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Autore: Blackvirgo    23/12/2017    6 recensioni
Salvatore Gentile non era abituato a essere confuso. La sua vita era sempre corsa su binari netti, perfettamente suddivisa fra il bianco e il nero: fra perdenti e vincitori, fra giusto e sbagliato, fra importante e inutile. E fino a quel momento ciò che non era il calcio, per lui, era sempre stato inutile. Sì, c’erano gli amici, i compagni di squadra. C’erano state delle storie di lunghezza variabile tra il tempo di una scopata e quattro mesi di mazzate nelle palle, ma non c’era mai stato un pensiero così fisso e fastidioso da diventare ossessivo.
[Altri avvisi: italian!ship, linguaggio a tratti scurrile. Niente di drammatico, ma di sicuro non hanno studiato a Oxford!]
Genere: Commedia, Romantico, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Gino Hernandez, Salvatore Gentile
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Anteros'
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EPILOGO
 
Gino si appoggiò allo stipite della porta-finestra: la camera era esattamente come la loro, solo un paio di piani più in alto. Aveva in mano un bicchiere e ogni tanto rigirava il liquido chiaro che conteneva. Glielo aveva messo in mano Christian assicurandogli che era una vera bomba, e lui non aveva nessun dubbio a riguardo: puzzava più del gasolio. Si guardò intorno mentre un pigro sorriso gli stiracchiava le labbra. Sapeva che era tardi, ma non che ora fosse. L’idea di aspettare l’alba era stata di Christian, così come sua era l’idea di andare a vederla sul tetto. Lo fanno in tutti i cartoni animati giapponesi, aveva affermato convinto. Ma per quanto tutti fossero stati entusiasti di partecipare alla festa clandestina per aspettare il nuovo giorno, erano in pochi quelli che avevano resistito svegli.
Come Christian avesse potuto procurarsi quella quantità di alcolici e portarli in camera senza che nessuno se ne accorgesse, Gino non lo voleva sapere. Né aveva voluto farsi coinvolgere in quella specie di gara di bevute con i suoi compagni – che evidentemente reggevano l’alcol molto meglio di quanto lui fosse capace di fare. Alessio a parte, già rintronato dopo due birre e un bicchiere di quello che Christian aveva spacciato per sakè. L’aveva addirittura scaldato dentro una pentola su di un fornello elettrico.
A Gino venne da ridere a ripensare alla scena, quando avevano visto il terzino tirare fuori l’armamentario dalla valigia.
 
“Avevi paura che non ti dessero da mangiare?” commentò Salvatore con un sopracciglio inarcato.
“Si sa mai che mi venga voglia di una spaghettata a mezzanotte,” ghignò Christian.
Angelo scosse il capo: “Lo ha anche fatto.”
“Sei senza fondo.”
“Io consumo un sacco di energie, belli miei,” rispose Christian, armeggiando imperterrito con i suoi alambicchi.
Marco sorrise malefico e alzò i palmi delle mani in segno di resa: “Non vogliamo sapere in cosa.”
Christian li squadrò uno per uno con sguardo saputo. “Io,” si puntò teatralmente l’indice al petto, “penso.”
 
Il sorriso di Gino divenne più largo e arrivò a fargli brillare gli occhi. Con quella risata sguaiata e le battutine sceme sempre pronte era difficile immaginarsi Christian intento a riflettere. A volte si faceva anche fatica a capire se ci fosse o ci facesse: era difficile stabilire se afferrasse il cuore profondo di ogni situazione o ci scivolasse sulla superficie senza curarsi di comprenderla – o di scalfirla. Ma la sua energia era senza dubbio travolgente. E qualunque cosa si ficcava in quella sua testaccia dura metteva radici talmente profonde – e talmente in fretta – che era impossibile levargliela. Ovviamente era stata sua l’idea di quel festino alcolico: alla fine della cena il mister non aveva concesso loro il permesso di uscire perché la mattina successiva il ritrovo nella hall dell’albergo sarebbe stato prestissimo per raggiungere l’aeroporto. Così il jet-lag non sarà un problema, aveva affermato il difensore convinto. Se stanotte siamo ubriachi, domani in aereo dormiremo per tutto il viaggio e, all’arrivo, in Italia saremo subito svegli e pimpanti! E, non contento, aveva aggiunto severo: Io questa roba l’avevo comprata per la sera prima della partita, non è che possiamo sprecarla, eh!
