomalo.
Kei però non aveva commentato, aveva messo la mano sulla fronte di Aine e aveva riscontrato che no, febbre non ne aveva, l’unico motivo del suo volto un po’ più accaldato del solito era facilmente attribuibile al tempo passato sotto al piumone.«Aine, non è poi così freddo».
«Va bene, va bene… tu comincia ad andare, io ora mi alzo e arrivo fra poco».
Kei gli aveva creduto, ma quando l’altro non si era presentato a lezione la mattina, o a pranzo, o alle lezioni pomeridiane, la sua preoccupazione non aveva fatto che crescere, e quando era tornato a casa - con qualcosa pronta da mangiare perché era sicuro che l’altro avesse di nuovo saltato tutti e tre i pasti - non si sorprese di vederlo esattamente dove l’aveva lasciato quella mattina.
«Ti sei almeno alzato per andare in bagno, o devo uscire a comprarti dei pannoloni?».
La sua voce era suonata fredda e seccata, perché quello era l’unico modo che Kei conosceva per esprimere la propria preoccupazione, e per sua fortuna Aine ne era perfettamente consapevole.
L’azzurro gli rivolse un sorrisino quasi di scuse e si sollevò a sedere, stiracchiandosi e facendosi scrocchiare le spalle e il collo prima di guardarlo nuovamente:
«Per quanto il pensiero di farmi cambiare il pannolino da te possa tentarmi, Kikun, sono ancora in grado di attraversare il corridoio e raggiungere il bagno, grazie del pensiero, però».
Se Aine sapeva che essere brusco era il modo di preoccuparsi di Kei, Kei sapeva altrettanto bene che il sarcasmo era il modo di nascondersi di Aine.
«Il bagno sì, la cucina era troppo lontana, invece?», domandò allora, alzando le sopracciglia.
«Non ho fame».
Quelle tre parole fecero scorrere un brivido lungo la schiena del ragazzo: non aver fame dopo quasi due giorni di digiuno?
Non stava succedendo di nuovo…
«Aine…».
«Kei, davvero, non c’è niente di cui preoccuparsi. Lo sai che a volte mi capita di non sentire lo stimolo della fame!».
«Sì, e so anche cos’è successo l’ultima volta, Kisaragi».
Colpito e affondato, Aine voltò di scatto il volto verso la finestra alla sua destra, evitando volutamente lo sguardo del suo amico, mentre le mani si serravano in pugni sulle coperte.
«Quello è stato un incidente».
«Un incidente che non voglio che si ripeta, Aine. Adesso alzati e vieni a mangiare».
«Non mi va».

  Il terzo giorno, non ci fu nemmeno una risposta alla domanda “si può sapere che cos’hai?!”. Kei lo chiese, e Aine in tutta risposta si voltò dall’altra parte, nascondendosi ulteriormente fra le coperte. L’unico motivo per cui il giovane compositore non gliele strappò di dosso fu che, almeno, il piatto e la bottiglietta d’acqua che aveva lasciato la sera prima sul comodino ora erano vuoti.
Avrebbe potuto rimproverare Aine per aver mangiato a letto in un altro momento, ora era in ritardo per la lezione, e c’era un’altra cosa che doveva fare.
Raggiunse di corsa l’aula, giustificando ancora una volta Aine col professore, che accettò il suo “non si sente ancora bene” con un cenno della testa e cominciò a spiegare. Naturalmente non sospettava ci potesse essere qualcosa di strano: Aine non saltava mai le lezioni, quando succedeva era per forza per cause di forza maggiore.
Per questo Kei era preoccupato, e più tardi, una volta seduto a mensa con Reiji ed Hibiki, si decise ad aprirsi con loro.
Naturalmente entrambi sgranarono gli occhi, preoccupati da quell’atteggiamento così inusuale per il loro amico.
«Sì, è ora di chiamare suo zio», confermò Hibiki, annuendo con aria seria mentre apriva la sua lattina tenendola a debita distanza, giusto in caso questa volesse esplodere come era già successo in passato.
«Pensi che potrebbe essere utile se venissimo a trovarlo anche noi?», chiese Reiji, preoccupato e ormai totalmente disinteressato dal suo pranzo.
Kei lo guardò per qualche secondo, pensando ad Aine e alla sua colossale cotta per il loro amico.
Se Reiji l’avesse visto nello stato in cui era ora, dopo tre giorni a letto, probabilmente si sarebbe buttato dalla finestra.
Urlando.
Probabilmente qualche imprecazione in inglese.
«No, credo sia meglio chiamare suo zio e lasciarlo tranquillo fino al suo arrivo», disse infine, sforzandosi di suonare meno brusco di quanto avrebbe voluto.
Non era colpa di Reiji se Aine si era innamorato di lui, e di certo non era colpa di Reiji se Kei aveva sempre provato qualcosa nei confronti di Aine… Forse, l’unica colpa di Reiji era quella di non aver mai realizzato nessuna di queste cose.
«Va bene… allora però posso preparargli qualcosa e gliela porti per cena?».
Gli occhi di Reiji, che si erano abbassati per un momento alla sua risposta, ora erano di nuovo illuminati e speranzosi, il suo desiderio di rendersi utile nell’aiutare l’amico palese in ogni millimetro delle sue iridi.
L’espressività del suo sguardo era forse una delle cose che lo rendeva più simile ad Aine e, per quanto non amasse ammetterlo, una delle cose che lo faceva andare più a genio a Kei, che stavolta gli sorrise leggermente mentre tirava fuori il cellulare dalla cartella stracolma di quaderni, fogli e matite.
«Se non ti disturba, sono certo che gli farà piacere», confermò.

