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Autore: artemideluce    19/12/2017    0 recensioni
Il giorno di Natale, una famiglia riunita. Cosa accade quando due sorelle dalla vita completamente diversa si ritrovano?
Genere: Drammatico, Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
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Ed eccolo arrivato, il tanto atteso ed agognato giorno di Natale, in cui parenti, amici, conoscenti estraggono le più luccicanti maschere d'ipocrisia dall'armadio, assieme a qualche vestito troppo attillato. Nella mia famiglia la tradizione era quella di iniziare agli albori della giornata a spignattare, mille portate che sarebbero state inevitabilmente avanzate e rifilate a tutti gli ospiti che avrebbero mangiato quei piatti per una settimana o due. Mia madre si dilettava con i dolci mentre la nonna sapeva già da almeno un paio di mesi come avrebbe militarmente suddiviso i compiti tra i membri della famiglia, così da aver tempo di prepararsi e andare a quella piena e lunghissima messa. Ogni anno la stessa storia, io che andavo a ubriacarmi con gli amici la sera prima, venivo svegliata da mia madre e dal suo mestolo per dare il mio contributo alla preparazione della grande festa. E ogni anno come una canzonetta che si ripete, mi sentivo urlare che se avessi dormito sarei finita a lavare i piatti per l'esercito di famigliari accorsi per il Natale. Che gran scocciatura, ma se non altro avrei evitato di sentirmi ripetere quanto fossi incapace ai fornelli e sorbirmi gli ordini hitleriani della nonna. Verso mezzogiorno mia madre mi infilava il cane sotto le coperte così che lei mi svegliasse, ma ritualmente si finiva a dormire abbracciate sotto il piumone.
"Su alzati pigrona! Impara a fare meno festa la sera! E, Alice, mettiti lo Chanel rosso!"
Eh si, come se servisse precisare quale Chanel dovessi indossare. Quel vestito mi era stato regalato da mia sorella, di professione modella, qualche anno prima, immagino perché si fosse dimenticata del mio compleanno e mi avesse spedito un suo abito usato per chissà quale sfilata di alta moda negli stati uniti dove abitava. Controvoglia indossai quel vestito, maniche lunghe in pizzo e gonna a triangolo, troppo aderente per me che ero abituata a vestirmi con comodi jeans e felpe oversize. I capelli sistemati in una crocchia scomposta, una sciaquata al viso per togliere i residui del trucco della sera prima ed ero pronta. Chiamai il cane e insieme scendemmo le scale, ma solo a metà rampa mi accorsi che erano le due e che quindi i parenti sarebbero stati già tutti presenti. Compresa lei, e il suo fidanzato. Già, perché la bella modella si era fidanzata con un ragazzo, non propriamente del suo genere. Come avesse fatto a conoscerlo? Molto semplice, era stato il mio fidanzato, prima. E ci eravamo lasciati proprio per questo, perché lui voleva vivere all'estero per avere possibilità di sfondare come tatuatore, perché qui si sentiva in prigione, e perché la bella modella gli faceva gli occhioni dolci.
Quando apparsi sull'ultimo gradino un attimo di silenzio attraversò la sala come un fulmine a ciel sereno, interrotto da una zia che mi corse incontro per abbracciarmi e stringermi tra le sue poderose braccia.
"Bella Alice miaa, quanto sei bellaa, ma sarai mica dimagrita eh? Vieni cara, mangia qualcosa con noi! Guarda, c'è un posto lì in fondo, tra i giovani!"
Mi voltai e tac, eccoli li, imbellettati come due scimpanzé da circo. Mi sedetti di fronte a mia sorella, truccatissima e con un profumo che mi pungeva gli occhi, ma bella da morire. Alla fine un po' ci somigliavamo, occhi chiari, gambe lunghe, denti perfetti. Lei era bionda cenere, seno importante e grasso inesistente, mentre io il seno quasi me lo sognavo, avevo qualche chilo di troppo e una folta chioma scurissima.
"Vedo che ti piace il mio regalo, Ali" mi disse lei.
