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Autore: yonoi    20/12/2017    4 recensioni
Estate 1920: Hansi Wallemberg, cinque anni aggrappati a una grossa cornice col ritratto del padre decorato al valore, arriva dal suo paese di montagna a casa di Iolanda e Arrigo Drusiani. Sarà il loro piccolo affido per questa estate. Arrigo Drusiani ha combattuto nella Grande Guerra, sua moglie Iolanda è esperta nell’arte di riparare le cose. Con i Drusiani, Hansi stabilirà quel rapporto di affetto di cui ha così intensamente bisogno: partito per il fronte, suo padre non è più tornato, e sua madre, che non ha mai smesso di attenderlo, trascorre le giornate sulla soglia di casa.
Col tempo, si prefigurano per Hansi lunghi inverni in collegio, e in seguito l’Accademia militare: qui, si lega sempre più ad un coetaneo che suscita in lui una forte ammirazione, fino ad abbracciarne i valori e ad arruolarsi nelle SS. Sarà l’incontro - fugace e irrepetibile - con il vero amore della sua vita, a provocare in Hans un cambiamento sofferto, eppure definitivo.
Genere: Angst, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nell’ora in cui Arrigo rientrava dal servizio, e cominciava trafficare con la serratura un poco dissestata della porta, in mano un mazzo di chiavi che ad Hansi pareva in grado di aprire tutti gli usci del mondo, qualcosa nell’atmosfera della casa si trasformava. Persino la luminosità delle lampade si faceva più intensa all’unisono con l’emozione della Iolanda, che le correva fin sulla punta delle dita e le rendeva bianche, più sensibili del solito mentre salutava Arrigo con un cenno del capo: gli occhi un poco socchiusi per la timidezza e la gioia, le lunghe ciocche sul collo che, come abbandonandosi ad una carezza, piegavano il capo di lei in un grazioso inchino.
         Man mano che le ciglia si posavano sulle guance, dal suo volto abbassato si levava un sorriso. Da quel sorriso, saliva una piccola fiamma che le accendeva il volto, un rossore di gioia trattenuta sotto alla cipria.
         Rispondendo al saluto, Arrigo s’inchinava alla donna di città: appoggiava la tempia sull’incarnato pallido della guancia di lei, come per sussurrarle all’orecchio qualcosa. Là rimaneva un poco e Hansi, mezzo metro più sotto, vedeva per un attimo i suoi capelli lucidi, nerissimi e ordinati con la riga a sinistra, fermarsi tra le onde morbide della sua sposa, come per riposare. Lo vedeva baciare la fronte di lei posandole le braccia attorno alle spalle, e la Iolanda si rifugiava in quell’abbraccio facendosi più piccola, le mani abbandonate sopra al petto di Arrigo: e quello era il suo riposo.
         -“Avete avuto una buona giornata?”- al colmo dell’emozione, alla Iolanda s’attorcigliavano le parole: non sapendo più come dirle, riesumava un retaggio ch’era già appartenuto al riserbo di sua madre, e ancor prima di sua nonna, e si rivolgeva al marito dandogli del voi. Arrigo, a sua volta, al termine di una giornata di burocrazie e di noie, servizi di pattuglia, rapporti in triplice copia affastellati sul suo tavolo in Questura, tornando a casa inciampava nel fascino di lei come fosse la prima volta: col risultato di tornare anch’egli indietro nel tempo, precisamente al giorno in cui s’erano incontrati, avvicinati con  emozione e cautela, e poi riconosciuti come bisognosi l’uno dell’altra.
         Anche per il tenente Drusiani, rifugiarsi nel voi appariva la soluzione migliore contro l’imbarazzo dei ricordi:
         -“La mia giornata si è fatta splendida a partire da questo istante. Così spero di voi, bella signora”- Arrigo sorrideva, baciandole le punta delle dita. Hansi, che pure non comprendeva una sola parola, era meravigliato da quell’accoglienza, che al paese non usava perché mariti e mogli si parlavano poco, e la sera tornavano assieme dal lavoro ugualmente sudati, taciturni e sfiniti dopo il taglio del fieno, i lavori nel frutteto, la cura degli animali.
         Sulla via del ritorno, si usavano l’un l’altra l’unica cortesia di andare assieme per la polvere dei sentieri, con gli attrezzi e le braccia cadenti, spesso senza neanche guardarsi: tanto marito e moglie si conoscevano già, le facce e i vestiti erano sempre quelli, novità da vedere non ce n’erano mai.