  Il dottor Kisaragi rispose quasi subito, leggermente affannato, mentre si sentiva nello sfondo il rumore di passi e di una porta che veniva aperta e poi richiusa.
«Kei-kun? Come mai mi chiami?», la voce dell’uomo era gentile, ma anche preoccupata, e Kei andò subito al dunque:
«Buongiorno, Kisaragi-san. Non volevo disturbarla, ma credo che Aine non si senta molto bene».
La discussione fu breve: Hakase chiese i dettagli della situazione, Kei gli rispose, e scelsero un orario per quando l’uomo sarebbe potuto presentarsi in camera dei due ragazzi per vedere il nipote.
Kei riattaccò e rimase silenzioso a fissare il suo telefono. Non un messaggio, non una chiamata.
Nemmeno quello era da Aine.
Di solito, quando per qualche motivo l’aspirante idol doveva saltare le lezioni, riempiva di messaggi i suoi amici per sapere cosa fosse successo, cosa si stesse perdendo, ora invece i telefoni di tutti e tre rimasero fastidiosamente silenziosi.
«Kei», richiamò la sua attenzione Hibiki, con voce più seria del solito. «Perchè sei così preoccupato?».
«Perchè niente di tutto questo è tipico di Aine. Stamattina non mi ha nemmeno rivolto la parola, ieri sera abbiamo quasi litigato perché cercavo di convincerlo a mangiare… Ho paura che ci sia qualcosa che non ci vuole dire». Ammise, giocherellando col telefono fra le sue mani.
Reiji annuì insieme a Hibiki, prima di aggiungere:
«C’è decisamente qualcosa che non va… non ha risposto a nessuno dei miei messaggi negli ultimi giorni, e l’ultima volta che ho provato a chiamarlo l’aveva direttamente spento. In più, con gli esami in avvicinamento, non è da lui perdere tutto questo tempo senza studiare. Solo, non capisco cosa possa avere».
«Magari ha la febbre?», Kei scosse subito la testa, negando l’ipotesi di Hibiki, che proseguì. «O mal di pancia, o forse è ancora stanco da settimana scorsa… Cerchiamo di non pensare subito alle ipotesi peggiori, okay?».
Reiji e Kei sorrisero a quelle parole, annuendo, mentre si sforzavano con tutto il cuore di credere al loro amico.
Rientrare in camera e sentire il rumore di singhiozzi sommessi ma carichi di dolore provenire dalla camera di Aine, spazzò via ogni speranza dal cuore di Kei.

  Hakase era entrato da quasi mezzora nella stanza del nipote, e Kei - seduto al tavolo della piccola sala che condividevano, con i libri sparsi davanti a lui - tentava invano di non origliare.
Ma era un po’ difficile, dato che la voce di Aine si faceva sempre più alta, sempre più spezzata, e sempre più disperata.
Kei non voleva sentire in quel modo cose che il suo migliore amico non aveva voluto riferirgli, non gli sembrava giusto, e in fondo era grato del fatto che le due stanze si trovassero abbastanza lontane e che Aine stesse parlando con un accento inglese sempre più forte e sempre meno comprensibile.
“Se avesse voluto parlarmi di qualcosa, l’avrebbe fatto”, si disse infine, raccogliendo le sue cose in fretta e uscendo dalla stanza.
Avrebbe potuto passare qualche ora in biblioteca, dopotutto.

