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Autore: Raptor Pardus    19/12/2017    0 recensioni
Dell'ultima guerra dell'uomo, dii come terminò il Secondo Medioevo e di come arrivarono l'inverno nucleare e il Grande isolamento.
Genere: Azione, Guerra, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Reno saltò oltre il muro distrutto e si nascose dietro il rottame di un autobus, una carcassa divorata dalle fiamme chissà quante ore prima.
Non aveva mai visto così tanta violenza.
Le mani gli tremavano per la fatica, o forse per la paura.
Estrasse il caricatore dal fucile e controllò, non senza difficoltà, quanti proiettili vi fossero ancora all’interno.
Le tasche del suo gibernaggio erano ormai completamente vuote, non aveva una borraccia e aveva finito le granate.
Era solo, circondato e psicologicamente distrutto.
Perché ancora si ostinava a combattere? Non era il suo pianeta dopotutto.
La catena di comando ormai non esisteva più, ognuno pensava solo a sé stesso, e lui non sarebbe stato da meno.
In fondo, perché morire lì, in maniera così stupida? La battaglia era già perduta, nessuno aveva più notizie del QG da diverso tempo, la radio aveva smesso di funzionare e i Federali si aggiravano per le vie della città aggressivi e numerosi come lupi affamati.
Lupi… avrebbe tanto voluto vederne uno dal vivo, chissà se esistevano ancora.
Forse un giorno l’avrebbe vista, la Terra.
Ma nulla era certo in quel momento.
Quanti uomini aveva già ucciso quel giorno? Era sicuro di aver aperto il fuoco sul nemico? O forse aveva passato la giornata a distribuire munizioni ai suoi compagni?
Forse era andata così; forse, chi poteva dirlo.
Aveva la nausea.
Gettò il caricatore che ancora teneva in mano a terra.
Era completamente pieno.
L’arma gli scivolò tra le dita, cadendo al suolo quasi senza emettere rumore.
Piegò le gambe e premette un pulsante sul lato del casco.
Il respiratore emise un sibilo, si separò dal visore e insieme a esso si sollevò sopra i suoi occhi, che gli facevano male, cercando di adattarsi al buio della notte.
Poche luci illuminavano le strade, la corrente era stata tagliata prima che la battaglia avesse inizio.
Allargò il soggolo che gli toglieva il respiro e si sfilò il casco, poggiandolo a terra accanto a sé.
Era stanco.
Si tolse i guanti da combattimento e si guardò intorno.
Non sapeva cosa ne sarebbe stato di lui, non sapeva dove andare, non sapeva come andarsene di lì.
Si alzò in piedi, quasi gemendo per la fatica e lo stress, e si incamminò senza una meta, sparendo nella foschia serale della battaglia, sperando che lo proteggesse dal nemico lanciato al suo inseguimento.
 
Drusus fissò il generale Aforisis, la fronte costantemente imperlata di sudore.
<< Accettate quindi le nostre condizioni? >> chiese l’ammiraglio nemico di fronte a loro.
<< Certo, potete recuperare i vostri feriti e abbandonare il sistema. >> confermò l’ammiraglio Crassus, comandante della flotta Federale, in piedi di fianco al basso generale.
<< Consegneremo subito le insegne e le armi, dunque. >> concluse l’ammiraglio, offrendo la mano al rivale. << È stato un onore scontrarsi con voi, ammiraglio Crassus. >>
<< Spero di rivedervi, ammiraglio Nebriter, non per forza sul campo di battaglia. >> rispose Crassus stringendogli la mano.
<< Addio. >> concluse Aforisis, porgendo a sua volta la mano.
Seraphus Nebriter strinse la mano del generale, quindi si sfilò uno dei guanti bianchi che indossava e poggiò il pollice sul palmare che un ufficiale Federale gli porse in quel momento.
La resa delle truppe ribelli all’interno del sistema era firmata.
<< Bene, allora. Addio, signori, è stato un piacere poter trattare con voi. >>commentò Seraphus rinfilandosi il guanto e facendo il saluto militare.
<< Spero sappia cosa stanno scatenando i suoi superiori, ammiraglio. >> disse Aforisis mentre Nebriter si apprestava ad abbandonare la sala.
