Film > Re Leone
Segui la storia  |       
Autore: QueenOfEvil    23/12/2017    2 recensioni
(Dal capitolo sette):
"Sì, aveva aspettato quel giorno per anni, nella polvere, nell’ombra di qualcun altro, di Ahadi, di Mufasa e adesso che correva il rischio di venire oscurato anche da Simba, da quello scricciolo che altro non era che un prolungamento del fratello tanto odiato, gli era stata finalmente data l’opportunità di scuotersi di dosso tutti: sarebbe diventato ciò che era stato predestinato ad essere fin dall’infanzia, fin dalla nascita. Il sovrano che nessuno mai aveva visto in lui."
La storia di un re considerato tale solo da se stesso. E, chissà, forse, in fondo, neanche quello.
Genere: Dark, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Scar
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

17. Rafiki. Goodnight, sweet prince.

Erano anni che non si vedeva un tramonto così bello. Il sole scendeva lentamente incontro all’orizzonte, senza più seccare o inaridire la terra, né nascosto da scure nubi non portatrici di pioggia, solo splendente, con i suoi raggi a tingere il cielo di rosso e rosa, in un’atmosfera di pace ed armonia che credeva di aver dimenticato, o comunque a cui non avrebbe potuto assistere per lungo tempo ancora. Lo sciamano si stava avviando veloce verso il suo albero, bastone alla mano e andatura saltellante, ma si permise di fermarsi per qualche secondo, lanciando un’occhiata all’immagine della Rupe dei Re colpita dall’ultima luce del giorno ed un sorriso sereno si delineò sulle sue labbra, al pensiero di Simba, finalmente tornato a casa, finalmente pronto ad essere quello che era sempre stato destinato a diventare: non era stato facile convincerlo che sarebbe stata la cosa giusta da fare, giorni prima, non era stato facile neanche rassicurarlo solo ventiquattro ore addietro, quando aveva deciso di reclamare il trono, pur con il supporto di Nala, della madre e del branco, ma alla fine tutto si era svolto nel migliore dei modi, una volta che la battaglia si era conclusa. 

E fu proprio quel pensiero, il pensiero del fuoco, del sangue, dell’orrore che sicuramente sarebbe rimasto impresso nelle menti di tutti per molti anni, a far oscurare l’umore del babbuino, mentre, ripreso il cammino, giungeva infine al suo baobab, apprestandosi ad un compito che gli pareva vagamente liberatorio, ma anche profondamente, troppo profondamente, penoso e doloroso: era strano, per anni una parte di sé aveva desiderato che succedesse qualcosa, che la siccità finisse, che quella storia giungesse al termine, ma in quel momento, mentre si arrampicava fra le fronde in cerca di un posto preciso sul tronco, un posto che conosceva solo lui e che sempre solo lui avrebbe dovuto conoscere, non riusciva a provare gioia. 

Ricordava perfettamente il giorno in cui era giunto nelle Pride Lands la prima volta, cucciolo entusiasta e ignorante al fianco di un più vecchio e stanco nonno. Erano trascorsi anni, da allora, tanti anni, decadi, e nessuno di coloro che aveva conosciuto in quell’epoca era ancora vivo: il tempo aveva continuato a scorrere impetuoso ed inesorabile, come era giusto che facesse, portando via tutto e tutti e non lasciando altro che ricordi, ricordi di cui solo lui era depositario e che, molto probabilmente, sarebbero spariti completamente una volta che anch’egli avesse lasciato le Pride Lands, e quella terra in generale, per sempre. C’erano, però, delle cose che probabilmente si sarebbero tramandante di padre in figlio, assumendo sempre più l’aspetto di una leggenda, arricchendosi di particolari che avrebbero avuto del fantasioso ed incredibile, ed aveva l’amara sensazione che il corso che si stava apprestando a concludere, relegandolo in un passato via via più sfumato, sarebbe stato una di quelle, mentre altri momenti, forse più felici, forse più belli, probabilmente sarebbero scomparsi, primo fra tutti quello che aveva come protagonista colui che da sempre aveva considerato il suo migliore amico. 

