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Autore: Deceptia_Tenebris    19/12/2017    0 recensioni
Cecilia è la classica ragazza piena di problemi ma con sempre un sorriso sarcastico a dipingerle le labbra, con una madre divorata dai demoni del passato, di cui la vita è scandita tra momenti a scuola, a casa e fuori casa, dove nessuno dovrebbe vederla. E' acida, fragile, un po' egoista e sentimentale ma vorrebbe portare le sue emozioni a uno stato di sterilizzazione.
Alice invece è di poco differente; è una ragazza dal passato misterioso, dal carattere difficile da inquadrare, forte, spiritosa anche nelle situazioni più impensabili, a cui le capitano di tutti i colori.
Cosa avrebbero in comune queste due ragazze, a parte la loro dipendenza per il fumo? Forse qualcosa del passato.
Oppure qualcuno che sconvolgerà le loro piccole, grandi esistenze.
Genere: Dark, Romantico, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Cecilia
 
 
 
Uno strano lampo di luce, accompagnata da un ronzio metallico, mi risvegliò bruscamente.
Socchiusi le palpebre, riconoscendo quel classico profumo d'incenso che aleggiava nella mia camera per coprire quello da fumo che si sentiva in tutta la casa. Con un mal di testa da record, che madonna santissima preferivo trapanarmi la tempia con un proiettile a bruciapelo, cercai di sollevare cautamente la testa con pochi risultati. Riuscivo a malapena ad aprire gli occhi e sentivo uno strano sapore acido in bocca, tutto pastoso. Un bel risveglio insomma.
«Buongiorno signorina. Sono le sei».
Oddio no. Non quella voce. Pregai che fosse semplicemente un’allucinazione per i fumi dell'alcool come per Edgard Allan Poe o che fosse un incubo in cui potevo risvegliarmi, con la certezza che lei non esistesse. M'immaginai con tutte le forze che quella voce fosse un frutto malato della mia mente. Ma a quanto pare non era così.
«Sveglia cogliona, lo so che ti sei sveglia. Non fingere».
Perfetto. Non era né un’allucinazione né un incubo, ma sicuramente la realtà. Ed era peggiore.
«Buongiorno anche a te, mammina cara» biascicai laconica, rintanandomi sotto le coperte.
Sclero fra tre, due, uno… «Mammina cara un corno, hai capito stronza? Alzati subito se non vuoi che ti alzi io come si deve. Con tutte le botte che dovresti meritarti, altroché» ringhiò.
Era sempre bello svegliarsi con una mamma affettuosa come la mia. Miele per le orecchie.
«Alzati ora, Cecilia. Se non vuoi che m’incazzi» replicò, trattenendosi di sbuffare come una stufa.
Se non vuoi che m’incazzi. Mi trattenni a replicare velenosamente per sfidarla e mi morsi la lingua. Trovavo sempre divertente quella frase perché poco dopo partiva giù di botte, da donna coerente che era. Ma era meglio ascoltarla, mi sentivo troppo uno schifo per discutere di prima mattina.
Con uno sforzo brutale, costrinsi il mio corpo a sollevarsi dal letto e l'ennesimo impatto con la realtà fu la figura di mia madre nell'angolo della stanza, che mi osservava cupamente, l'espressione del viso distorta da una furia bestiale a stento controllata. Dovevo ormai essere abituata a quella scena o almeno reagire con indifferenza, ma la medesima paura di quando ero piccola mi bloccò nel mio posto. L'avrei sempre detestata per il potere che aveva su di me quando mi guardava in quella maniera. Era più forte di me, non la sopportavo e automaticamente sentivo le sue mani su di me.
Ci un silenzio pesante, talmente denso da poter essere tagliato con un coltello. Non osavo respirare.
Lei trasse un respiro profondo, le narici a fremere impercettibilmente. Lo fece due volte di fila.
«Vestiti e vai a scuola, Cecilia. Non ti voglio neanche vedere in casa, sennò è la volta buona che ti mando in ospedale. Fuori dalla mia vista e basta» sussurrò. Era rimasta calma e aveva scandito lentamente le parole, come se volesse marchiarle a fuoco nella mia mente.
Non feci segno di reagire. Inchiodai gli occhi nelle assi del pavimento e attesi che se ne andasse dalla mia stanza, con il cuore che palpitava sulle orecchie. “Vattene via. Vattene”.
Era questo che mi dicevo da quando aveva incominciato a picchiarmi da piccola, quando desideravo semplicemente che non mi sfiorasse più. Una volta lei non era così. Ma quella era un'altra vita.
Dopo un paio di attimi, se ne andò, i passi a echeggiare per le scale. Ed io ritornai a respirare.
Con la lentezza di un bradipo, mi sistemai e mi vestii dopo aver bevuto una tachipirina per far tacere i fuochi d'artificio che scoppiettavano dentro la testa. Stavo utilizzando tutte le mie forze pur di uscire fuori da lì. Non volevo neanche sapere com'ero giunta a casa dopo la serata di ieri, anche se mi ricordavo vagamente di aver bevuto. Non m'importava. Con l'attività motoria di uno zombie, uscii di casa e sebbene camminassi piuttosto lentamente, feci in tempo a prendere il pullman senza ritardi.
Non che la mia voglia di andare a scuola quel giorno fosse al massimo eh.
Quando giunsi nella mia fermata, lì ad attendermi c'era il solito gruppo che appena mi vide, sbarrò gli occhi e assunse un’espressione o perplessa o stupita. Tutti contemporaneamente.
Dovevo essere uno spettacolo per lo sguardo.
«Madonna che aspetto... ».
«Di merda».
Guardai prima Veronica, che aveva incominciato la frase senza sembrare troppo maleducata, per poi spostare lo sguardo su Michael che aveva chiarito il concetto senza tanti giri di parole.
Sbuffai e sorrisi debolmente. «Ho passato giorni migliori. Andiamo?».
                                                                                                    