         Ad Hansi era sembrata magnifica quella danza che ogni sera si rinnovava tra Arrigo e la Iolanda. A lungo li aveva osservati tenendosi in disparte, all’inizio incantato poi oppresso dalla tristezza, perché si sentiva escluso da quel cerchio di calore che correva tra l’uomo in uniforme e la donna di città: come un’incandescenza che si arroventava con la forza dei loro sguardi.
         Stringendosi in un angolo che all’improvviso era diventato più freddo, si era ricordato del ritratto in cornice, che aveva dimenticato chissà dove per tutto il giorno. Non sapendo a cosa aggrapparsi si strinse a se stesso, e con tutta la forza che gli era possibile, si fece una promessa: “Una cosa così”- e non riusciva a esprimersi con maggior precisione - “la voglio per me, a tutti i costi”. Voglio che ci sia qualcuno ad aspettarmi quando tornerò a casa, e sarò triste e stanco, pensava tra sé Hansi Wallemberg, cogliendo a un tempo il proprio sentimento interiore, e la stanchezza appena increspata dal sorriso di Arrigo:
         Da grande farò il soldato, e avrò anche questo: e intendeva l’amore e lo voleva vero, alla stessa maniera con cui voleva un fucile che sparasse sul serio, non soltanto un giocattolo capace di sparare con l’immaginazione.   
         Messi insieme i suoi sogni, si lasciò prendere per mano dalla Iolanda, e la seguì in cucina, dietro alla traccia rassicurante del cibo già pronto per la cena. Istintivamente, afferrò con l’altra mano quella di Arrigo, e già si vedeva grande al pari di loro, soldato col fucile e l’amore di una donna di città. Eppure, quando si trovò di nuovo seduto a tavola, in cima a due cuscini altrimenti non ci arrivava, il suo entusiasmo si esaurì improvvisamente: tornò la nostalgia per le sere di casa, quando suo padre accendeva tutt’intorno le lampade, colmando l’unica stanza di un tepore giallo nel quale Hansi si sentiva rassicurato. In quel cerchio di luce, le pareti di legno si animavano di bagliori, diffondendo l’aroma della resina e della minestra che frau Lise girava lenta sul focolare.
         Ricordava il conforto delle sere d’inverno, seduto sulla panca che girava attorno alla stube, la grande stufa bianca accovacciata al centro della stanza, come un pacifico animale a riposo. Una volta completata l’accensione delle lampade, e ricacciato il buio negli angoli del soffitto e sotto ai mobili, suo padre cavava dalla dispensa una forma di pane, e iniziava a tagliare grosse fette precise, che poi spettava ad Hansi sminuzzare in crostini e molliche nelle scodelle. A quel punto, frau Lise si avvicinava col tegame stretto da una presina, e con il volto attento e il cucchiaio di legno cominciava a versare quella minestra densa, corposa come la luce che l’avvolgeva alle spalle: uno scialle di luce si posava sulle spalle di Lise e Richard Wallemberg, li proteggeva dalle tenebre e dalle cose brutte che ci vivono dentro,  e che solo i bambini vedono.
         In piedi accanto al tavolo, stretti uno accanto all’altra nel chiarore piovigginoso della lampada, Hansi li rivedeva: la treccia di sua madre, come una coroncina ispida intorno alla testa, lasciava sfuggire piccole increspature. I capelli di suo padre avevano la scriminatura da una parte, come quelli di Arrigo. Eppure, i suoi genitori non gli erano mai sembrati così distanti: volti di cera immobile, come una vecchia foto dai bordi ingialliti. Abiti senza colore e senza nessuno dentro, e in testa capigliature di erba secca: simili agli spaventapasseri impalati nei campi che aveva attraversato durante il viaggio in treno, quand’erano scomparse a un tratto le montagne e la pianura aveva cominciato a distendersi, piatta e disabitata. Soltanto qualche spiga calpestata qua e là, dimenticata dopo la mietitura.
         I covoni legati come sagome tozze, accovacciate nel cielo bianco di sole.