"Ah si, parecchio" risposi, e una bolla di imbarazzo fece ripiombare il silenzio tra di noi.
Non potevo crederci, lei aveva avuto il coraggio di presentarsi con lui, conscia della mia presenza e del fatto che fossimo stati amanti per molto tempo. Probabilmente lo aveva obbligato, lui non sarebbe mai venuto, non mi voleva vedere. Gli aveva fatto indossare una camicia nera e una giacca grigio scuro che lasciavano in vista i tatuaggi sul collo, chissà quanti pettegolezzi sul suo aspetto da parte della sezione femminile del parentado. Ma non mi importava, non era più un mio problema.
Il pranzo procedette di portata in portata senza problemi, io dopo un paio di piatti mi sentivo scoppiare, mia sorella raccontava per l'ennesima volta come avesse conosciuto il tal stilista, quanti complimenti aveva ricevuto, quanto amava il suo ragazzo. Sempre la solita storia. Erano almeno cinque anni che se n'era andata di casa per seguire il suo sogno americano e ancora raccontava la stessa storia. Finito il dolce mia madre iniziò a notare i miei sbuffi e mi invitò ad iniziare l'operazione del lavaggio delle stoviglie. Almeno potevo andarmene da quella stanza, pensai.
Ero in cucina, un paio di guanti gialli e un grembiule fiorato degno della più fiera nonna del mondo. Dietro ai miei piedi dormicchiava il cane, rimpinzato di nascosto dalle zie grasse e represse che volevano far ingrassare chiunque, pure il nostro povero cucciolo. Alla mia destra l'enorme finestra che dava sul giardino super curato dalla nonna faceva entrare una bianca luce che illuminava la stretta stanza. Avevo le cuffie addosso con la mia musica preferita sparata a mille e non mi accorsi che qualcuno era entrato in cucina.
Sobbalzai quando una mano mi si appoggiò sul fianco, e fece un altro capitombolo quando vidi che quella mano apparteneva al ragazzo di mia sorella.
"Fede.. Cosa, cosa stai facendo? Che ci fai qui?" Balbettai con gli occhi sbarrati, mentre mi toglievo le cuffie un po' di schiuma si appiccicò sulla mia guancia.
"Sono tutti in giardino- disse lui, mentre con il dorso della mano mi toglieva la schiuma dal viso- mi sei mancata".
Ha a! Allora lo ammette che gli sono mancata, faceva tanto il duro ma sotto sotto avevo ragione io! I miei pensieri si espansero nelle mille direzioni possibili: lui che tornava correndo da me attraverso un campo di fiori, o io che lo rifiutavo come una vera eroina per il tacito patto di sorellanza, oppure una relazione segreta pregna di passione infuocata nei ripostigli.
Probabilmente i miei pensieri erano evidenti dai movimenti del volto, che lui conosceva fin troppo bene, e per questo disse:" So a cosa stai pensando, Ali."
"Ma io non sto pensando proprio a nulla -risposi, quasi scocciata- tu piuttosto, perché non sei fuori con Sara?" Perché sei qui? Perché hai accettato di venire a pranzo? Perché mi stai fissando? Perché? Mille domande mi affollavano la mente. La stanza sembrava un fermo immagine, io vestita come Cenerentola al ritorno dal ballo, lui bello come un principe venuto a riportarmi la scarpetta.
"Te l'ho detto Ali, mi sei mancata. Con Sara è tutto diverso, è tutto perfetto." Dicendo queste parole si avvicinò al mio corpo, sfiorando la mia anca con un dito, dove sapeva che c'era un piccolo cagnolino tatuato, quello che lui mi aveva tatuato al nostro primo appuntamento.