Mohatu era stato il suo primo sovrano, con la sua criniera rossa, il mantello chiaro e gli occhi verdissimi, più verdi delle terre che aveva governato e che sarebbero certamente tornate più rigogliose di prima, dopo quella che appariva ormai come la fine della siccità: era piccolo quando l’aveva conosciuto, appena giunto da un’altra regione di cui ormai non conservava che sensazioni confuse, ed anche il re era giovane, poco più che cucciolo, ma già in carica dopo che i genitori erano morti tragicamente. 

L’aveva seguito, erano cresciuti insieme mentre uno imparava tutto sugli spiriti, le erbe e i riti magici e l’altro apprendeva le regole del Cerchio della Vita, della sopravvivenza, della sicurezza e giustizia che deve trasmettere un regnante per essere considerato tale. L’aveva accompagnato nel suo viaggio, quando il suo vecchio parente era morto e lui aveva assunto il ruolo di sciamano, attraverso la guarigione di malattie, celebrazione di matrimoni, oh, quanto si era divertito quel giorno!, e gioiose nascite: non era sempre stato così sicuro di sé, e sospettava di non esserlo ancora veramente, perciò le sue prime operazioni ufficiali erano puntualmente accompagnate da un enorme carico di nervosismo, ma mai si era sentito così sotto pressione quanto il giorno in cui era nata Uru, né forse aveva provato una felicità così grande nel vedere il leone con cui era cresciuto illuminarsi alla prospettiva di essere diventato padre di una bellissima leonessa. E crebbe davvero bellissima Uru, se lo ricordava, affiancata dai genitori e con il rispetto di tutto il resto del regno, in quello che Rafiki avrebbe facilmente definito come il periodo più spensierato della sua vita, ma che, come ogni cosa splendida, non era destinato a durare.

Non fu mai ben chiaro cosa avesse portato alla morte di Mohatu, forse una bacca velenosa ingerita per sbaglio, una malattia di quelle che circolavano già da tempo tra il branco, oppure semplicemente il suo momento era arrivato: tutto quello che sapeva era che mai si era sentito così solo e devastato come il giorno in cui la figlia, corsa nella sua caverna per dirgli di avere conosciuto un leone straniero apparentemente simpatico, lo aveva trovato disteso al suo interno, morto.

I funerali si erano svolti in silenzio, sotto gli occhi disperati di tutta la savana, ma soprattutto sotto i suoi, che si vedeva privato del suo più grande confidente, già più vecchio di tutti gli animali lì presenti, ma incredibilmente giovane per un babbuino: in quel momento, per la prima e forse unica volta in tutta la sua vita, aveva criticato e messo in dubbio la giustizia del mondo che l’altro aveva fino ad allora governato, che gli aveva prima strappato il nonno, con il quale però non aveva mai avuto un buonissimo rapporto, e poi l’essere che aveva più caro. Poi, dopo, gradualmente, giorno dopo giorno, il dolore si era cicatrizzato, non era scomparso, quello mai sarebbe accaduto, ma aveva imparato a sopportarlo e a portarlo con sé come ricordo di qualcuno che aveva significato tanto per lui. E la vita era andata avanti, con Uru ed il suo compagno, Ahadi, conosciuto per sbaglio durante una caccia particolarmente lunga e sfiancante che le aveva quasi fatto perdere la strada di casa e che subito entrò nella loro famiglia, pur non riuscendo a stabilire con Rafiki lo stesso legame di fiducia e rispetto reciproco che aveva avuto con il padre della sua compagna, non con la medesima profondità. Avevano dunque iniziato a regnare loro sulla Rupe dei Re e, dopo pochi anni, avevano a loro volta messo al mondo, come i genitori della leonessa prima di loro, due cuccioli.

Mufasa e Taka.