         All’improvviso gli tornò in mente quella strana figura inchiodata che aveva visto nel laboratorio della Iolanda, e che era ancora là, nell’oscurità di quella stanza chiusa: quel pensiero gli si era annidato nella mente e non aveva mai smesso di essere presente, nella forma di un’irrequietezza dolorosa che pungeva la schiena. “Dev’essere così, la morte vista in faccia”, pensò Hansi, arrampicato sui cuscini come su un mucchio di spine, “con gli occhi spalancati che non vedono niente, e i capelli di paglia”. E ripensando ai suoi, a quel punto Hansi Wallemberg fu colto dall’angoscia: forse loro sono già morti, e io non posso saperlo.
         D’un tratto era sbiancato, in maniera talmente spettrale ed evidente che la Iolanda e Arrigo si fermarono l’una col mestolo a mezz’aria, e l’altro col coltello che misurava attento una fetta di pane. La donna di città e l’uomo in uniforme si fissarono perplessi, rifugiandosi l’uno negli occhi dell’altra. Sostarono un istante per prendere coraggio, poi scattarono subito, per correre ai ripari.
         La Iolanda, per prima, si levò dal suo posto e si avvicinò ad Hansi, facendo scorrere tra i suoi capelli una mano simile al tocco rassicurante di frau Lise. Hansi, però, che era sul punto di piangere e non voleva farlo, si rifugiò sotto al tavolo. Intervenne a quel punto Arrigo Drusiani, e seppe farlo nel mondo giusto:
         -“Ascolta”- disse ad Hansi, nella sua lingua natale, e con i suoni di casa sua. Non gli ordinò di mangiare, neppure di tornare a sedere composto. Semplicemente, “ascolta”: e lo calò immediatamente dentro a una storia. Appallottolando alcune molliche sulla tovaglia, approntando trincee arricciate di tovaglioli, reticolati di stuzzicadenti e grissini come pezzi di artiglieria, cominciò a raccontare: e Hansi si trovò trasportato di colpo dai luoghi tormentosi della sua nostalgia, alle battaglie avventurose sulla prima linea del fronte.
         Arrigo raccontava, e il bambino riemergeva, lento, da sotto il tavolo: e più che osservare il teatro delle ostilità approntato sulla tovaglia, scrutava attentamente gli occhi neri e avvincenti dell’uomo in uniforme, lasciandosi piano piano rassicurare, staccando ancor più lentamente l’anima dal timore, e immergendosi in quelle scene descritte con particolari così vivi, che pareva che stessero accadendo in quel momento: tutto questo serviva - ma ad intuirlo fu soltanto la Iolanda - non soltanto a distrarre il bambino dalle sue angosce, ma anche a sollevare Arrigo dalle proprie.
         Hansi fissava Arrigo intensamente negli occhi, e quello che domandava senza dire parole era: “Mi proteggerai? Come un soldato in guerra, mi guarderai le spalle?”. E dentro di sé sentiva sbocciare un’altra promessa: a sua volta avrebbe guardato le spalle ad Arrigo, a costo di affrontare quel manichino da sarta orribile della Iolanda a colpi di baionetta. Intanto, e senza accorgersene, aveva finito tutto il piatto di minestra, le polpette con il contorno di piselli, le fettine di mela che la Iolanda, scaltra almeno quanto lui era distratto, aveva provveduto a infilargli nel piatto. Era come se quei sapori facessero parte della battaglia.
         Dopo cena s’erano trasferiti in giardino, nella sera che lentamente prendeva il posto del caldo del giorno. Fu a quel punto che Arrigo, esaurito il repertorio di storie adatte ai bambini, con il supporto tattico dell’immaginazione, e di qualche vecchio libro rimasto nella memoria, scoprì il proprio talento di narratore: si meravigliò di se stesso per quell’estro inatteso e quella sera andò avanti a raccontare per ore, conquistandosi la devozione assoluta di Hansi Wallemberg.
         La Iolanda ed Arrigo, e il bambino tra loro, sedevano sul grande dondolo arrugginito, sopra ai cuscini gonfi del caldo del pomeriggio, protetti dalla siepe del gelsomino. Piccoli fiori bianchi versavano aromi in un filo di brezza, le ortensie azzurre e color carne della Iolanda succhiavano ombra da terra. E i racconti continuavano sottovoce, perché il cielo d’estate, tramontando a fatica in un lago di luce così simile al sangue, suggeriva il silenzio dello stupore. Sui muri delle case, che s’alzavano intorno al giardino già buio, quel bagliore evocava scenari d’incendi, traiettorie di pallottole e cortine di fuoco. L’umido delle aiuole evocava la terra affranta delle trincee.