<< Cosa intende? >> chiese Seraphus, già in procinto di voltarsi.
<< L’Impero e l’Unione sono di nuovo in guerra. Una seconda guerra galattica in meno di dieci anni, il vostro Autarca sarà contento. >> spiegò il generale asciugandosi la fronte.
<< Continuo a non capire, signore. Come tutto ciò dovrebbe riguardare l’Autarchia di Orione? >> continuò Seraphus, attento a ciò che stava per dire, confuso dalla notizia appena ricevuta.
<< Suvvia, secondo lei chi riforniva il vostro esercito di armi? >> tagliò corto l’ammiraglio firmando a sua volta il documento di resa.
Seraphus strizzò gli occhi, improvvisamente scosso da un brivido.
Interdetto, boccheggiò senza sapere cosa dire.
Un gelo improvviso gli attanagliava lo stomaco, bloccandogli le gambe.
Qualcosa era scattato in lui, risvegliando vecchi ricordi.
Vecchi incubi.
E se fosse stata una bugia?
Che motivo avevano di mentire?
Si sentiva improvvisamente tradito.
Da sé stesso.
Un sapore acre gli invase la bocca, provocandogli la nausea.
Doveva andarsene subito, aveva bisogno di restare da solo per un po’.
<< Io… devo dirvi addio, signori. >>
L’ammiraglio fece un goffo inchino e uscì rapidamente, visibilmente agitato.
Drusus guardò Aforisis porre il suo pollice sul tablet.
L’operazione Tyr era ormai conclusa.
Drusus si chiese quanti uomini fossero già morti per quel sistema.
Domani sarebbero giunti i dati precisi, ma per il momento l’unica risposta che potevano darsi era… il numero necessario, purtroppo, ma comunque troppi.
Si massaggiò il naso, domandandosi quando sarebbe finita.
Forse mai.
 
Reno guardò Palladium dal piccolo oblò accanto al suo scomodo sedile, chiedendosi quanti come lui erano riusciti a salvarsi.
Era stata una vera fortuna riuscire a imbarcarsi insieme a quei profughi su uno dei trasporti che li avrebbero portati verso nuovi mondi, lontano dalla guerra.
Evitare i controlli era stato piuttosto facile, e di questo doveva ringraziare solo il suo addestramento.
Si sarebbe fatto una nuova vita, chissà dove, ma sarebbe stato per sempre tormentato dal rimorso, un po’ per aver abbandonato i suoi compagni, un po’ per aver dato fiato a quella pazzia chiamata rivoluzione.
Un compromesso accettabile, nonostante tutto, vivere per sempre col senso di colpa e in cambio sparire per sempre dalla faccia della galassia.
Non ne avrebbe sofferto.
Non più almeno.
 
Gregorius mise piede sulla Luna non a cuor leggero.
Nel piccolo hangar dove erano atterrati lo attendevano la moglie e uno sparuto drappello di uomini a lui fedeli.
A cosa si era ridotto.
Dietro di lui scesero, quasi in religiosa processione, i quarantadue senatori che avevano accettato la sua folle offerta e avevano deciso di seguirlo in quell’avventura disperata.
<< È tutto pronto? >> chiese al comandante della base, affianco a sua moglie.
<< La nave è pronta, signore, attendiamo un suo ordine per partire. >>
<< Bene… imbarchiamoci subito. Assegnate un alloggio appropriato ad ognuno dei gentiluomini alle mie spalle, tanto non penso che staremo stretti. Nile, tesoro… hai già cenato? >> disse Gregorius avvicinandosi alla moglie e porgendole il braccio.
<< No, amore. >> rispose lei appoggiandosi al fianco del marito, rassicurata da quel semplice contatto.
<< Bene, ceneremo mentre si salpa, allora. È un viaggio lungo fino alla Frangia Occidentale. >>
I due si avviarono, circondati dai militari e dai politici, e si imbarcarono sull’incrociatore che li avrebbe portati nella neonata Federazione del Sagittario, che avrebbero fondato tutti insieme al loro arrivo.