Perso nei suoi pensieri, era infine giunto alla parte dell’albero che desiderava, o non desiderava tutto sommato, trovare e, dopo aver emesso un sospiro mesto, si apprestò a portare a termine il suo lavoro: prese un frutto da un recipiente che teneva costantemente a disposizione, lo spezzò a metà e immerse due dita nel liquido zuccherino che esso conteneva, per poi guardare la corteccia esattamente davanti a lui. Lo aveva fatto altre volte, in fondo: lo aveva fatto per Mohatu, per Uru, per Ahadi, per Mufasa, perfino, sbagliando, per Simba, e anche se quella volta avrebbe dovuto essere più facile, perché era giusto che fosse così, perché se non fosse accaduto l’equilibrio si sarebbe definitivamente spezzato, perché chi faceva del male doveva pagare, non lo era affatto. Eppure, in fondo, avrebbe dovuto decidersi molto tempo prima. 

Quello che conosceva, che tutti conoscevano, come Taka era morto da anni, ormai.

Aveva sempre guardato con curiosità quei due fratelli, due era un numero insolito per una dinastia regale in cui solitamente si cercava di non avere più eredi, per di più così vicini di età, per il contrasto che formavano vedendoli affiancati: erano diversi come il giorno e la notte, contrastanti in tutti i sensi e formavano di certo un’accoppiata veramente strana, se si pensava attentamente al fatto che fossero imparentati. Il minore soprattutto lo impressionava per i suoi occhi verdi, un colore che così tanto somigliava a quello del nonno mai conosciuto e che Rafiki non credeva avrebbe mai potuto rivedere, causandogli un senso di nostalgia quasi insostenibile per l’amico perduto. Eppure, aveva in fretta capito la differenza fra le iridi del passato sovrano e quelle del cucciolo: se le prime erano sempre gioiose, cariche di vita e ottimismo, le seconde erano un pozzo luminosamente scuro, imperscrutabile, il cui sguardo era difficile da sostenere senza provare un briciolo di inquietudine, e spesso il babbuino si era chiesto perché proprio quella caratteristica fosse toccata a lui, lui che niente aveva del suo antenato, quando Mufasa era invece una sua copia sputata. In ogni caso, si era in fretta affezionato ad entrambi, li aveva visti crescere, esattamente come aveva visto crescere Uru e come era cresciuto insieme a Mohatu, aveva imparato ad apprezzare il carattere irruento e coraggioso del primo ed al contempo quello riflessivo e calcolatore del secondo, anche se non aveva mai passato con loro molto tempo né li aveva educati, lasciando quell’incombenza ai genitori. 

In ogni caso, anche se affermava di conoscere bene quella famiglia, si sentiva colpevole e responsabile per non aver visto il profondo cambiamento che era gradualmente avvenuto nella mente e nell’animo del minore. Forse avrebbe dovuto comprenderlo quando aveva iniziato a passare più tempo da solo che con gli altri, quando l’aveva sorpreso più di una volta ai confini Nord del regno e ad alle sue domande su dove si stesse dirigendo gli veniva risposto che non erano affari suoi, quando mano a mano il suo carattere, già introverso, si chiudeva sempre di più, la sua lingua si faceva più tagliente, i suoi sorrisi sinceri si diradavano per lasciar spazio ad un ghigno cinico. Sì, avrebbe dovuto prestare più attenzione ai segnali che indicavano cosa si celasse dietro la maschera del secondogenito, eppure non aveva visto, o aveva preferito non vedere, attribuendo tutto quello all’adolescenza, alla sua personalità che si sviluppava, e anche quando aveva rinnegato il suo nome, cambiandolo in quello con cui probabilmente sarebbe passato alla storia nella memoria del suo branco, non si era intromesso, credendo che sarebbe stato meglio così, non appena egli avesse trovato la sua strada. Una strada, sempre che potesse essere definita in tal modo, che si era ridotta ad un sentiero tortuoso, di cui non si riusciva a distinguere inizio e fine, deformato da un odio e da una gelosia covata per anni, di nascosto da chiunque avesse mai provato un briciolo di affetto nei suoi confronti. Di nascosto anche da lui che, in quanto sciamano, avrebbe dovuto comprendere meglio degli altri gli stati d’animo di ognuno di loro. 

