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Autore: Deceptia_Tenebris    18/12/2017    1 recensioni
Breve racconto delle vite dei Sentimenti che vivono all'interno del mio cuore.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Poesia | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La colazione del cuore

 
 
Eravamo adagiate su seggiole d’ortica sopra un manto ingrovigliato di faville nere e fibre di lettere che costituivano
la dedica della mia lapide, mentre cipressi asciutti d’indolenza s’inchinavano per porgere un ricovero di pioggia.
Dissimulando il calar di una sensazione, mi ero cinta del mio indumento migliore, una mise scarlatta di antiche disillusioni che si allungava nel pavimento come se fossero gocce di sangue, lastricandolo con i neonati sentori che sarebbero morti di fame, bisognosi come apparizioni prive di pace.
Segnati in faccia, i miei occhi piroettavano in dementi alterazioni di fronte alla scena e sorridevo appagata nel causare supplizio in un simile gesto, come in una distorsione dell’acido, mentre una sottile incrinatura si dilatava come una meringa sbriciolata, dall’angolo della bocca fino a giungere la gota blasfema di gelo.
Ma improvvisamente, recai attenzione ai miei ospiti e con le mani guantate di tagli freschi e ossa in rilievo, protesi le mie intenzioni con il più sciocco dei sorrisi.
Incominciai con la prima a destra, inchiodata alla sedia con chiodi di garofano e ornata di ombre che le aderivano addosso con catene di soffioni. «Malinconia, desideri per caso un po’ di sorrisi?».
Le accostai un vassoio ovale rifornito di bagliori dentali,  labbra sbuffanti di lievi risate cosparse di zucchero a velo, vaghe illusioni e tutto lavorato con un po’ di sana speranza, un ingrediente raro che avevo faticato a scovare in quel cimitero di giacimenti gelati. Ma il mio ospite,  in costante rilievo e la mia più antica residente, emise un gemito di sconsolato dolore che le recava stille di muffa, svuotandole le orbite. Parve rifletterci intensamente.
«Forse un po’» si arrese con stanchezza. «Ma al caffè. L’amarezza non guasta, l’olio di ortensia che scivola nel mio corpo non fa che darmi alla testa e se fra poco non avrò un po’ di frustrazione d’addentare, di certo morirò di freddo» sbuffò infine, gli occhi gelidi che sfuggivano a qualsiasi contato visivo.
La mia espressione non recò danno a quella sua richiesta che avrebbe rovinato la maggior parte della mia buona volontà e con gesto acuminato, presi un cucchiaino di delusione e glieli cosparsi su un trio di biscotti che furono poi agguantati e dispersi nell’incavo delle sue labbra nere. Ma risoluta a non arrendermi, posai lo sguardo sulla mia sinistra e cercai di donare i sorrisi a cui avevo lavorato a un’altra ospite, che mi artigliava con ansiosa invadenza la mano che le avevo proteso, per l’ennesima volta.
«E tu Rabbia, desideri qualcosa?».
Quest’ultima mi esaminò come se avessi l’intenzione di prenderla in giro e congiunse ancora più saldamente  la creatura che cercava di tenere a bada tra le sue braccia sottili. Le sue sopracciglia sobbalzavano animate, come le scintille di un fuoco d’artificio, in base agli impulsi di varia intensità che la agitavano, e  le sue iridi, trafitti da screziature di ghiaccio, mi squadravano con quella  maliziosità di chi è certo di avere una persona in pugno.  Nel frattempo, l’incrinatura si era estesa quasi fino alla tempia e un piccolo coccio di carne si staccò dal mio volto con un tintinnio, senza però trascinarsi dietro la scia di sangue come una stella cadente. Con quel pezzo, si udì anche un debolissimo gemito.
Ma tutti gli invitati ignorarono l’accaduto, compresa la sottoscritta.
Alla fine Rabbia emise una smorfia, un intreccio di eriche e fibre di carne a incurvarsi in uno sdegnato ghigno, e i tratti affilati iniziarono a possedere quell’ombra inferma che opprimeva. 
«Forse anch’io un paio, ma solamente se c’è l’ortica » dichiarò con quel suo tono laconico, fingendo disinteresse. 
Mi guardai intorno, agitata. «Non ho biscotti all’ortica» sussurrai con un filo di voce. Non avendo inserito crudeltà nell’impasto o-almeno un pizzico di rancore- in nessuno dei dolciumi che avevo preparato, non potevo offrirglieli e mi ero scordata che lei era intollerante alla minima traccia di speranza. Dopo rigurgitava fasci di luce e stava male per giorni, non facendosi quasi sentire se non facendo qualche chiamata.