Ormai la Federazione Terrestre non esisteva più, destinata a eclissarsi nel mare di signorie locali che andavano nascendo in ogni angolo dei suoi domini, ma loro avrebbero salvato i valori della democrazia in quel piccolo angolo di paradiso che si sarebbero ritagliati in un piccolo sistema isolato, lontano dal caos della guerra e troppo vicino al Nucleo Galattico per poter essere minacciato dalle ingerenze di Unione e Impero, dove avrebbero atteso che tornasse la pace nella Galassia.
In realtà Gregorius era dubbioso che ciò sarebbe accaduto presto, anzi, iniziava a dubitare che la quiete sarebbe mai arrivata nella Via Lattea.
Ma un uomo, nonostante ogni avversità, può sempre sperare.
Una cosa era sicura, però, in una situazione così tragica.
Erano all’alba di una nuova era dell’uomo, e loro erano lì per viverla.
 
Seraphus sospirò e avvicinò il bicchiere al labbro, buttando giù il liquore scuro e denso.
La sua ultima, piccola scorta, conservata nonostante tutto quello che avevano passato nelle settimane precedenti.
Ciò che rimaneva della sua flotta stava viaggiando a velocità superluminale verso il sistema di Rigel-D, verso Flamma, la capitale, verso casa.
Ci sarebbe voluto qualche giorno ancora, ma presto avrebbe riportato quegli uomini al sicuro.
Soldati e classarii avevano celebrato la consegna delle armi nell’hangar principale, in luttuoso silenzio, ripiegando la bandiera che fino al giorno prima pendeva sotto la torre di comando del ponte.
I feriti erano stati caricati, i bottini consegnati, le ancore levate e via, verso il Nucleo, ancora in fiamme per la guerra.
Fiamme che non si sarebbero spente presto.
Cosa sarebbe rimasto, oltre alla cenere?
La Federazione era spaccata e in preda ormai ai signori della guerra, Volosiani e Khorsiani sembravano intenzionati a eliminarsi tra di loro e, cosa più tremenda, era tutto vero, come gli era stato confermato da alcuni comunicati giunti sui pianeti dove avevano fatto scalo.
In mezzo a tutto quel caos, o Arseius era impazzito, o aveva in mente qualcosa che sfuggiva alla comprensione di Seraphus, tenuto all’oscuro di così tante cose.
Si sentiva colpevole, tremendamente colpevole.
Buttò un occhio al cassetto blindato della sua scrivania.
Bastava appoggiare un pollice…
Guardò avanti, verso la porta chiusa, spostando lo sguardo sui muri ricoperti di schermi spenti, trofei, medaglie e ricordi di casa.
Casa…
Nemmeno la ricordava più, casa, era stato così tanti anni prima, su una luna nella Frangia Occidentale.
Chissà cosa era successo a quel minuscolo ammasso roccioso.
Poco a poco, un’immagine dopo l’altra, i nebulosi ricordi della sua gioventù tornarono davanti ai suoi occhi.
L’infanzia agiata, il viaggio sulla Terra, le lezioni in accademia, la sfortuna con le donne, i pochi amici intimi e le loro pazzie suicide, la prima nave che aveva pilotato, le stelle sparse nel cielo nero, le nebulose attraverso cui aveva viaggiato per così tanto tempo, la guerra…
Il Khorsiano.
La testa fu scossa da un sussulto, mentre la bile gli risaliva lungo la gola.
Si era fatto manovrare una seconda volta, era stato manipolato di nuovo, nonostante si fosse promesso che non sarebbe mai più accaduto, e invece sarebbe successo ancora, e ancora, e ancora…
Doveva mettere un freno a tutto quello, a tutto quel dolore che gli bloccava il petto e gli toglieva il respiro.
Improvvisamente, sentì dentro di sé tutto il freddo dello spazio profondo in cui ora si trovava.
Rilassò la mente, svuotandola di tutto il caos che la attanagliava facendogli scricchiolare il cervello, stretto in una morsa d’acciaio.
Il Khorsiano non lo avrebbe preso di nuovo.
Il Khorsiano era morto, come poteva?
Eppure avvertiva la sua presenza, dietro di sé, gli sussurrava dolci parole, orribili eppure così suadenti.