         Finché ci fu luce sufficiente per lavorare, la Iolanda andò avanti con le riparazioni: c’era da sistemare l’imbottitura sbocconcellata di una bambola, rimodellare quel corpicino con l’ovatta, ricucire uno ad uno, con pazienza, gli strappi inferti da qualche bambino entusiasta. Non era molto contenta, la Iolanda, della piega avventurosa che aveva preso la serata. Temeva che suo marito e Hansi si contagiassero a vicenda: e che più tardi, in quella notte che stava per iniziare, e scivolava rapida come se avesse fretta di cader loro addosso, Arrigo Drusiani sarebbe stato catturato nel sonno dai suoi soliti incubi. Col risultato di confondersi la testa più del normale, e magari di spaventare anche il bambino. 
         Hansi, dal canto suo, pendeva dalle labbra dell’uomo in uniforme, e dagli occhi di lui, nei quali intuiva un’oscura preoccupazione. In quel momento provava un amore totale per quell’uomo dai tratti sereni e regolari, che non assomigliava per nulla a suo padre però glielo ricordava, che sorrideva ma aveva gli occhi pieni di ombre, che l’avrebbe protetto, ma sembrava richiedere a sua volta protezione. Uno strano sodalizio si stava instaurando tra l’uomo in uniforme e il figlio del soldato semplice Wallemberg: un’alleanza che trovò conferma nelle ore che seguirono, insieme ai più fondati timori della Iolanda.
******
Quando fu troppo buio per riuscire a vedere al di là del proprio naso, e il nugolo di zanzare che li aveva tormentati sin dalle prime ore era ormai diventato un esercito schierato, la Iolanda li spinse entrambi dentro casa. Mentre si coricava sulla vecchia branda da campo, Hansi tese le braccia all’uomo in uniforme, e con la solennità propria di un giuramento, gli rivelò il suo segreto: da grande farò il soldato, sussurrò buttando le braccia al collo di Arrigo, e aggrappandosi a lui proprio come a quel sogno. Avrebbero combattuto insieme per la Patria, adulti fianco a fianco, proprio come avevano fatto in quella sera di lunghe storie, in cui Hansi aveva avuto vent’anni come il tenente Drusiani, la stessa divisa addosso e un fucile vero. Ma in realtà, a parte i sogni, quel che voleva dire all’uomo in uniforme era semplicemente “non mi lasciare mai”.
         Di lì a breve, si ripeté lo schema della notte precedente: Hansi fece soltanto finta di addormentarsi, e non appena tacquero i rumori nella stanza, e i respiri iniziarono a farsi regolari, saltò giù dalla branda, correndo rapidissimo caso mai ci fosse in giro il manichino della Iolanda, pronto ad acchiapparlo e a farne un solo boccone. Si arrampicò in fretta e furia sul letto a baldacchino, urtando mille dolori e un alluce contro i bordi di legno massiccio: là si scavò una nicchia tra la schiena di Arrigo, che emergeva sul fianco simile a una montagna, e il ruscello della camicia da notte della Iolanda, la lunga treccia sciolta che si gonfiava sul cuscino, come un animale morbido.
         Arrigo e la Iolanda si riassestarono nel sonno, accogliendo l’intruso.
         Hansi si abbandonò contro la barriera difensiva della schiena di Arrigo, che si stagliava sopra di lui nell’oscurità, più solida e più consistente del buio. Malgrado il caldo torrido di quella notte estiva, si lasciò avvolgere dai capelli della Iolanda, che parevano dotati di vita propria, una forma d’intelligenza capace di allungarsi e coprire tutt’intera la magrezza di Hansi.
         Protetto dalla coltre della donna di città, non gli restava altro che prendere sonno. Eppure, di lì a poco, cominciò a rigirarsi nel letto: percepiva un senso di oscura eccitazione, come se intuisse che qualcosa stava per accadere.
         Le orecchie tese a cogliere il minimo rumore, Hansi ascoltava la notte attraversare in punta di piedi la stanza: lo scricchiolio dei grilli ed un filo di brezza muovevano le tende fragili alla finestra. Nella stanza si riversava una luce pallida, eppure dotata di una strana fosforescenza: simile a un palloncino da fiera appeso a un filo, s’impigliava tra gli alberi una luna rotonda, eppure inspiegabilmente aguzza.