Il portiere tornò a guardarsi attorno, per poi lasciare vagare lo sguardo nel buio fuori dalla finestra, la fronte appoggiata al vetro fresco, l’alito umido che vi creava effimeri aloni. Finalmente era arrivato un po’ di silenzio per le sue orecchie in quei giorni frenetici. L’ultima partita era stata davvero un’esperienza unica: data per persa in partenza, in quell’ultimo quarto d’ora erano riusciti a ricostruire quello spirito di squadra che avevano perso per strada. E da lì non si era più spento. Nonostante la scena attuale sotto i suoi occhi si componesse di una desolante distesa di ragazzi che dormivano di traverso sui letti o sdraiati per terra su delle coperte di fortuna, non aveva mai condiviso con loro quello stesso senso di appartenenza che sentiva ora. E poi c’era lui. Lui, di cui aveva ancora il sapore sulle labbra e il calore delle mani sulla pelle. Lo aveva seguito, da lontano, per tutta la sera, ma solo ora poteva concedersi di guardarlo, mentre era preso a chiacchierare con Fabio. Si sentiva ancora frastornato per quello che era successo e, se non avesse avuto le mani legate da quelle maledette bende, probabilmente sarebbe stato più insistente nel rifiutare di partecipare a quella festa. Anche se sarebbe stato difficile declinare un invito del tipo: siete voi gli eroi del momento, non potete mancare!
E per quanto avrebbe voluto approfondire il contatto, non voleva precorrere i tempi: non sapeva ancora cosa significava quel bacio, dove li avrebbe portati. Sapeva solo che gli era piaciuto da morire.
 
Salvatore si guardò intorno: chi non era ubriaco ci andava molto vicino. Aveva in mano la stessa bottiglia di birra che aveva agguantato a inizio serata e, a parte due sorsi, era ancora piena, nonché calda e sgasata: non aveva bisogno di alcol in corpo per perdere il controllo, non con Hernandez nelle vicinanze. Anzi, considerato i precedenti, aveva preferito andare sul sicuro. Avrebbe volentieri strozzato Christian quanto aveva proposto quella festa, ma un’occhiata di intesa con il portiere lo aveva convinto ad accettare senza troppe storie. Aveva sorriso, Gino, e quel sorriso lo scioglieva e lo ammaliava e lo rammolliva. E la cosa non gli piaceva più di tanto: non era abituato a fare quello che gli altri si aspettavano da lui, ma quel cazzo di sorriso era diventato persino più importante del suo maledetto orgoglio. E anche questo non gli andava tanto a genio. Poi si era ritrovato in quella camera d’albergo che non era la sua, con troppa gente tra lui e l’unica persona con cui avrebbe voluto essere. Ma si era creata una bella atmosfera e quella sensazione di aver fatto la cosa giusta che lo aveva accompagnato zoppicante fuori dal campo da calcio continuava ad aleggiargli attorno. Così aveva deciso di far buon viso a cattivo gioco e che comportarsi da persona socievole, per una volta nella vita, poteva essere un diversivo interessante. Quella sera si era ritrovato a chiacchierare con più gente e per più tempo di quanto avesse fatto da quando era partito per il Giappone. Appassionarsi alla conversazione fu la parte difficile: il suo sguardo era continuamente calamitato da Gino e la sua attenzione pure. Il capitano aveva chiacchierato con tutti, con un bicchiere in mano il cui contenuto pareva non diminuire mai. Lo aveva visto a tratti serio, a tratti divertito e, a volte, aveva sentito vibrare la sua risata cristallina. E l’impulso di mandare tutti al diavolo, in certi momenti, era stato difficile da sopprimere. Ma Gino pareva sereno e, nonostante quasi non si fossero parlati da quando erano usciti dalla loro camera, non lo aveva mai sentito così vicino.
 
La luce nella stanza si abbassò ulteriormente: qualcuno aveva buttato una maglietta sull’unica abat-jour accesa. Salvatore vide la sagoma scura di Gino stagliarsi accanto alla porta-finestra, lo sguardo perso nel vuoto, un sorriso allargarsi sul suo viso. I loro sguardi si incrociarono e si rifuggirono di nuovo, se per la milionesima volta in quella sera o per la prima volta del nuovo giorno, non lo sapeva.
Bevve un sorso della sua birra sgasata e, con una smorfia di disgusto, gli si avvicinò noncurante.
“Dì un po’, Hernandez, mi stai per caso evitando?” Lo guardò dall’alto in basso, l’espressione nei suoi occhi che strideva con il tono asciutto e basso della voce.