Per la prima volta da quando era nato si chiese cosa ci fosse dopo, cosa dovesse spaventarlo o dargli un caldo conforto, ma non riusciva a darsi risposta, nonostante la parola che cercava fosse proprio lì, davanti a lui.
Nulla.
Semplicemente nulla, eppure la scoperta più che farlo sentire ancor più vuoto gli strappava un amaro sorriso.
La malattia probabilmente stava prendendo il sopravvento sulla sua mente, ma poco importava.
Era giusto ciò che aveva fatto?
Era giusto ciò che stava facendo?
Non riusciva più a pensare, troppo preso dai ricordi.
Cercò di concentrarsi sul momento, ma l’unica cosa che percepiva era la vibrazione che la piccola cassaforte sotto la sua scrivania emanava, chiamandolo a gran voce.
L’istinto gli diceva di seguire quella vibrazione, ma avrebbe avuto la forza per affrontare le sue scelte?
Lo sguardo gli cadde di nuovo sul cassetto.
In un’altra vita, con altre avventure alle spalle, probabilmente quella cassaforte avrebbe contenuto tutt’altro, un vecchio cimelio di famiglia, un giocattolo della sua infanzia, o forse solo altro alcool.
E invece era diventato paranoico, e aveva trasformato il suo ufficio in un bunker.
Aprì il cassetto con una leggera pressione e poggiò la mano sul pannello di riconoscimento digitale al suo interno.
Chiuse gli occhi mentre con un sibilo la piccola cassaforte si apriva, rivelando il suo contenuto.
Gli occhi sigillati, infilò una mano nel cassetto e si mise in pace con la sua coscienza.
 
Maester si tastò la fasciatura che gli copriva l’occhio destro.
Gli prudeva dannatamente, e pensare al costo che avrebbe avuto la protesi gli faceva mordere la lingua.
Rabuleius arrivò scortato da Hakritus, avanzando rapido con la sua nuova sedia a rotelle.
Mezzo centimetro più a destra e avrebbero dovuto ricostruirgli la spina dorsale, senza nemmeno garanzia che tornasse a camminare.
Maester maledisse a denti stretti l’artigliere che li aveva ridotti in quello stato e il soldato che gli aveva passato delle coordinate sbagliate per il tiro.
I suoi due compagni si disposero accanto a lui, mesti e abbattuti.
<< Com’è? >> domandò Hakritus, tirando su col naso.
Maester incrociò le braccia.
<< Avanti, vediamolo. >> disse al team di ingegneri davanti a lui.
L’immenso telo che copriva il loro nuovo mezzo fu sollevato, e loro poterono finalmente ammirare il nuovo modello di carro corazzato da combattimento appena messo in produzione, il motivo per cui tutte le squadre di carristi della base erano state radunate lì.
<< Le capacità della corazza reattiva sono state notevolmente migliorate, il sistema di disturbo IR è stato ulteriormente miniaturizzato e come potete vedere abbiamo ottimizzato la disposizione del lanciamissili, riuscendo a inserire un autocannone sul fianco opposto della torretta. >> iniziò a elencare il tecnico addetto alla presentazione del mezzo.
<< Manca un pezzo bello grosso, però. >> osservò un militare dietro di loro.
L’hangar era troppo stretto per tutte quelle squadre, ma a quanto pare nell’intera caserma non c’era nessun altra stanza disponibile.
<< Abbiamo sostituito il sistema di trazione su cingoli con uno a reazione. Adesso anche i nostri carri leviteranno sul campo di battaglia. >> rispose entusiasta il tecnico. << Dobbiamo ringraziare le recenti vittorie su Alpha Orionis per questo piccolo gioiellino tecnologico. >> concluse sorridendo radioso.
Maester e i suoi due compagni inclinarono la testa, poco convinti.
<< E quando inizierà la sostituzione dei vecchi mezzi? >> chiese un altro militare.
<< La prossima settimana i primi veicoli verranno assegnati ai reggimenti d’urto, seguiranno gli altri reparti d’élite. Il completamento è previsto entro la fine dell’anno. >>
 << Che dite, riusciremo a salirci, su uno di quelli? >> chiese Rabuleius, muovendo avanti e indietro le ruote della sua carrozzella.