***
 
C’era sempre qualcosa d’inquietante nel qualcuno che stava ad ascoltarti. Ma ad ascoltarti veramente. Il volto contratto, inespressivo ma concentrato, la pelle del viso lievemente tesa come il sospiro mancato di un morto, decorato da un pallore spettrale simile alla carta che assorbiva le parole d’inchiostro che dettava la mia voce, le orecchie in allerta, l’ombra scura che velava lo sguardo quasi come in un senso di vuotezza che desiderava scavarti l’anima e accogliere tutto ciò che stavi buttando fuori. Il silenzio.
In quel momento, la benché minima traccia di quella sensazione non era presente.
Loro mi osservavano e la loro posizione suggeriva perfino un coinvolgimento emotivo di cui ero conoscenza, ma il silenzio non era liquido o sospeso, ma inquinato da tutti gli altri pensieri e problemi che li affliggeva dentro, destando quella poca attenzione alla sottoscritta che stava dando voce ai demoni interiori che mi stavano divorando viva. Non mi sentivo ossessionata. No, quello era un termine troppo crudele e specifico. Era la semplice verità e quella scioglieva la mente come acido. Quando terminai, assunsero quell’espressione che temevo tanto nelle persone quando mi guardavano. L’espressione di una che sembrava uscita di senno.
Poi Michael scoppiò a ridere nervosamente. «Non saprei seriamente che dirti».
Feci una smorfia e con un gesto sistemai una ciocca scura. «Sei proprio di grande aiuto».
Veronica mi guardò con serietà, anche se si vedeva che aveva per la testa altro. Probabilmente stava pensando a suo fratello, che non era uno stinco di santo. Non era andato a scuola nemmeno quel giorno, glielo si leggeva in faccia dalla preoccupazione che le segnava la fronte con delle impercettibili rughe. Mi sentii in colpa all’istante per non aver pensato neanche a lei.
«Non è la prima volta che ti capita una cosa simile…» incominciò. Mi lanciò un’occhiata di rimprovero. «E tu dovresti smetterla di bere come fa tua madre e di fare l’irresponsabile». Il viso si oscurò, parve sibilare dall’irritazione. «Soprattutto se è vero quello che dici».
Un luminoso abisso di consapevolezza mi colpì in pieno petto.
Svoltai il viso, non avendo nemmeno il coraggio di guardarla. Non avrei mai realizzato davvero quelle sue parole.
«Lo so.» mi limitai a dire, piena di vergogna.
L’ennesima ora di supplenza stava incorniciando quel momento catastrofico.
Con le guance che ribollivano e con l’attacco di tachicardia dovuta dall’ansia inattesa, mi rialzai barcollante e prima che il mio amico riuscisse a prendermi il polso e bloccarmi per farmi ragionare, sfuggii via senza una parola, con la pelle che stava ardendo incandescente. Uscii dalla porta senza chiedere il permesso al prof di turno, che per giunta non mi diede il minimo della sua attenzione, e sentii qualcuno che chiamò il mio nome. Quelle parole che Veronica aveva espresso con tanta asprezza, colpirono il segno come mi era accaduto spesso quando mi diceva la verità in faccia. Quando quei tratti armoniosi si mutavano inaciditi e taglienti quando si sentiva in dovere di riferire una realtà che non le piaceva, che non entrava nella sua filosofia. E il bere non faceva parte di essa.
Avevo bevuto, quella sera, per la violenta litigata che aveva avuto con mia madre, troppo intensa per essere sopportata normalmente. Mi sentivo giustificata, mi sembrava una scusa più che valida. Così avevo bevuto per scordare, anche se avrei dovuto incominciare a scrivere sulla mia vita per dimenticare veramente. Che cosa avevo pensato quando stavo mettevo giù l’ennesimo bicchierino?
Mi ricordo che sogghignavo amaramente. “Si beve per ricordare e si scrive per dimenticare”?
Faceva parte di un libro che avevo letto…  Il gioco dell’angelo forse? Sì, era quello.
Mi era piaciuto così tanto.
Ma quella persona, quella che mi aveva “aiutata”, che aveva sussurrato il mio nome.
E che non mi aiutava a scordare. Non era la prima volta che la incontravo.
Sembrava che m’inseguisse dappertutto, che non mi lasciasse un attimo di respiro. Sentivo i suoi occhi che assecondavano ogni movimento, anche da lontano, sebbene non lo avessi mai visto in faccia. Era un'ombra silenziosa che non demordeva, un alone oscuro che non possedeva un volto e che negli ultimi mesi, da quasi un anno, mi stava trascinando verso un baratro d'insicurezza e paura che mi rievocava dolori troppo intensi da rivivere. E che mi portavano a velocizzare il passo.
Mi rifugiai in bagno, mentre i postumi della sera prima improvvisamente desiderarono allegramente di farsi sentire di nuovo.
Mi ritrovai poco dopo piegata a metà nel water. Vomitai in maniera così inattesa che in un attimo di tregua, mi resi conto che tremavo convulsamente, sudavo e lacrimavo.