Gino si riscosse dai suoi pensieri da quel suono che era poco più di un sussurro e girò il capo di quel che bastava per incontrare il suo sguardo. Il cuore ebbe un tuffo e dovette sopprimere l’impulso di alzare il mento, chiudere gli occhi e riprendere quel discorso che avevano interrotto prima. Rimescolò soprappensiero il contenuto del proprio bicchiere, scrutandolo con aria sospetta, i denti che torturavano il labbro inferiore. “Perché ci provi tanto gusto a chiamarmi per cognome?”
Gentile si scansò i capelli dalla fronte con una mano. “Perché ha un bel suono,” rispose. Doveva evitare di guardarlo troppo o quelle lentiggini lo avrebbero di nuovo guidato fino al neo sopra al labbro, poi avrebbe chiuso gli occhi e avrebbe rischiato di non riuscire più a trattenersi. “Her-nan-dez,” sillabò vagando con lo sguardo nelle stesse ombre in cui poco prima si era perso quello di Gino. “Non sembra dannatamente importante?”
Il capitano sorrise sornione, osservandolo di sottecchi. “Il mio cognome o il fatto che tu mi stia evitando?” Stava iniziando a prenderci gusto in quel gioco al massacro fatto solo di domande.
“Uno gli spagnoli se li immagina piccoli e scuri. Come mai un tizio alto, biondo e con gli occhi azzurri si chiama Hernandez?” proseguì imperterrito il difensore. Parlare del cognome di Gino gli pareva un terreno più sicuro rispetto tante altre cose che avrebbero potuto uscirgli dalla bocca. Il bacio di prima gli bruciava ancora sulle labbra. E le dita bruciavano dalla voglia di fare tutto il percorso a ritroso con bottoni, asole e cerniere per trovare conforto sulla sua pelle fresca. Si chiese quando avrebbe potuto farlo di nuovo e si ritrovò a pensare a casa. E improvvisamente Milano e Torino non erano poi così lontane e i suoi genitori potevano andare al diavolo una volta di più.
Gino piegò la testa all’indietro, lo sguardo che ora mirava il soffitto. “Un non-so-quante-volte-bis nonno è emigrato in Argentina con un cognome italiano e mio nonno è tornato in Italia con un cognome spagnolo.”
“Quindi sei uno strano incrocio,” lo prese in giro il difensore. Si rigirò la bottiglia di birra tra le mani, ma si guardò bene dal berne un altro sorso. Sembrava piscio.
“I bastardini sono più intelligenti e affettuosi dei cani di razza. E vivono più a lungo,” osservò Gino.
Salvatore strinse le labbra e abbassò il viso per soffocare una risata: ufficialmente non voleva disturbare chi era ormai crollato a dormire sparso per la stanza, ma dentro di lui sapeva benissimo di non voler condividere con nessuno neanche una risata quando si trattava di Gino. Tornò a guardarsi attorno, ma nessuno pareva considerarli: su uno dei letti erano impilati in tre e sull’altro si erano incastrati in due. Alcuni avevano preferito tornare nella loro stanza, altri si erano sistemati alla meno peggio sul pavimento. A Christian invece la carriera di oste sembrava tanto congeniale quanto quella di calciatore: sempre con una bottiglia in mano, continuava imperterrito a riempire i bicchieri dei pochi sopravvissuti temerari che avevano retto il suo ritmo.
“Spagnolo solo di nome o anche di fatto?” buttò lì Salvatore perché non voleva che la conversazione si spegnesse. Si era reso conto che di Gino sapeva veramente poco e questo lo incuriosiva e lo affascinava nello stesso momento.
Hernandez corrugò la fronte. “Scusa?”
“Parli spagnolo?” Stava mettendo insieme parole senza capo né coda, ma era colpa di Gino. Era lui a confondergli le idee.
Il portiere annuì. “Difficile non farlo quando per i miei nonni e per mio padre rimane la madre lingua.”
“Ti ho sentito parlare in inglese e anche in tedesco.”
Gino sorrise: in tedesco riusciva a mettere insieme quattro parole in croce e con un accento da paura. “Ho fatto il linguistico,” rispose.
“Ma ti sei diplomato un anno dopo di me, anche se abbiamo la stessa età.” Gentile non riuscì a non punzecchiarlo.
Hernandez sorrise. “Sei tu ad aver fatto la primina, allora. Il mio curriculum scolastico è di tutto rispetto.” Era uno dei patti fatti con i genitori: vai dritto per la tua strada, ma anche studiare è importante. Almeno la sufficienza in tutte le materie, ok? Così aveva scoperto che le discipline scientifiche non facevano per lui, ma imparare nuove lingue gli veniva bene: probabilmente aveva a che fare con la sua naturale propensione a chiacchierare e, forse, anche con l’essere uno strano incrocio.