<< Prima dobbiamo capire se ci spediscono su Beta Orionis o meno. >> rispose Maester continuando a fissare il nuovo mezzo.
<< Quando ti impiantano l’occhio nuovo? >> chiese Hakritus, avvicinandosi al corazzato fresco di verniciatura.
Un tecnico gli fece segno di rimanere indietro.
<< Tra due settimane, se tutto va bene. >>
<< Dirò la verità, la vita in caserma mi ha già annoiato. >> continuò Hakritus facendo un passo indietro.
Maester e Rabu lo fissarono, gli occhi spenti, malinconici.
<< Finirai per farti ammazzare. >> disse Maester, prima di voltarsi e abbandonare la sala.
<< Sei un po’ coglione. >> osservò Rabuleius prima di ruotare la carrozzella e seguire il suo sergente.
Hakritus guardò i suoi compagni, imbronciato, e si appoggiò al carro armato appena uscito di fabbrica.
Uno dei tecnici gli prese a schiaffi la mano.
 
Vessimer aprì il pesante portone ed entrò nei sontuosi uffici dell’Autarca Arseius.
<< Palladium è perduto, vero? >> chiese il capo di Stato non appena l’uomo arrivò davanti a lui, dall’altro lato di una maestosa scrivania.
<< Sì. Sono costernato, mio Autarca. >> rispose Vessimer chinando il capo.
<< Non importa. Anche Betelgeuse è caduta. >>
Il console rialzò la testa e sgranò gli occhi, ormai schiacciato dal corso degli eventi a loro avverso.
<< La flotta? >>
<< Batte in ritirata, diretta verso di noi. >>
Vessimer guardò a terra, fissandosi i piedi, cercando le parole giuste con cui iniziare la frase.
<< Autarca… la Federazione ha scoperto i piani degli Imperiali. Ora nulla impedisce all’Unione di partecipare attivamente alla guerra. >>
Arseius sorrise, gli occhi brillanti sotto la luce calda che illuminava la stanza.
<< L’Unione non sarà un problema. Volos è caduta. >>
Vessimer trattenne il respiro.
<< C-come… come è accaduto? >> chiese, schiarendosi la voce.
<< I Khorsiani sono riusciti ad accedere alle loro rotte Iperspaziali e hanno attaccato l’Unione al cuore, attraversando il Nucleo della Galassia. I Volosiani non se lo aspettavano, probabilmente non hanno nemmeno capito come l’Impero si sia impossessato delle loro tecnologie. >>
<< Una mossa… inaspettata. >>
<< Esatto. Ora i due giganti, di nuovo alla pari, si distruggeranno l’un l’altro, dissanguandosi a vicenda, e noi avremo carta bianca con la Federazione. >> disse Arseius alzandosi e girando intorno alla scrivania.
<< Ma la sorte ormai ci è contraria. Se la situazione non cambia, saremo sconfitti. >>
<< Oh, ma la sorte non ci è mai stata più favorevole. Seguimi. >> disse l’Autarca sorridendo, accennando con la testa ad una porta laterale.
La porta si aprì con un sibilo, sparendo nel muro, non appena loro le furono davanti.
Un breve corridoio, bianco e privo di qualsiasi ornamento, si celava dietro la porta.
Al termine del corridoio, li attendeva un ascensore.
<< A proposito, dov’è l’ammiraglio Nebriter? >> chiese Arseius avviandosi nel corridoio.
<< È… è morto, Autarca, si è suicidato prima che la flotta arrivasse nel sistema di Rigel. >>
Difficile giustificare l’arrivo della “Scilla” con oltre due giorni di vantaggio rispetto al resto della flotta.
<< Le notizie sugli Imperiali? Avrei dovuto aspettarmelo. Non importa, non ne sentiremo la mancanza. >>
Entrarono nell’ascensore, che si chiuse silenzioso ed iniziò a scendere nelle viscere del Palazzo della Libertà, al centro della capitale, Flamma.
<< Dove mi state portando, Autarca? >> chiese Vessimer preoccupato.
<< Tranquillo, voglio mostrarti la nostra carta vincente. Non sono rimasto fermo mentre tu tenevi bloccata la Federazione su Palladium. Al contrario, mi sono assicurato la vittoria. >>
Le porte dell’ascensore si aprirono, rivelando una balconata metallica.
