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Autore: Heihei    19/12/2017    2 recensioni
Della vita che ha lasciato, a Beth non resta nient'altro che un buco in testa e qualche incubo. Quindi cerca di tornare indietro, seguendone le tracce.
Nel frattempo, le certezze di Daryl vacillano e ritorna su ciò che ha lasciato, seguendone la luce.
Questa storia NON mi appartiene; mi sono limitata a tradurla con il consenso dell'autrice, che è Alfsigesey. Potete trovare la storia originale su fanfiction.net
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Beth Greene, Daryl Dixon
Note: Traduzione, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Home is nowhere.

 

“Hai sentito l’ultima?”
Aaron riesce a capire Daryl in un modo che al contempo lo allarma e lo mette a disagio. Ogni volta che deve parlargli, lo fa con una certa cautela. Non l’ha chiamata “buona notizia”, come chiunque altro avrebbe fatto, perché ha capito che per Daryl non esistono notizie buone o cattive finché non si rivelano per quello che sono. È semplicemente una notizia, che potrebbe essere brutta per ragioni che Aaron non può biasimare, anche se la trova allettante.
“Su Maggie?”, prova a indovinare, gettando via la sigaretta e osservando la cenere fluttuare oltre i fanali della sua moto.
“Maggie e Glenn.” Aaron scrolla le spalle, discreto come sempre, e comincia a fissarlo in attesa di una reazione che forse potrebbe essere peggiore di quanto si aspetta.
Immagino che dovremmo fare qualcosa per loro, pensa.
Proprio perché è Aaron, non ha bisogno di simulare falso entusiasmo o di nascondere la sua preoccupazione. Lui sa.
“Quando usciremo, potremmo anche vedere di trovare qualcosa per il bambino.” Aaron è un tipo pratico, ma c’è comunque un certo calore nella sua voce quando pronuncia quelle parole. In ogni caso, spera per il meglio.
Daryl sta cercando da tempo di ignorare il dolore, mettendolo semplicemente da parte, a premergli sulle spalle e sul petto come se qualcuno lo stesse stritolando. Ultimamente ha lavorato abbastanza sulla speranza, ma non può dirsi un esperto. Goffamente, cerca di essere ottimista.
“Già, credo che prima o poi avremo bisogno di quella roba...”
Si blocca quando si rende conto di aver già immaginato il peggio, cioè che Maggie muoia prima di mettere alla luce il bambino, il quale nascerà ma non in modo naturale: ha visto Maggie morire come Lori.
A volte può anche andare bene. A volte, per qualcuno, si dice, ed è il massimo della speranza che riesce ad avere. Che vada bene a Maggie e Glenn, a dire il vero, è la sua speranza più cara, ma allo stesso tempo è incazzato. È incazzato perché più desidera una cosa, più finisce nel sangue.
“Esatto”, dice Aaron con un piccolo sorriso. “Vado a salutare Eric e andiamo. Mi dai dieci minuti?”
Daryl annuisce con le mani in tasca. Non ha tutta questa voglia di uscire. In genere non vede l’ora di allontanarsi da quelle mura, ma andiamo, ritornare ?
Ne ha discusso con Glenn la sera precedente a quella in cui gli avrebbe annunciato che Maggie è incinta, con parole piuttosto pungenti. Da allora non sono esattamente in buoni rapporti e, neanche a farlo apposta, appena alza la testa lo vede attraversare la strada, dritto nella sua direzione.
“Ah, merda”, borbotta. Non riesce mai a stare un attimo da solo. Cosa dovrebbe fare? Costruire delle recinzioni da mettersi intorno?