Probabilmente, ancor più del resto, avrebbe dovuto metterlo in guardia la sua reazione al funerale di Ahadi, così diversa rispetto all’addolorato contegno mantenuto alla morte della madre. In quanto erede al trono, Mufasa era stato obbligato a pronunciare un discorso, a ricordare il passato sovrano e a prendere ufficialmente il suo posto nella guida della savana, ma, con un gesto di umiltà che gli ricordò moltissimo il vecchio amico perduto, chiese al fratello di affiancarsi a lui per onorare la memoria del padre. Ma le parole che uscirono dalla sua bocca, seppur perfettamente calibrate per suonare sincere alle orecchie di tutti, lo fecero rabbrividire quel giorno così come ogni volta che il suo pensiero ritornava a soffermarcisi per la profonda inquietudine che trasmettevano: non era così che un figlio avrebbe dovuto rivolgersi al proprio genitore defunto.

“La morte del nostro re è una gravissima disgrazia, per la savana e soprattutto per noi, che siamo stati privati della sua saggia guida in modo precoce e inaspettato: non c’è stato modo di fare tanto, di dire tanto, tante verità che probabilmente rimarranno nei nostri cuori e nelle nostre menti. Eppure, non pronunciare una frase non vuol dire non pensarla davvero così come rimandare un’azione non significa che essa non troverà compimento ed io ti prometto, padre, ti prometto su tutto ciò che ho di caro che il tuo insegnamento, ciò che mi hai fatto comprendere non si perderà con te e che quello che non ti ho dimostrato mentre eri in vita verrà realizzato col tempo. D’altronde, uno dei più cari messaggi che mi hai fatto comprendere in questi anni, è quanto importanti siano pazienza e perseveranza”. Sembrava un giuramento di un figlio addolorato, questo era vero, ma l’intonazione fredda con cui era stato fatto, priva di coinvolgimento, di qualsiasi emozione in realtà, lo scintillio che i suoi occhi verdi avevano assunto solo per un attimo, prima di ritornare vuoti, e il sottile sorriso che più di una volta aveva osservato vedere represso sul suo muso l’avevano fatto assomigliare più ad una minaccia, una vendetta annunciata. Neanche in quel caso aveva fatto nulla, illudendosi, o cercando di illudersi, che fosse solo una sua impressione, ma aveva fatto male, perché alla fine, dopo anni, quando tutti, lui compreso, sembravano essersi dimenticati anche di quello, Taka, anzi, Scar, aveva colpito, profondamente e dimostrando di non avere più pietà o compassione per chiunque si fosse frapposto fra lui e quello che credeva dovesse rappresentare il proprio destino. Qualcuno avrebbe obiettato che quei sentimenti gli erano sempre stati sconosciuti, che sempre era stato cattivo, malvagio nel profondo, e tale probabilmente sarebbe stata l’immagine di lui che sarebbe stata tramandata alle future generazioni da Simba, Nala e tutto il resto del branco e, anche se non li poteva biasimare ed era convinto che le orribili azioni commesse non avessero alcuna giustificazione, non poteva che chiedersi se tutto sommato anche quella non fosse una rappresentazione parziale. 

Cosa ne sarebbe stato del cucciolo dal manto scuro che nei suoi primi mesi di vita guardava al fratello più grande come esempio da seguire? Cosa ne sarebbe stato delle sere in cui il piccolo, gli occhi verdi che brillavano nell’oscurità della notte, si rannicchiava in mezzo alla sua famiglia, ascoltando storie e fantasticando su un futuro che mai si sarebbe realizzato? Erano ricordi che stonavano così tanto con quello che era successo in seguito, con l’odio che era arrivato a provare verso quello che una volta era stato il suo migliore amico, che rendevano quasi impossibile ricondurli ad uno stesso essere, tanto che sovrapporli dava a Rafiki un senso di capogiro e di profonda tristezza, e che non sarebbero stati condivisi con la nuova generazione del branco, così come già a Simba non erano stati raccontati, finendo quindi per scomparire con il tempo, una volta che non ci fosse più stato nessuno di quell’epoca per richiamarli alla memoria.