Arseius fece qualche passo avanti e si appoggiò al sottile parapetto, osservando l’immenso ambiente in cui ora si trovavano.
Vessimer si guardò intorno.
Sembrava il magazzino di una fabbrica.
<< Ti presento il nostro nuovo esercito, Vessimer. Con esso sconfiggeremo la Federazione e assicureremo all’umanità il posto che le spetta nel pantheon galattico. Niente più ingerenze aliene, niente più conflitti, niente più giochi di potere alle nostre spalle e xenofobia. Solo pace. >>
Vessimer si fece avanti e guardò di sotto, trasalendo per lo stupore.
Un immenso esercito di robot antropomorfi era schierato in perfetto ordine sotto di loro, mentre ai lati della gigantesca sala erano visibili, attraverso gli ingressi di numerose forge, i nastri trasportatori e i bracci meccanici che producevano senza sosta quegli automi da guerra.
<< Sono soldati perfetti, non conoscono fame, né fatica o paura, sono in grado di ripararsi l’un l’altro e possono addirittura replicarsi. Astronavi appositamente progettate li trasporteranno da un pianeta all’altro in tutta sicurezza, e in battaglia saranno accompagnati da mezzi senza pilota in grado di colmare le loro lacune. Non dobbiamo far altro che lanciarli contro un pianeta, e loro lo conquisteranno e lo useranno come base per aumentare di numero e diffondersi nei sistemi vicini, divenendo un esercito infinito e sottomettendo per noi l’intera galassia. >> concluse Arseius, trionfante.
Vessimer guardò l’amico e collega, notando per la prima volta la scintilla della pazzia nei suoi occhi.
Tornò di nuovo a osservare l’esercito davanti a loro, e comprese che cosa erano diventati.
Quell’armata non era tanto differente dalla Piaga che aveva devastato la galassia fino a poco tempo prima, e loro non erano mai stati così lontani dall’essere uomini.
<< Mio Autarca, se mi è permesso, come controllerete le macchine? >>
<< Oh, mio caro amico, non potevi fare domanda più pertinente. >> rispose Arseius fissando il console. << Un’apposita IA, imbarcata su una delle navi, farà da unità centrale, gestirà questo esercito in qualunque punto della galassia si trovi, mantenendosi sempre collegata con ogni altro vascello. >>
<< E se quest’armata non soddisfa i vostri scopi? >>
<< Non può succedere, ho supervisionato personalmente ogni fase della sua creazione, e questi soldati sono a dir poco perfetti, in grado di adattarsi a qualsiasi situazione e mantenersi da soli. >>
<< È… magnifico, mio Autarca. Un vero miracolo. E… se mi è concesso chiederlo… quando questa armata entrerà in funzione? >>
<< I primi vascelli sono già partiti in direzione della Terra, l’unità centrale attenderà qui finché non riterrò opportuno spostarla. La guerra si è decisa in questo preciso momento, Vessimer. È oggi che tramonta la preistoria. >>
<< Autarca… non ho parole. >> concluse Vessimer con un nodo alla gola, terrorizzato da ciò che insieme avevano creato.
Solo adesso capiva quanto avrebbe dovuto vergognarsi di sé stesso.
Fissò l’uomo davanti a lui, troppo preso dal suo trionfo per preoccuparsi del sottoposto alle sue spalle.
Arseius si crogiolava nel suo autocompiacimento, ormai ubriaco di potere.
Vessimer non lo aveva mai visto con la guardia così bassa.
Avrebbe potuto persino…
Ma sarebbe poi riuscito a uscire di lì, o a giustificare la propria nomina ad Autarca?
Sicuramente no.
Però aveva un’idea, molto folle, ma pur sempre un’idea.
Non avrebbe potuto evitare che l’esercito partisse ma, forse, avrebbe potuto dare il suo contributo e, forse, avrebbe potuto dare una speranza all’umanità.
Purtroppo però non sarebbe sicuramente vissuto abbastanza a lungo per vedere ciò che sarebbe nato dalle loro ceneri.
Non che importasse.

   
 
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