         In lontananza, lo strepito di un’auto che traballava sul lastricato, il cigolio di un tram trascinato lontano. Il trotto più cadenzato di un carro, lungo strade che dall’estrema periferia si smarrivano nell’aperta campagna. Là il buio era simile a un pozzo senza fondo, pensò Hansi col compiacimento voluttuoso di chi vuol farsi paura da solo: e pensava alle lunghe notti delle sue valli, cupe come voragini. 
         Nel giardino, la luna continuava a passare appesa a un filo di foschia lattiginosa. D’un tratto si levò un vortice di vento: la foschia si addensò in un lampo contorto, che ruppe il cielo in due parti e rischiarò la stanza di una luce senz’ombre. Parevano fuggite tutte insieme, le ombre, verso il soffitto e sotto alla mole del letto a baldacchino. La Iolanda non si mosse, e non si mosse Arrigo - anche perché, in quel momento, la sua schiena alta e simile a una trincea protettiva non era più al suo posto. Hansi Wallemberg se ne accorse nel breve istante in cui un lampo illuminò la stanza, come in pieno giorno.
         Sorpreso, si levò a sedere nel letto, e proprio allora il tuono cadde con uno schianto. Rimbalzò contro i tronchi degli alberi in giardino, e una folata gelida lo mandò a rotolare proprio in mezzo alla stanza. Hansi era intimorito, non tanto per l’imperversare della tempesta: in montagna, i temporali erano ben più violenti, si schiantavano contro ai bastioni rocciosi e sulle teste dei boschi, rimbombando da un capo all’altro della valle e fin dentro allo stomaco; le folate di vento spogliavano i frutteti con un solo strattone, levavano il pelo ai prati e muggivano contro i muri delle case, ma poi tutto finiva appena faceva giorno. E di tutto quel tumulto fragoroso, restava solo un fruscio d’acqua nelle grondaie, e il verde nuovo dell’erba: gocce che risplendevano come corone in testa ai fiori dei campi, e ragnatele simili a collane di luce tra i filari ordinati dei meli rosa e gialli.
         Per vincere la paura dei lampi che rompevano il cielo come ferite, dei tuoni che precipitavano come valanghe, bastava ad Hansi Wallemberg non rimanere solo: in mancanza dei suoi, starsene rannicchiato tra Arrigo e la Iolanda poteva anche essere un’alternativa valida. Arrigo, però non c’era. La donna di città, pur immersa nel sonno, si era accorta del turbamento di Hansi, e l’aveva attirato a di sé per rassicurarlo:   
         -“Non preoccuparti” - aveva sussurrato, con il tono di voce un poco stuporoso di chi parla nel sonno - è il diavolo in carrozza, che porta a spasso sua moglie”-
         Se Hansi Wallemberg avesse capito l’italiano, forse avrebbe pensato che il tenente Drusiani se n’era andato anche lui a spasso, tuonando e sotto l’acqua. Ma siccome al bambino arrivò solo un bisbiglio, e per di più era convinto che l’uomo in uniforme si fosse allontanato già da un bel po’di tempo, per non far preoccupare la donna di città, e per non rimanere lui stesso nell’angoscia, decise di affrontare un terrore più grande: scivolò quindi fuori dal letto a baldacchino, e si avventurò scalzo nel corridoio, colonna vertebrale di tutte le stanze e di tutti i possibili pericoli. Sfidando la paura di trovarsi a faccia a faccia col manichino della Iolanda, s’incamminò portando con sé il ritratto in cornice, soltanto per avere qualcosa a cui stringersi. Male che andasse, poteva sempre romperlo in testa a qualche spettro. Nel corridoio, l’umidità era tale che aveva l’impressione di camminare in una palude.
         Al suo paese, in Germania, in una radura isolata c’era un lago d’acqua morta: uno specchio nero e immobile che in paese si diceva profondo fino all’inferno, e capace di sciogliere, per il grado di acidità dei suoi componenti, la carcassa di un cavallo nello spazio d’un giorno. Si trattava, in realtà, di un sito vulcanico: l’apparenza dell’acqua era fuligginosa per via della roccia lavica, e un’insolita concentrazione salina la rendeva completamente priva di vita. L’atmosfera del luogo era così mortifera da diventare silenzio: intorno al lago regnava la più totale assenza di rumori e di voci, non si udiva neppure il verso di un uccello, o il fruscio frettoloso di qualche animale del bosco. Neppure gli insetti si levavano in volo su quella superficie amorfa e senza riflesso.