E percepivo un gran freddo, che non aiutava di certo nella mia posizione, con il polso che aveva un alone rosso, forse perché mi c’ero appoggiata prima senza che me ne accorgessi. E avevo male dappertutto. Non riuscivo più nemmeno a reggermi per le braccia da quanto tremavano. Ero ancora in quel bagno lercio quando bussarono lievemente alla porta.
Con tre colpi quasi inesistenti. Conoscevo bene quel modo dii agire e d'istinto, forse per le parole che mi aveva detto Veronica e che ricominciarono nuovamente ad echeggiare nella mia mente, sentii dell'acido salirmi in gola e ritornai a salutare quello che in quel momento era il mio migliore amico. Il bussare alla porta si fece più insistente. Ansioso. Paranoico.
Con un colpo di tosse che mi bruciava la gola, dissi: «Lasciami stare.».
«Dai Cecilia. Per favore, fammi entrare». La sua voce era supplichevole. Dolcissima.
Il mio tono invece si fece più rabbioso. E disperato. Non volevo che entrasse, per niente al mondo. «Ti prego, lasciami stare. Non voglio nessuno... Soprattutto te. Non è il momento» cercai di farlo ragionare. Desideravo solo che uscisse dal bagno delle ragazze e ritornasse da dove era venuto, lasciandomi sola. Batté di nuovo la porta un paio di volte, poi non fece più niente.
Rimase lì, in silenzio, in attesa.
Poi parlò, con la sua voce che non era cambiata di una nota. «Lo sai che Veronica ha ragione».
Sputai sul water infastidita, per poi mettermi la testa fra le gambe per riprendere fiato.
«Lo so che ha ragione. Non avevo bisogno che venissi tu per ricordarmelo» gli ringhiai addosso.
Continuava a farmi ricordare. A non farmi trascurare neanche un singolo dettaglio di quello che mi bruciava. Mi veniva solamente da piangere, volevo che la sua presenza scomparisse senza lasciare nessuna traccia, che abbandonasse gli incubi di cui era diventato felicemente il re.
Sebbene il suo tono e i suoi modi, pescati dall’arsenale del diavolo per trascinare la mia anima in un bivio di terrore e tormento, facessero intendere tutt’altro.
 «Allora perché non la ascolti? Apri gli occhi una volta tanto». Eccolo di nuovo.
 «Lasciami. In. Pace. Lasciami!» urlai, stringendomi la testa fra le mani, afferrando le orecchie come se volessi strapparmele di dosso e non sentire più nulla. «Qualcuno mi aiuti!» gridai con tutto il fiato che avevo. La voce rimbalzò nelle pareti del bagno.
Ci fu interminabile momento di silenzio, con le mie urla che mi rimbombavano ancora in testa, io che attendevo un movimento o un colpo che sancisse la mia fine, qualsiasi cosa fosse.
Ed eccola lì, l’inquietudine di qualcuno che ti stava ad ascoltare. Niente calore, niente morbidezza. Solo uno stato mentale di statica freddezza che accoglieva tutto come un pozzo interminabile.
«Ci sono delle tachipirine nella tasca dei pantaloni. Prendile» sussurrò rigidamente, sentendo che stava accennando un passo in più verso la porta della mia cabina, per poi fermarsi e prendere saldamente la maniglia e percuoterla violentemente, come se avesse l’intento di strapparla. Iniziai a singhiozzare e a tenermi stretta fra le braccia, mentre sentivo che la presa diventava sempre più ostinata mentre non possedevo nel frattempo nessuna arma che mi potesse essere utile per difendermi da quel pazzo.
«Ti prego, ti prego...».                                                                                                                                                                                              
«Ragazza, apri la porta! Che succede?! Apri subito!». Ma quella non era la sua voce. Sembrava...una bidella. Quella che faceva sorveglianza alla terza ora. Con ancora il viso bagnato dal pianto, aprii la porta chiusa a chiave, completamente sfinita e pronta per ricevere su parole per urlato come se mi stessero squarciando viva, ma non feci nemmeno in tempo a riprendere fiato o a battere le palpebre, che fui presa e scaraventata per terra e due mani fortissime presero a spingermi contro il pavimento, mentre il suo corpo solido stava sopra di me per tenermi ferma. Iniziai a dibattermi ferocemente, le braccia distese lungo i fianchi bloccate dalle sue ginocchia. 
Ero completamente immobile, gli occhi serrati dalla paura più folle. Ero sicura che se li avessi aperti, sarebbe stato l’ennesimo errore che mi sarebbe costata cara la vita. O la sanità mentale.            
«Apri gli occhi Cecilia» sibilò. «Lo dovrai fare, lo sai vero? E allora ti renderai conto di chi sei».  Mi lasciò addosso un vago odore di fumo. Le riconobbi subito: malboro rosse. Le mie preferite.
 