Già, la memoria era uno strumento pericoloso, perché era vista come strumento oggettivo, mentre si trattava forse della parte più soggettiva che chiunque potesse possedere: c’era quella comune, ovviamente, condizionata non solo dall’individuo, ma dalla società, ed essa era molto facile che variasse, manovrata dai vincitori di guerre e conflitti, non dai perdenti, mai dai perdenti, la storia non la scrivono i vinti, per condannare ed oscurare i predecessori. Ma poi c’era quella singola, quella privata, influenzata da nessuno se non dagli stessi che l’avevano creata, ed era perfino peggiore della precedente, perché conservava tutto, anche momenti che si preferirebbero dimenticare, creando contrasti forti e paradossali nei confronti di oggetti, luoghi, persone. Ed era quello che stava provando lo sciamano in quel momento, mano intinta nel succo del frutto e sospesa sopra la figura stilizzata di un leone dalla criniera nera e il manto del colore della terra bruciata: se era facile, sorprendentemente facile, provare un odio assoluto al pensiero di Scar, soprattutto perché si affiancava a Mufasa, Mufasa che così tanto gli aveva ricordato Mohatu, era quasi impossibile far rimanere immutato quel sentimento ritornando al momento in cui era nato Taka, palla di pelo scura nelle sue mani, piccola, troppo piccola, destinata a parere di tutti, anche suo, ad una morte precoce e che invece era sopravvissuta, aggrappandosi alla vita con una tenacia invidiabile. Era sempre stato perseverante, perseverante ed estremamente testardo, e quello almeno, o purtroppo considerando ciò che poi la sua caparbietà, trasformatasi in ossessione e follia, aveva portato, non era mai cambiato come era invece mutato tutto il resto della sua personalità. Questo, insieme alla strana capacità di disattendere le aspettative altrui, erano stati i suoi tratti fondamentali, a cui purtroppo si erano aggiunti gelosia, odio ed una sete di potere che mai avrebbe creduto potesse provare. Ma, d’altronde, Taka era sempre stato bravo a sorprendere coloro che gli stavano attorno. Eppure, non sapeva se attribuire la sua bravura ad una sua intrinseca capacità di comportarsi contro corrente, oppure all’atteggiamento altrui, che forse mai si era aspettato grandi cose dal micio spelacchiato che era venuto alla luce minuto e fragile dopo che già un re predestinato aveva iniziato a vivere: non era una giustificazione per le sue azioni quella a cui il babbuino stava pensando, perché uccidere il proprio fratello, sangue del tuo sangue, a mente fredda non era un’azione per il quale si potessero trovare delle scuse efficaci, semmai una spiegazione. Una spiegazione in cui comprendeva che il costante paragone, anche se giustificato, può ferire, che non aspettarsi nulla di interessante da qualcuno che invece qualcosa avrebbe potuto dare può essere un errore, che la sete di attenzioni, se ripetutamente insoddisfatta e certamente accompagnata ad un’indole arrogante, e forse anche un poco insicura, può trasformarsi in altro, meno innocuo e più distruttivo.

Rafiki, con un profondo sospiro, un’ultima pausa ed infine un movimento deciso, passò la mano sopra la figura davanti a sé, che si oscurò e sbiadì a contatto con il liquido che aveva fra le dita: era finita. Anche quella vita si era conclusa, quella strada era giunta ad un termine. E la nostalgia di un tempo passato per il babbuino diventava sempre più grande ogni volta che si ritrovava a compiere quello stesso gesto. Ogni volta troppo presto. 

Lanciò poi un’occhiata di insieme alla corteccia, passando in rassegna tutti i sovrani con cui aveva vissuto, che aveva visto nascere, a cui poi aveva dovuto dire addio e lo sguardo gli cadde irrimediabilmente sui due fratelli, vicini lì quanto distanti erano stati in vita, le cui immagini erano ormai entrambe distorte e dai contorni non definiti, esattamente come probabilmente sarebbero divenuti i loro ricordi, seppur in senso totalmente diverso.

Perché Mufasa aveva fatto degli errori, pochi, quando era più giovane, più inesperto, più arrogante, ma li aveva fatti. Ed essi sarebbero scomparsi, mai rammentati, per lasciare posto alla figura che tutti avrebbero conosciuto, quella del re integerrimo, perfetto, abbagliante nella sua gloria. 