         C’erano dappertutto solo erbe infestanti, canne palustri dai colori velenosi. Piante mai viste altrove che si aggrappavano alle caviglie degli incauti, come per trascinarli a morire sul fondo di quelle acque viscose.
         Di storie su quel posto ne giravano tante, tutte raccapriccianti. E siccome era un luogo evitato dagli uomini e scansato anche dalle bestie, chi voleva ammazzarsi ci andava volentieri: ultimamente, quelli ch’erano ritornati dopo aver perso in guerra la testa e la parola, ci capitavano spesso, e non tornavano più indietro. Le acque si chiudevano sulle loro teste stanche, e dopo continuavano a ribollire per giorni.
         Quel posto era a due giorni di treno da lì, pensava Hansi Wallemberg, forse anche più distante: eppure, aveva proprio la netta sensazione di stare camminando sul filo di quelle sponde, e che strane piante acquatiche, dalle lunghe braccia flaccide, s’avvolgessero strette attorno alle sue caviglie, per non lasciarlo più andare.
         In realtà, erano solo spifferi che passavano a tutta velocità sotto alle porte, o da qualche finestra dimenticata aperta. Hansi cercava di non pensare al manichino della Iolanda, all’effetto che avrebbero fatto quegli occhi vacui illuminati dallo spettro di un lampo. Cercava di non pensarci, e intanto ci pensava.      
         Quando infine trovò Arrigo Drusiani in fondo al corridoio, in piedi e con il viso stranamente impassibile di fronte al portone di casa, ad Hansi non sembrò vero di poterlo raggiungere e di aggrapparsi a lui, con tutte le sue forze. Quello che lo sorprese, fu accorgersi che Arrigo era perso in un altro mondo: i suoi occhi erano neri e larghi come il lago dalle acque morte, le ciglia spalancate come, attorno alle sponde, i boschetti irti di canne. Più precisamente, sembrava che stesse fissando davanti a sé qualcosa di assolutamente terrificante.
         Inseguendo ciò che lui solo vedeva, Arrigo si scrollò di dosso Hansi Wallemberg con un passo soltanto, infilò il portone di casa, uscì nell’infuriare a capofitto del temporale. Ad Hansi parve strano vederlo uscire così, senza nessun riparo, ma Arrigo varcò l’uscio incurante di tutto, e il bambino non poté far altro che seguirlo.
         Il suo comportamento era così bizzarro, che non c’erano dubbi: il tenente Drusiani camminava nel sonno, forse stava sognando di trovarsi in prima linea, e a meno che Hansi Wallemberg non si mettesse a scuoterlo di proposito, non l’avrebbero destato neanche le cannonate. Non quelle della sua battaglia immaginaria, e tanto meno gli echi di un temporale d’estate. La cosa più sinistra è che dormiva con le palpebre leggermente dischiuse, quasi con gli occhi aperti: le sue lunghe ciglia subito si coprirono di goccioline leggere. Se fosse stato sveglio forse avrebbe tremato, pensando che solo ai morti piove l’acqua negli occhi.
         In breve, si trovarono fradici e alluvionati in mezzo alla strada, nel punto in cui dalla casa Silvestri - così era conosciuta in tutto il vicinato la casa della Iolanda - si arrivava sulla via principale. In quel quartiere che all’epoca non era più città, e non ancora campagna, l’illuminazione pubblica era ancora parziale, e i sistemi di scolo ancora improvvisati: la strada, in quel momento, era così allagata che le pietre del lastricato scintillavano come rocce di un fiume in piena. Detriti di ogni genere, ramoscelli e fogliame portati alla deriva dal nubifragio, correvano a precipizio al posto dei birocci e dei tram, delle rare automobili che in pieno giorno ruzzolavano sul selciato. Mentre il temporale si stava allontanando, rotolando via gli ultimi tuoni, ad Hansi pareva di trovarsi nei pressi di quel lago dei morti, vicino al suo paese.
         Istintivamente, come per sottrarlo a un pericolo, prese per mano Arrigo. L’unico pensiero che in quel momento occupava la mente di Hansi, ancor prima del timore, era che avrebbe fatto di tutto per impedire a quell’uomo di abbandonarlo, come aveva fatto suo padre. Dietro di loro, la casa Silvestri spiccava nel buio: le finestre sembravano illuminate a giorno, come se all’interno fosse in corso una festa, in un tripudio di lampade e candelieri accesi.