Sbuffa, perché lui e Glenn non sono come due semplici vicini che possono mettere da parte le loro differenze per chiarirsi; Daryl morirebbe per Glenn e Glenn morirebbe per Daryl. Daryl può anche stare fuori per settimane, lasciando la situazione tra loro così com’è rimasta, ma Glenn no. Glenn se ne preoccupa. Ce l’ha scritto in faccia che vuole chiarire prima che lui torni di nuovo tra i boschi.
La sua espressione è tesa mentre si avvicina; le labbra ridotte a una linea sottile.
“Hey”, lo saluta guardando il cancello.
“Cosa vuoi dirmi, Glenn?”
Ha gettato via quella dannata sigaretta troppo presto e adesso lo osserva tentatrice dal terreno, conscia del suo rammarico per averla abbandonata.
Dopo aver sospirato e serrato più volte la mascella, Glenn tira fuori la rabbia che la volta scorsa ha messo da parte. “Dovresti andare avanti, Daryl.”
“Ah, dovrei? Non sono io quello che ha il problema.” Si è sentito come scottato, ma sa anche di aver appena detto una puttanata enorme.
“È già passato un mese e siamo stati fortunati. Niente che Rosita non possa gestire, ma questa comunità ha bisogno di un dottore e ne conosciamo solo uno attualmente vivente là fuori. Ora Maggie è incinta. Non vuoi che partorisca come Lori, giusto?”
Cazzo, non metterla così!
Daryl si limita a scuotere la testa, contraendo la mascella. È una situazione completamente diversa, ma non abbastanza diversa. I sensi di colpa cominciano a farsi sentire.
“Senti, ti ho già detto che ci tornerò, quindi non capisco che diavolo vuoi ancora da me”, dice tra i denti.
“Voglio tu capisca perché è importante. Voglio che ci pensi. Perché dovrei essere io a portare Aaron al Grady? È il tuo lavoro cercare le persone e conosci meglio l’ospedale.”
“Non sono brave persone.”
“Beh, non sono cannibali!” Glenn fa battere entrambe le mani sulle gambe in segno di esasperazione. “Ti capisco, ok? Non sarebbero stati neanche la mia prima scelta, ma di fatto lo sono, perché non c’è nessun altro! Ci siamo scontrati ed è andata male, ma non sono dei mostri. Stanno cercando di sopravvivere con una specie di loro organizzazione e magari tutto quello che gli serve è un posto come questo. Rick voleva farli venire con noi!”
Daryl ha scosso di nuovo la testa, ad ogni singola parola. “Se si fosse trattato di Maggie, saresti mai tornato indietro?”
Il silenzio che segue è più forte di una campana e sente di non riuscire più a respirare bene come prima. Qualcosa scatta nello sguardo di Glenn appena realizza quello che gli ha detto- quello che non ha mai avuto il coraggio di dire- e lui vuole solo smettere di guardarlo. È rimasto a bocca aperta, incapace di rispondere prontamente.
Tossendo silenziosamente, Daryl si volta e da un calcio alla cicca spenta ancora impiantata nel terreno. “No. Non torneresti.”
“Forse no”, risponde piano, “ma pensa alla prigione, a tutte le cose terribili che sono successe lì. Tara è comunque venuta con noi.”
Non è la stessa cosa e lo sa, quindi non gli risponde neanche. Lo guarda soltanto, perché è abbastanza intelligente da arrivarci da solo. La verità è che Daryl vuole tornare in Georgia per un solo motivo e il suo piano non include assolutamente che Aaron parli con quei bastardi del Grady per convincerli a venire ad Alexandria.
“Solo… pensa al bambino, per favore.”
“Glenn. Ho detto che ci vado”, ha parlato a malapena.
“Grazie, ma non è abbastanza. Devi vederla come una missione. Noi abbiamo bisogno di un dottore così come tu hai bisogno di tornare là.”
Daryl non può sapere che cosa avesse intenzione di dire con quelle parole, né ha intenzione di chiederglielo. Guarda semplicemente il terreno finché finalmente non sparisce dalla sua vista, lasciandolo solo con la sua moto e con la lunga strada che ha davanti.