  Al suo rientro, la camera era vuota, solo un bigliettino faceva bella mostra sul tavolo vicino ai pochi libri che aveva lasciato.
Decifrare la scrittura di Hakase fu una sorta di sfida, ma accettarne il contenuto fu ancora più dura.

Kei, grazie per avermi chiamato. Ho parlato con i vostri insegnanti e il preside, Aine starà lontano dall’Accademia per un po’, rimarrà a casa con me, quindi sentiti libero di venire a trovarlo - insieme a Reiji e Hibiki naturalmente - quando vorrai. Se non ti dispiace, penso gli faresti un enorme favore continuando a prendere appunti anche per lui, sono sicuro che avrà bisogno di recuperare al suo rientro.
E mi scuso da parte di Aine per averti fatto preoccupare in questi giorni, grazie ancora per essergli stato vicino.

Il ragazzino lesse e rilesse quella nota, rigirandola, cercando di capire più di quanto fosse possibile.
Aine era dovuto tornare a casa? Perché? Che stava succedendo?
Che cosa sapeva suo zio che lui non aveva diritto di comprendere?
E in che modo tornare a casa avrebbe potuto aiutarlo?
In preda ai dubbi e alle domande, Kei strinse il biglietto e corse a bussare alla camera di Reiji ed Hibiki, fondandovisi dentro appena la porta si aprì.
I suoi amici rimasero confusi quanto lui da quel messaggio, ma Hibiki si affrettò a rassicurarlo, dicendo che magari Hakase era riuscito a capire che tipo di malattia si fosse beccato Aine e l’avesse portato a casa perché era in grado di curarlo più rapidamente. Reiji si prese il suo tempo, con la scusa di preparare del tè per aiutare Kei a recuperare la calma, ma non era riuscito a cancellare del tutto la preoccupazione dal suo sguardo quando tornò a porgere la tazza all’amico.
«Potremmo sempre provare a telefonare più tardi, dovrebbero essere arrivati a casa stasera, no?», propose con una scrollata di spalle, prima di mordicchiarsi l’interno della guancia.
Tutti e tre rimasero poi in silenzio, pensierosi, cercando di non saltare subito alle peggiori conclusioni.
«Una cosa è certa. Quando tornerà, Ne-Ne si prenderà una strigliata coi fiocchi!», concluse infine Reiji, imponendosi di restare ottimista per il bene degli altri.
Si sentiva in colpa per non aver potuto aiutare Aine, era preoccupato per lui e avrebbe voluto avere delle risposte, ma in quel momento decise che non avrebbe lasciato a Hibiki il compito di mantenere alto il morale a tutti quanti, sapeva benissimo che non sarebbe riuscito a resistere a lungo in quel ruolo che - in fondo - non era mai stato un granché per lui.
Era Reiji il motivatore, Reiji quello che vedeva sempre il lato positivo in tutto, Reiji quello a cui gli altri potevano appoggiarsi per sentirsi al sicuro, per sfogarsi, per riprendere fiato quando tutto il resto del mondo li soffocava.
Il fatto che quella volta Aine non fosse andato da lui, ma avesse preferito chiuderlo fuori insieme a tutti gli altri, gli faceva male, e lo spaventava.
Ma non avrebbe lasciato che gli altri suoi amici lo notassero.