Rabbia sbuffò una mezza risata beffarda, derisoria.
Le sue labbra sembravano due petali di tulipani purpurei che sbuffano fiele al posto di anidride carbonica.
«E allora non voglio quei biscotti, piuttosto mi mangio le sedie. C’è piuttosto un po’ di acidità da qualche parte? O non sai nutrirmi a dovere?» mi sfidò, serena nell’incutermi disagio. Le ciocche della sua chioma folta raggiungevano il pavimento in grovigli insanguinati e si arricciavano di piacere come un turbine sempre irrequieto nell’incedermi le ferite che non riusciva a incutere fuori e facendomi asfissiare con i filamenti delle trappole che voleva mettere in atto.
Le degnai uno sguardo mortificato, cercando di non lasciarmi influenzare da quella sua aura d’intenso gelo.
«Ho un po’ di limonata con ghiaccio, se vuoi» suggerii timidamente, sentendomi una bambina di fronte ad un genitore che attendeva un segno di approvazione.
«Va bene, sempre meglio di niente» acconsentì, le gote accese come peonie. Tirai un sospiro, ma azzardai un’altra domanda. «Dolore vuole qualcosa?».
Rabbia mi fulminò con un’occhiata, non rispondendomi, e io distolsi lo sguardo occupandomi della bevanda.
Con la coda dell’occhio però notai che Ipocrisia si era sgrafignato una decina dei miei migliori biscotti e se li divorava con entusiasmo: la sua classica scusa era che aveva bisogno di energie per far ritorno al mondo esterno e non le davo torto. Ogni giorno, andava avanti e indietro indossando sempre abiti ed espressioni di ogni genere in base all’evento a cui era acclamata e quando rientrava a casa era sfinita. Si faceva delle trasfusioni di ammuchina e ribes rosso per pulirsi dentro e offrirsi la tinta delle condanne che l’umanità era macchiata, e il giorno dopo era nuova.
Mi dispiaceva però che tutti quei sorrisi non fossero assaggiati, se non di poche briciole, da Felicità che ormai si era ridotta a un mucchio di stracci e ossa fragili. Ma non potevo insistere. Io esponevo solo ciò di cui avrebbero potuto bisogno e stava a loro servirisi. Sospirai.
Rabbia nel frattempo continuava a occuparsi di Dolore, reggendolo e cullandolo per non farlo scattare dato che non sopportava le sue urla e i suoi pianti, che la indebolivano terribilmente. Dolore era un neonato con dei vividi iridi cerulei e saggi nel suo visino lunare e giaceva semi cadaverico fra le braccia della sua protettrice, che non gli permetteva di piangere e di maturare un po’; lo zittiva con buffetti, a volte gli sbraitava contro e lo anestezziva con della morfina e una buona parte della sua stessa essenza per indebolirlo e lasciarlo sempre fresco, giovane e acerbo, sbagliando fin daln principio. Lo aveva adottato con l’illusione di poterlo controllare sebbene la sua giovane età anche se a volte  si nutriva un po’ di Dolore, che alla fine  ritornava ancora più forte. Rabbia era consapevole che se Dolore piangeva, maturava e diventava un po’ più sano, lei sarebbe scomparsa un po’ alla volta e questo non lo poteva permettere.
Lo teneva malato, come lei.
Così a volte lo oliava con olio da aloe per renderlo ancora più debole e lo narcotizzava. Io la lasciavo fare e, nel frattempo, le offrivo un bicchiere di limonata. Gli altri invitati, spiriti con le orbite scavate e i rossori diafani che coprivano come stracci le sconce piaghe dei loro traumi, si concedevano da soli le pietanze senza aggiungere un fiato, consapevoli che neanche tutte le più amene percezioni avrebbero potuto placare a lungo la loro insaziabile fame.
Solo pochi non potevano far parte di quel circolo di spire intente di strazi e stavano al di fuori dalla porta con angosciate suppliche. Con i loro occhi scuri e la pesca a fargli da incarnato, cercavano di crearsi un posto a tavola con i loro amabili tocchi e solo raramente riuscivano a infilarsi in quelle feste clandestinamente mentre gli altri ospiti incominciavano a stare male, ma di un male che si convergeva in un bene che li lacerava ancora di più.
Così li lasciavo fuori dalla porta, scacciandoli via a parole solo quando il pericolo incominciava ad essere troppo insostenibile, con i pezzi del mio volto che si staccavano ogni volta all’accostamento della loro presenza e con loro che cercavano d’insinuarsi pestiferi, sapendo che avrebbero creato solo guai.

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