 

 

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Sente una sveglia suonare, ma non è House of the Rising Sun degli Animals, il che è un peccato, perché Beth pensava che potesse essere una buona idea per una sveglia.
Cerca di muoversi per afferrare il suo cellulare, ma il sonno non l’ha ancora lasciata del tutto libera: riesce a muovere a malapena le dita e, tra l’altro, non è la suoneria del suo cellulare a svegliarla. È un trillo pulsante, ripetuto, stridulo, molto simile a un cinguettio. Forse proviene da un’altra stanza. Con un gemito, prova a muoversi di nuovo, inclinando la testa. Più che le dita, adesso tutto il suo corpo sembra pesante e affaticato, come se avesse dormito avvolta in un nodo strettissimo.
È buio. Forse è la sveglia di suo padre, il quale vorrà il suo aiuto per qualche lavoretto prima della scuola. Sua madre verrà a svegliarla a momenti. Apre gli occhi e non vede niente; si siede. Fa caldo, ma non ci sono coperte, e ha la gola secca. È in un ambiente chiuso e ristretto; la testa le fa dannatamente male.
Il panico prende subito possesso di lei. Le sue grida sono più forti dell’allarme dell’auto. Ora, infatti, può dire che non è la vecchia sveglia di suo padre a dirle di alzarsi, ma l’allarme, probabilmente antifurto, di un’auto. È così buio e la forma dell’abitacolo in cui è chiusa è strana, squadrata. Distende una gamba e allunga un braccio. La sua mano si blocca su un soffitto basso e metallico, mentre il suo piede incontra qualcosa di più morbido. Le nocche posate sul pavimento si scontrano con qualcosa di più duro e lungo, sempre di metallo: un piede di porco.
Si blocca non appena riconosce il piccolo ambiente. È chiusa in un bagagliaio e per qualche ragione ricorda esattamente come ci si sente, anche se è sicura di non essere mai stata chiusa in un cofano prima di quel momento.
Perché mi è così familiare?
I suoi occhi non si sono abituati all’oscurità, ma riesce a capire da che lato si trovano i sedili posteriori e la porta. Quest’ultima sembra essere chiusa, ma prega di riuscire ad abbassare i sedili con la leva che ha appena trovato sul pavimento.
Ti prego, funziona.
I sedili si abbassano e viene investita da una forte luce dorata. Deve essere mezzogiorno.
Quando si arrampica sui sedili posteriori di quella che scopre essere una Honda Accord nera e vi si siede, ancora intontita e con gli occhi che le bruciano per la troppa luce, si accorge di avere ancora il piede di porco nella mano non ingessata. Continua a stringerlo. Il pensiero di posarlo la fa sentire scossa, impaurita; quindi non lo fa, ma continua a mantenerlo come un’ancora di salvataggio mentre sbatte le palpebre. La sua vista si fa più nitida.
“Dove mi trovo?”, chiede, anche se non c’è nessuno che possa risponderle. Ha avuto bisogno di sentire la sua stessa voce, anche solo per assicurarsi di riuscire ancora a parlare.
Appena le si schiarisce la vista, da una sbirciata fuori attraverso i finestrini scuri, esce dall’auto e trova di fronte a sé uno stradone lungo e deserto. Più avanti, c’è un camion dei pompieri ribaltato e macchiato di quello che sembra sangue, o comunque di qualcosa di similmente orribile. Anche da quella distanza, riesce a vedere che i finestrini sono completamente ricoperti da schizzi di quella robaccia. È un disastro così imponente che le ci vogliono alcuni secondi per guardarsi attorno e rendersi conto che ci sono altre macchine, anch’esse dipinte di rosso e ferme in mezzo alla strada, noncuranti della possibilità di disturbare il traffico.
Si sente come se l’avessero catapultata in quel gioco in cui devi individuare tutto ciò che c’è di sbagliato in ciò che vedi. Se fosse stato davvero così, adesso avrebbe molte risposte da dare. Infatti, la prima cosa che si chiede è che ci facciano tutti quei veicoli dal lato sbagliato della carreggiata. A quel punto, il suo sguardo viene catturato dalle corsie destinate al senso di marcia opposto, che sono costeggiate da macchine ferme e vuote. Stando allo stato in cui si trovano, devono esserlo da anni.
Stringe il piede di porco con entrambe le mani e il suo gesso si curva, ma non può fermarsi. L’antifurto in lontananza smette di suonare; dev’essere morta la batteria. Le sue spalle si rilassano. Continuando a passarsi l’arma tra le mani, si accorge che c’è qualcosa a sporcare la sua mano ferita, qualcosa che si sta sbriciolando. Realizza di avere del sangue secco sotto le unghie, ed è dannatamente fastidioso. Lo trova anche sui capelli, ma ha paura di seguirlo fino alla fonte. Sa che viene dalla testa.
Fa comunque un tentativo, toccandola proprio lì dove si concentra il dolore, ma non sta sanguinando. In ogni caso, deve aver preso un brutto colpo alla testa.
E niente è più familiare o ha senso.
Tranne il fatto che mi trovavo in un bagagliaio.
Ripensa a quanto è stato strano svegliarsi lì, al buio, e si sente come se ci fosse già stata. Le viene in mente un’immagine, accompagnata da una sensazione.