  Una volta giunto a casa di suo zio, Aine si avviò verso la propria camera, trascinando stancamente il trolley che si era portato, mentre Hakase restava fermo in salotto ad osservarlo silenziosamente mentre si allontanava.
“Aine… le cose che mi hai detto… le pensi davvero tutte?”, si chiese l’uomo, accigliato e preoccupato.
La telefonata di Kei l’aveva allarmato, ma era stato lo sguardo vuoto di suo nipote una volta che furono faccia a faccia a preoccuparlo seriamente.
Sentendo il suono di qualcosa che cade a terra e qualche imprecazione, Hakase si affrettò a correre nella stanza di Aine, trovando il ragazzino in ginocchio per terra, mentre teneva una cornice dal vetro scheggiato fra le mani, il corpo scosso - di nuovo - da singhiozzi silenziosi.
«Aine, che cos’è successo?», domandò dolcemente, avvicinandosi con calma al ragazzo, attento ai suoi movimenti come con un animaletto spaventato.
«Ho sbattuto contro la cassettiera ed è caduta questa», rispose l’altro, con voce incolore, mentre continuava ad aggrapparsi a quella fotografia che ritraeva tre persone sorridenti, abbracciate.
L’uomo rimase in silenzio ad osservare quella scena, il cuore stretto in una morsa di dolore e impotenza: voleva aiutare Aine, voleva cacciare quella sofferenza dalla mente e dall’anima del nipote, voleva fare qualsiasi cosa per riportargli il sorriso sulle labbra… ma non c’era niente che potesse fare.
«Non voglio più stare qui», sussurrò infine il ragazzo dai capelli celesti. Le parole uscirono in un soffio dalle sue labbra, prive di intonazione, prive di energia, vuote e spente, eppure andarono a conficcarsi dritte nel petto di Hakase, che si trovò a trattenere il respiro, aspettando il continuo di quella frase, aspettando un contesto, qualsiasi cosa che potesse dare un altro senso a quelle parole.
Ma Aine chiuse solamente gli occhi e si rifiutò di aggiungere altro.
«Qui, dove, Aine?», chiese allora Hakase, perché aveva bisogno di sentirgli dire qualcosa, qualsiasi cosa, che allontanasse il gelo che si stava lentamente impadronendo di lui.
«Qui».

   Il buio e il silenzio avevano sempre fatto paura ad Aine, li aveva sempre evitati come meglio poteva: teneva una lucina accesa accanto al letto, cercava di andare a dormire prima di Kei, in modo da potersi addormentare sentendo ancora il suo amico che componeva, o che scarabocchiava note su un foglio, anche semplicemente che si muoveva per la stanza.
Qualsiasi cosa pur di non restare solo nel silenzio.
Aine viveva di suoni e musica, non c’era qualcosa che temesse più della mancanza di ogni possibile rumore.
Soprattutto perché nel silenzio, poteva sentire la sua mente.
Poteva sentire la solitudine, la tristezza, la confusione, lo sconforto. Nel silenzio poteva sentire quei demoni che avevano preso a vivergli dentro, li sentiva sussurrare, ridere, strisciare sempre più vicino, sempre più forti, sempre più crudeli.
Nel silenzio non poteva fare altro che ascoltarli, non aveva modo di distrarsi, la sua mente non glielo permetteva.
Quella notte, però, quando si svegliò nel buio della sua camera, tremando e sull’orlo delle lacrime, il buio non parve più così spaventoso, era quasi come una coperta che gli si avvolgeva intorno, nascondendogli il resto del mondo e nascondendo lui stesso; persino il silenzio che regnava nel resto della casa sarebbe stato il benvenuto in quel momento. Sentiva il suo respiro tremulo e affannato, il battito cardiaco che gli rimbombava nelle orecchie e continuava a sperare che entrambe le cose si fermassero, smettessero di fare rumore turbando l’equilibrio di quel silenzio.
Era lui che stava interrompendo la quiete della casa, la quiete della vita di suo zio, delle vite dei suoi amici, dei suoi genitori.
Era lui che disturbava la perfezione del buio e del silenzio.
Lui con le sue luci accese e la sua musica.
Si rannicchiò, stringendo forte le ginocchia al petto, coprendosi il capo con le coperte, schiacciando il viso nel cuscino.
Non si era mai sentito più patetico nella sua vita.
Inerme, inutile, incapace.
Avrebbe solo voluto diventare anche insensibile a tutto.
“Perchè deve fare così male?”.

   Aine finalmente era tornato a scuola, più forte e luminoso che mai, più allegro, più sorridente. Aveva spiegato di essere stato male, aveva garantito di essere guarito, aveva chiesto scusa ai suoi amici, aveva conquistato il loro perdono.
Brillava come non mai come persona, come amico, come studente, come idol.
Era quasi abbagliante, ma emanava anche così tanto calore che era impossibile stargli lontani. Reiji finalmente capì i suoi sentimenti, e Kei rimase in disparte a vedere lui e Aine avvicinarsi sempre di più, sempre di più, vicini, ancora più vicini.
Finalmente le loro labbra si toccarono.
Erano veramente troppo luminosi da guardare, e lui non aveva mai sopportato di indossare degli occhiali da sole, al contrario di Hibiki, che avrebbe potuto fissare il sole per ore e insegnargli a impallidire sotto il suo sguardo.
Però ora Aine era felice, quel periodo buio era passato, e per Kei era sufficiente, l’importante era non vedere più il suo migliore amico così fermo, così immobile, così… spento.