Perché Scar aveva compiuto delle buone azioni, quando era più piccolo, onesto, innocente, Taka, ma le aveva compiute. Ed anche esse sarebbero scomparse, dimenticate, facendo costruire nella mente delle nuove generazioni l’immagine dell’assassino, del tiranno usurpatore, del mostro, tutti appellativi che forse meritava, ma che forse sarebbero dovuti essere completati da altro.

Perché uno di loro, dal manto color miele e la criniera rossa, che mai aveva ricercato la fama, solo la giustizia, sarebbe stato onorato ed omaggiato per decenni come uno dei migliori leoni la savana avesse mai conosciuto.

Perché l’altro, criniera nera e pelliccia arancione chiaro, che voleva solo essere ricordato ed acclamato quasi al pari di un dio, avrebbe avuto il suo nome pronunciato a bassa voce e con disprezzo, portatore di odio e di rabbia per un passato che nessuno avrebbe mai voluto rivivere.

Lo sciamano scosse la testa, sapendo che un giorno anche il suo momento sarebbe arrivato, e con amarezza si chiese quale sarebbe stata la memoria che gli altri avrebbero portato avanti di lui, prima di scendere da quel ramo. Rivolse uno sguardo in alto, diretto agli astri e a chi sperava, anzi, sapeva, stesse guardando lui e tutti gli altri da quel luogo lassù e si avviò nuovamente verso la Rupe dei Re, lasciando impressa sulla corteccia, dietro di sé, l’immagine sfocata di un leone che probabilmente non avrebbe trovato posto nel cielo stellato che tanti stavano osservando in quel preciso istante.

Opposto al fratello ancora un’ultima volta.

 

 

 


FINE

 

 

 

 

 




Wow. E così è finita. È strano, devo ammetterlo: ho iniziato questa storia ormai otto mesi fa e vederla completa è... abbastanza traumatico. Ma tutte le cose belle devono finire, giusto? E così anche questa storia. Scar è morto, il Cerchio della Vita ha ripreso il suo corso e il nuovo re della savana non è che all'inizio del suo dominio: ho voluto lasciare le ultime parole ad un personaggio, a parer mio, molto ignorato, ma che meglio di tutti probabilmente ha potuto avere un quadro della situazione: i babbuini vivono più o meno sei volte più a lungo dei leoni (ho controllato), quindi è piuttosto logico che lui più di Scar, di Mufasa, di Simba abbia potuto vedere l'evoluzione delle Pride Lands e mi piace pensare che abbia voluto bene, in fondo, un po' a tutti i sovrani da lui conosciuti. Taka compreso, prima che diventasse Scar.

Ringrazio tutti coloro che mi hanno seguito in quest'avventura e hanno messo questa storia tra le seguite, perché è anche grazie a loro se ho mantenuto l'interesse di aggiornare, sapendo che qualcuno, almeno avrebbe letto quello che stavo scrivendo:

1 - Clairefreiser 

2 - Justmeonhere 

3 - Nerd_Girl_97 

4 - Plutonia

5 - QueenElsa_ 

6 - Sherlocklupinirene

7 - Stella cadente 

8 - Total Nintendo Drama

9 - WildeFox 

 

E, ovviamente, un grazie speciale a Stella Cadente, Nerd_Girl_97, Justmeonhere e Sir Joseph Conrard per aver commentato ed avermi sponato ad andare avanti: spero che troviate anche quest'ultimo capitolo di vostro gradimento e che mi lasciate un'ultima recensione generale.

Incoraggio, in realtà, tutti quelli che sono arrivati fin qui ad esprimere il loro giudizio complessivo: piaciuta? Non piaciuta? Cosa potrei migliorare?

Grazie infinite a tutti quelli che sono arrivati fino a qui e anche a quelli che, spero, ci arriveranno anche a storia conclusa,

A presto, magari su un altro fandom,

L_A_B_SH

   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > Re Leone / Vai alla pagina dell'autore: QueenOfEvil