È seduta all’interno di un grande bagagliaio, rannicchiata su se stessa; un lampo argentato le illumina il viso: la lama di un coltello. Non è sola, c’è un uomo seduto accanto a lei, mentre lì fuori sta succedendo qualcosa; qualcosa di chiassoso e feroce, come una tempesta. La luce si insidia nell’abitacolo tramite una piccola apertura e illumina una coppia di occhi azzurri e vigili...

Quella in lontananza è decisamente Atlanta, ma… non può essere. È morta.
Non c’è nessun altra parola per descriverla. Anche da quella distanza, Beth può infatti constatare che è priva di vita. Se dovesse raggiungerla, sa che troverebbe le stesse identiche cose: altre macchine, altre cose in frantumi, altro sangue.
Cosa è successo? Sono all’inferno?
Non ricorda di essere morta e forse non lo è. Non è sicura di quello che avrebbe potuto combinare per assicurarsi un posto all’inferno, o perché esso debba assumere le fattezze di Atlanta, ma non ha molti elementi a disposizione per capire.
Qual è il mio ultimo ricordo?, si chiede, ma le sfugge. Non ha un ultimo momento da ricordare; solo emozioni vaghe. Pensa a un suo vecchio compleanno; a come riuscire a sbrigare le faccende di casa nel modo più veloce possibile per poi uscire a cavalcare con suo padre; a come mettere le distanze tra lei e Jimmy senza che sembri imbarazzante; alle insoddisfazioni ottenute a scuola; al piacere di creare una playlist. Cose normali.
Non riesce a ricordare niente; niente che riguardi la sua ferita alla testa o la sua mano stretta con veemenza al piede di porco, né tantomeno qualcosa che la aiuti a capire lo stato del mondo in cui si è svegliata.
Perché sono sola?
Ha dimenticato delle cose. Ha dimenticato perché si è svegliata in quel bagagliaio, eppure ricorda un paio di occhi azzurri e la sensazione di essere al sicuro, nonostante la tempesta.
Improvvisamente, distoglie l’attenzione da Atlanta a causa di uno strano rumore. Sembra ringhioso, strisciante. C’è una persona accanto al camion dei pompieri. È nel bel mezzo della carreggiata e a stento si regge in piedi.
“Hey!”, grida lei, scattando in direzione di quella figura. “Aiutami! Ho bisogno di aiuto!”, la sua voce trema non appena sente la paura insidiarsi dentro di lei, ma non ne comprende il motivo.
L’estraneo si volta e comincia a muoversi verso di lei, permettendole di fermare quella patetica corsa.
“Stai bene?”, gli domanda, anche se non può stare bene: è visibilmente ferito ed è interamente grigio a causa della polvere e della sporcizia che lo ricoprono. Più si avvicina, più le sembra brutto e sporco.
“Oh mio dio...”
La paura la travolge definitivamente quando lo sente ringhiare. Nota che ha la mascella rotta, che gli ricade da un lato fino alle clavicole. Allunga le braccia verso di lei e la pelle gli scivola di dosso, scoprendo un osso rotto.
È vicinissimo al suo viso e non pensa a nulla, perché non ne ha bisogno. Il suo corpo sa cosa fare, anche se la sua mente è ancora focalizzata sull’immagine di quel morto vivente così affamato e disidratato. Il piede di porco si fa strada tra la carne putrefatta attraverso le sue fauci spalancate, infilzandogli il palato e sbucando nuovamente fuori dal centro della sua testa. Gli ha sbriciolato il tronco encefalico.
Sotto shock, Beth si ferma ad osservare quell’essere privo di vita. È così marcio e malandato che deve essere morto già da molto tempo, da prima che spingesse il piede di porco nella sua bocca.