   Ogni fiamma brucia e poi si spegne, anche le stelle prima o poi muoiono.
Ma una stella può vivere milioni e miliardi di anni.
Non solo vent’anni.
Forse Aine aveva brillato talmente tanto da consumare tutto il suo ossigeno prima del tempo?
Reiji non sapeva la risposta, non capiva, non riusciva a pensare, non riusciva a fare nulla.
Vedeva solo la tomba del suo migliore amico, del suo fidanzato, della persona per cui avrebbe fatto di tutto… E vedeva il buio che gliel’aveva portato via.
Poteva toccarla con mano quell’oscurità, poteva sentirla vibrare, sentirla ridere per aver finalmente divorato anche l’ultimo bagliore di luce che Aine aveva tentato di emanare.
Avrebbe fatto tutto il possibile per salvare Aine.
Tranne rispondere al cellulare, a quanto pareva.
Non importava quante volte gli dicessero che no, non era stato per quello che Aine aveva scelto di farlo, non importava quante volte se lo ripetesse, non importava nulla.
Lui non era stato presente per afferrare il ragazzo che amava quando quello cadeva, mentre precipitava via, lontano da lui, lontano da tutti.
Se la colpa non era totalmente sua, di sicuro lo era almeno quasi del tutto.
Aveva sempre saputo del terrore che Aine provava per il buio, era stato lui a regalargli un lume da notte, e sapeva anche della sua paura del silenzio, per questo spesso aveva cantato per lui fino a farlo addormentare.
Non riusciva a immaginare gli ultimi momenti della sua vita passati da solo, in mezzo a ciò che più gli faceva paura.
Il buio del fondo dell’oceano, il silenzio della morte.
Reiji si sentì soffocare, quasi come se il liquido salato dell’acqua si fosse riversato nei suoi polmoni.
Ma quelle gocce salmastre che gli finivano in bocca non erano altro che lacrime.
Si poteva forse affogare nelle proprie lacrime? Venir soffocati dal pianto che tante volte si era tentato di soffocare?
«Aine…».
L’aveva deluso, l’aveva abbandonato quando aveva avuto bisogno di lui. Non era stato lì al suo fianco, e ora Aine aveva fatto lo stesso.
Aveva smesso di pensare agli altri, caricarsi di dolore per non far soffrire tutti loro.
“Il suicidio non porta via il dolore, lo passa solo agli altri”.
Reiji sorrise amaramente, fissando ancora la tomba davanti a lui.
Aveva detto ad Aine di imparare ad essere un po’ più egoista mille volte, gli aveva detto di cominciare a mettere se stesso prima degli altri, non poteva continuare a ricevere colpi su colpi al posto degli altri, non poteva continuare a soffocare in parole non dette per paura di ferire.
Scuotendo la testa mentre cominciava a singhiozzare e cadeva in ginocchio, Reiji non poté fare a meno di notare che quella era stata l’unica volta in cui Aine aveva dato retta a un suo consiglio.
Per la prima e ultima volta nella sua vita, Aine aveva scelto di essere egoista.
E Reiji non avrebbe mai trovato la forza di fargliene una colpa.





**************************

NdA: Ma perchè non pubblicare roba altamente deprimente poco prima di Natale, dopotutto?
Non ho molte scusanti per questa storia, a dire il vero... avevo voglia di ragionare un po' su Aine, immaginare come sarebbe potuta andare la storia se avesse iniziato a soffrire di depressione già prima di diventare un idol, e immaginare come sarebbe stato se il tentativo di suicidio fosse andato effettivamente a buon fine.
Il risultato mi soddisfaceva abbastanza, quindi ecco a voi! (/.\)
Prometto di avere store più allegre in programma, presto mi farò perdonare! ;D Intanto grazie per aver resistito fin qui! 

Baci,
Starishadow

 

   
 
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Uta no Prince-sama / Vai alla pagina dell'autore: Starishadow