***
 
 «Dai tesoro, svegliati. Fra poco arriva il pronto soccorso». Sentii qualcuno che mi stava tenendo le gambe, una mano leggera ma fresca che mi dava dei buffetti sulla guancia per tentare di farmi reagire. In un angolo recondito della mia testa, mi accorsi che non la smettevo di tremare e che avevo il corpo gelido. E che ero distesa su un pavimento. Questa sensazione sapeva molto di un déjà-vu parecchio sgradevole. Con perfino le palpebre che tremavano, aprii gli occhi e vidi quattro volti distesi su di me che mi osservavano tra il preoccupato, l’ansioso e il severo. Una delle bidelle, una con i capelli corti e rossi dal viso simpatico, da folletto, sorrise sollevata e fu la prima che vidi.
«Oh finalmente. Hai battuto la testa, mi sai dire dove ti fa male?».
Un dolore pulsante all’altezza della tempia destra rispose a quella domanda e con un dito, m’indicai il punto. Non riuscivo a parlare, la lingua sembrava fatta di carta vetrata. La bidella annuì. 
«Riesci a parlare? Sai dirmi il tuo nome? Prima hai anche urlato. C’è qualcuno che ti ha fatto questo?».
Annuii, le labbra secche e screpolate. «Sai dirmi chi?». Negai senza rispondere.
Le bidelle si scambiarono uno sguardo serio.
Madonna, neanche fosse in punto di morte. Con uno sforzo sovrumano, feci intendere che desideravo alzarmi e appoggiarmi da qualche parte, ma la bidella di prima mi fece segno delicatamente di mettermi giù con un sorriso e mi sorresse la testa mentre Veronica, che a quanto si diceva del suo viso era sia preoccupata, che furiosa, che in preda ai sensi di colpa, le porse una bottiglia d’acqua con una pastiglia che mi fecero buttare giù lentamente, senza il rischio che soffocassi. Una bidella bionda, piuttosto in carne e con un trucco improbabilmente blu, aggiunse: «Per fortuna abbiamo trovato quelle tachipirine sulla tua tasca, sennò non avevamo niente da darti. Dato che la tua amica ci aveva avvisato delle tue condizioni» mormorò piano, lanciando un’occhiata con l’interessata.
Quella non ricambiò lo sguardo.
Rimase in silenzio, non guardava nessuno se non il muro, il volto contratto da sensi di colpa così intensi da divorarle ogni altra espressione facciale. Non le diedi molto conto, perché rimasi paralizzata per ben altro. Furono quelle parole che disse prima:
Per fortuna abbiamo trovato quelle tachipirine nella tua tasca”.
Quelle tachipirine, nella mia tasca, non le avevo mai messe però. E appena arrivò l’ambulanza per scortarmi in pronto soccorso, con gli uomini che mi parlavano gentili e mi facevano delle domande mirate per capire la mia situazione, riuscii a realizzare che stavo impazzendo. Lo capii da come mi guardavano: nessuno mi credeva.
 
   
 
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