Un brivido, anzi una scossa elettrica si innervò nel mio corpo a partire da quel semplice tocco. Non riuscivo neanche a guardarlo negli occhi. Ogni volta che sbattevo le palpebre notavo un piccolo particolare del suo volto, un neo, una croce tatuata, una ciocca di capelli, che mi scatenavano un ricordo di un nostro momento, una risata, una sigaretta, una serata in discoteca, una notte di sesso e una colazione con la pizza del giorno prima. Guardavo fisso le mie mani, avvolte da quegli stupidi guanti da casalinga disperata e l'acqua che faceva le bolle attorno alle mie dita.
"Ecco, l'hai detto tu. Con lei è tutto perfetto. È sempre tutto perfetto." Non l'avevo mai confessato, ma ero sempre stata invidiosa di lei, della sua raffinatezza e compostezza, così del suo essere perseverante nel seguire gli obiettivi che si fissava. Io ero tutto il contrario: goffa, disordinata e costantemente in ritardo.
"A me manchi tu. Mi manca il tuo casino, il nostro casino."
Questa frase mi colpì dritto al cuore, un battito sospeso, come una mazzata sullo sterno. Nessuna parola uscì dalla mia bocca, cercavo di non far notare che le mie ginocchia iniziavano a tremare, che i miei occhi si erano gonfiati di lacrime e che le mia labbra erano diventate come un'arida caverna nel deserto. Mi mancava, da morire. Dopo di lui mi ero chiusa in me stessa come un riccio, nessun uomo era riuscito nell'intento di fare breccia nella mia corazza, come un' altissima muraglia che proteggeva un cuore di cui ancora cercavo gli ultimi frammenti.
Mi mancava, da morire. Ogni suo bacio, ogni suo sorriso, ogni caldo abbraccio sul divano davanti ad un film, ogni notte passata a guardare le stelle dal lucernario spalancato, e non importava che facesse freddo. Ogni corsa sotto la pioggia, ogni lacrima versata e ogni goccia di sudore prima degli esami all'università, ogni birra bevuta alla salute e ogni canna aspirata, come se fosse l'ultima.
Le mie gambe non reggevano, il mio cuore stava battendo ad un ritmo altissimo come se avesse ripreso dopo anni di arresto. Mi voltai di scatto e gli misi le braccia al collo, il mio viso sotto al suo mento e le lacrime che finalmente ritrovavano il solco che si erano create attraverso le sue ossa.
Non servivano parole, tutto quello che ci dovevamo dire ce lo stavamo dicendo in quell'abbraccio, caldo e intimo.
Gli occhi di lui si alzarono per vedere la sua ragazza in quel momento, in giardino voltarsi e vedere la scena che si presentava in cucina che l'aveva lasciata a bocca aperta.
Lentamente ci staccammo da quell'infinito groviglio di braccia e corpi. Mi asciugai il naso con il braccio, quasi mi veniva da ridere pensando a ciò che era appena accaduto: lo avevo odiato e incolpato così tanto per la tristezza che la rottura mi aveva lasciato, eppure un solo abbraccio aveva alleggerito la mia anima.
"Da uno a dieci quanto sono scema a piangere per questo?" Gli chiesi.
"Direi cento. Almeno i tuoi parenti avranno qualcosa su cui spettegolare, e si ricorderanno di questa giornata." Mi rispose, sorridendo.
"Di sicuro resterà negli annali. Grazie Fede, per non farti più odiare."
I nostri sguardi si incrociarono, e ci dicemmo tutto quello che c'era da dire. Un ultimo sorriso, e lui tornò in salone chiamando tutta la famiglia dentro. Io mi affacciai alla porta della cucina, appoggiata sullo stipite.
Davanti al grande albero Fede si mise in ginocchio, come nel più romantico dei film estrasse un anello e chiese alla sua donna di diventare sua, moglie e madre dei suoi figli. Un grande applauso nacque dalla famiglia e qualche lacrima venne versata. Sara si voltò con un sorriso a trentasei denti, mostrandomi fiera il gioiello sul suo dito. Era raggiante, bella e felice.
E io? Io ero in pace e un po' più forte di quando avevo messo piede in quella stanza, di rosso vestita, con un paio di fieri guanti gialli e i capelli raccolti in un vortice di emozioni.
   
 
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