L’ho abbattuto proprio così, attraverso la bocca!”
È la voce di Maggie; un lieve sussurro da molto tempo fa.
Sua sorella ha il viso ricoperto di sangue, ma sorride e ha le lacrime agli occhi.
“I ragazzi puntavano tutti ancora al petto, stavano cercando di perforare le armature!”, ride, cercando di pulirsi con un braccio.
I suoi occhi verdi sono quasi entusiasti mentre fa ruotare il suo pugnale, pulito almeno fino al punto in cui il manico non incontra la lama.

Ha un capogiro e fa qualche passo indietro, con il piede di porco insanguinato che le va a sbattere sulle gambe. Respira profondamente e cerca di non pensare a quanto le sue ginocchia siano diventate improvvisamente deboli. Ripensa a Maggie; a Maggie che uccide dei vaganti. A lei che uccide dei vaganti, ma solo dopo aver visto come lo fa lei e… come lo fanno gli altri. Ci sono degli altri. Ci sono degli altri, ma non riesce a ricordare le loro facce.
I vaganti sono ovunque. Sono persone- o meglio, sono quello che diventano quando muoiono. È per questo che il mondo è così adesso, ma da quanto?
Sembra un incubo, ma Beth comincia a cercare lentamente quello di cui ha bisogno nella sua testa. Si ricorda dei vaganti, ma non ha idea di come e quando tutto sia iniziato. Non ricorda chi si è trasformato.
Analizza la sua mano tremante, ma sembra decisamente viva. Lei non è un vagante, o almeno non lo è ancora.
Perché sono sola? Dove sono mamma e papà? Dov’è Maggie? E Shawn? Che fine hanno fatto Otis e Patricia?
Lei è la più debole e la più giovane di tutti. Dato che non è con loro, avranno sicuramente pensato che sia morta. Non ha molte altre opzioni da considerare: deve andare a cercarli e c’è solo un posto dove ricorda di averli visti tutti.
Nella sua testa, la fattoria dei Greene è ancora un paradiso. Non ha nulla a che vedere con l’inferno in cui si è svegliata.
Atlanta è morta.
La strada è lunga.
Ma casa sua è da quella parte.


 


 

Note traduttrice:

Ribadisco che questa storia non mi appartiene in nessun modo, mi sono semplicemente limitata a tradurla con il consenso dell’autrice, che è Alfsigesey, un’utente di fanfiction.net.

So che sto traducendo già un’altra sua storia, e ne approfitto per scusarmi immensamente per l’attesa. Il fatto è che… mi sono imbattuta in quest’altra che non avevo mai letto e mi ha decisamente rapito. Perciò, ecco a voi.

In totale, sono solo 11 capitoli ed è anche piuttosto breve. Quindi vi giuro che, se vi piace, non dovrete aspettare molto :)

Baci,
Heihei.


 

Note autrice (Alfsigesey)

Dopo le prime bozze, alla fine mi sono convinta a scrivere una Bethyl-amnesia! Probabilmente, non sarà così lunga (HA, VI RICORDATE L’ULTIMA VOLTA CHE HO DETTO UNA COSA DEL GENERE?!) e ho in piano di far recuperare la memoria a Beth in modo progressivo e abbastanza veloce.
Personalmente, sono dell’opinione che il proiettile abbia completamente mancato il suo cervello, o quasi, quindi questa storia è basata sulla teoria che sostiene che la traiettoria del proiettile NON sia un errore della produzione…
Alla fine, ci sono molte storie che iniziano con: “e se gli autori non avessero mandato tutto a puttane?!”
Comunque, un mio amico conosce qualcosa in più sulle ferite serie alla testa rispetto a me e, dopo avergli detto che secondo me il proiettile l’ha completamente mancata, mi ha detto che nell’ipotesi in cui il proiettile abbia solo sfiorato il suo cranio, nell’entrata e nell’uscita, Beth potrebbe essere viva e soffrire, oltre al trauma psicologico, di una temporanea amnesia e di uno shock idrostatico. Così, alla fine ho scrollato le spalle e gli ho detto “ok, lo scriverò”, quindi ecco qui la mia Bethyl-Amnesia!
Alcuni ricordi saranno momenti che abbiamo visto nella serie, altri sono dei potenziali missing moments.
Alternerò sempre i punti di vista di Daryl e Beth, come ho fatto in questo capitolo.
Sono accetti pensieri, battute, suggerimenti, critiche costruttive ecc.
Se la leggerete, grazie!

   
 
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