         Probabilmente sono io che me lo immagino, pensò Hansi stringendo Arrigo con decisione. E tirandolo a sé piano per non destarlo, incominciò a guidarlo seguendo quel richiamo: finché non venne loro incontro la Iolanda che risplendeva come le luci della sua casa, fradicia anche lei, con i capelli sciolti come corde di pioggia.
         Più tardi, mentre Arrigo si stendeva di nuovo sul letto a baldacchino, e la Iolanda trafficava negli armadi cercando roba pulita, e poi in cucina a riscaldare un po’ di latte per conciliare il sonno a tutta la famiglia, Hansi si strinse forte all’uomo in uniforme:
         -“Volevi andare via?”- gli domandò soltanto.
         -“Io non andrò mai via. Ho soltanto sognato d’essere in un altro posto”- ancora un  po’ scosso, Arrigo passò una mano tra i capelli di Hansi, come per portar via il bagnato e la paura. Hansi gli buttò al collo le braccia lunghe e magre, ma ben determinate:
         -“Non te ne devi andare. Io non voglio, e verrò a cercarti in qualunque posto”- e parlava pensando anche a Richard Wallemberg, e a come, in quel caso, non era riuscito a impedirgli di andarsene. Fu allora che si ricordò del ritratto, che aveva trascinato con sé sotto alla pioggia: la cornice era intatta, il nastro con la medaglia sempre più inzaccherato, ma il guaio era che l’acqua era passata sotto, e in quantità tale da deturpare la foto in modo irrimediabile. La stampa su cartoncino s’era quasi sciolta, e una piccola pozza s’era rappresa sul viso un po’ altezzoso e senza sorriso di Richard Wallemberg, mischiando il bianco e nero e riducendo il tutto a una poltiglia senza più forma.
         Hansi stringeva la cornice senza parole, mentre pensava che la foto di suo padre aveva fatto la stessa fine dei tanti che s’erano buttati nel lago dalle acque acide.
         Con cautela, le lunghe dita della donna di città riuscirono a estrarre la carta frolla e fragile, e ad appendere con due mollette quel viso altero per farlo asciugare. Arrigo aggiunse due mollette per contrappeso, perché non s’arricciasse in una smorfia ancora più odiosa di quella che il militare aveva per conto suo, e che al tenente Drusiani non andava a genio per nulla: ma questo ad Hansi Wallemberg non l’avrebbe mai detto, né allora né mai.
         Hansi non fece parola dello sconvolgimento che provava all’idea di smarrire anche l’ultima traccia di Richard Wallemberg: quella fotografia neanche troppo recente era ridotta a una macchia, senza più somiglianze di occhi e di sguardi. La cosa più terribile era che se voleva recuperare i lineamenti di suo padre, ora poteva solo cercarli in qualche luogo incerto della memoria: e anche là, quel volto in bianco e nero era ormai sbiadito dal tempo, dai molti fatti avvenuti, da una dimenticanza che ad Hansi pareva grave, ma era inevitabile.
         Nel tempo che rimase di quella lunga notte, Hansi sognò suo padre: se lo vide davanti mentre rientrava nella loro casa al paese, simile a una folata di vento e di pioggia che aveva d’improvviso annullato il tepore familiare della stube. Penetrato da un gelo improvviso dell’anima, Hansi era rabbrividito. Guardando in faccia Richard Wallemberg, l’aveva visto com’era in quella foto fradicia, con gli occhi in poltiglia proprio come, al villaggio, la gente immaginava gli annegati del lago, quelli che non si riusciva mai a ripescare perché in quell’acqua caustica subito si disfavano. Dibattendosi contro l’oscurità di quella visione, Hansi Wallemberg si destò di soprassalto, scoppiando in lacrime contro il petto di Arrigo.
         Arrigo e la Iolanda erano troppo esausti, per ridestarsi nuovamente in quella notte che pareva non aver fine: ma l’uomo in uniforme, istintivamente, sentì Hansi agitarsi, e forse anche un singhiozzo arrivò fino alle profondità del suo sonno. Abituato com’era, in trincea, a dormire restando sveglio, senza muoversi né destarsi aprì le braccia ad Hansi, e gliele chiuse intorno. Dopo lunghi minuti trascorsi con gli occhi spalancati nel buio, Hansi si addormentò lasciandosi cullare dal tepore di Arrigo, dal ritmo di quel cuore sopra cui riposava, regolare e tranquillo.
 
  
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