“Non ho fatto la primina: i nati a febbraio possono iscriversi l’anno precedente.”
“Io devo ringraziare se i miei genitori si sono ricordati di iscrivermi a scuola. Con mio fratello Luca se l’erano dimenticati e si è ritrovato a fare il primo anno dalle suore.”
Salvatore sorrise: l’aveva detto come se fosse una cosa per cui lo stavano ancora prendendo in giro. Lui aveva frequentato solo scuole private e cattoliche. Le aveva scelte con cura sua madre e lui aveva sempre faticato sui libri in modo di ottenere una media più che decorosa. Non poteva lasciare che si appigliasse a un’insufficienza per impedirgli di fare l’unica cosa che gli interessava davvero.
“E Gentile da dove viene?” domandò Gino.
Lo sguardo di Salvatore si rabbuiò. Non voleva parlare della propria famiglia, non si doveva intromettere in quel posticino che stava ritagliando nella sua vita. “Mio nonno dalla Sicilia, mio padre da Genova e mia madre è torinese doc.”
Gino sentì la temperatura attorno a Gentile di almeno venti gradi. Percepì che quell’argomento lo metteva a disagio: il suo tono aveva un che di definitivo e quella stringata risposta pareva nascere più da un freddo dovere di cortesia che dalla voglia di condividere qualcosa di sé. Abbassò lo sguardo e cercò un modo per cambiare argomento, ma era tardi, aveva gli occhi pesanti e le idee scarseggiavano.
Il silenzio venne interrotto da una vibrazione proveniente dalla sua tasca. Gino allungò il bicchiere a Salvatore che lo prese con sguardo interrogativo, quindi tirò fuori il cellulare con qualche difficoltà e sul display illuminato vide un messaggio di Serena.
“Il tuo chiodo fisso ha scoperto se sei bravo a letto?”
Lo spense immediatamente, per evitare che il difensore potesse leggerlo anche solo per sbaglio. Lo ripose rapidamente in tasca e riprese il bicchiere con più foga di quanta ne fosse necessaria. Se lo portò alla bocca e ne ingollò un sorso. Una sensazione di fuoco liquido gli invase la bocca per poi stringergli la gola tanto da strozzarlo. Gino tossì tutta l’aria che aveva nei polmoni, mentre sentiva il liquore bruciargli l’esofago e scendere rapidamente verso lo stomaco. Le lacrime gli pizzicarono gli occhi per il fastidio e la mancanza di aria.
“Tutto bene?” lo guardò Salvatore preoccupato, una ruga dritta in mezzo alla fronte aggrottata.
Gino annuì con forza e fece per bere un altro sorso, ma Salvatore gli tolse il bicchiere dalle mani. “Meglio di no.”
Il portiere tossì ancora battendosi la mano sinistra sul petto, quindi inalò tutta l’aria che poté: gli bruciò la gola, ma almeno passava. Fece un altro respiro profondo, e riaprì gli occhi. Le gote erano tinte di un acceso vermiglio.
“Avevo capito che non reggevi l’alcol,” commentò il difensore, a cui non era sfuggito lo sguardo interessato di Gino nel leggere il messaggio. “Ma non credevo fossi messo così male.”
Gino sorrise, altri due colpi di tosse gli uscirono dalle labbra quanto tentò di parlare. “Mi è solo andato di traverso. Non credevo facesse tanto schifo.” La voce arrochita mandò un brivido lungo la schiena del difensore.
“Peggio questa roba,” Salvatore annusò il contenuto del bicchiere con una smorfia di disgusto, “o peggio il messaggio?”
Il viso di Gino, già congestionato per la transitoria mancanza di fiato, divenne ancora più rosso.
“Qualcosa che dovrei sapere, Hernandez?” Era una domanda infelice, lo sapeva. Ma quegli scambi di messaggi che ogni tanto avevano impegnato il portiere avevano impegnato anche lui, anche se in modo diverso. Non sapeva chi fosse il mittente, ma istintivamente non gli stava esattamente simpatico.
Il portiere sorrise imbarazzato. “Solo un messaggio di mia sorella.” Le parole di Serena lo avevano lasciato senza fiato tanto quanto quella vera bomba che aveva bevuto. Era così preso a nascondere il proprio imbarazzo che non era stato in grado di afferrare quella nota di gelosia nella voce di Gentile.
 
Gino si lasciò scivolare a terra a terra lungo il muro e abbandonò il capo all’indietro. Tirò appena Gentile per la manica che, docilmente, lo seguì e si accoccolò accanto a lui.
“Non sai quanto sappia essere impertinente Serena,” Hernandez sorrise, questa volta più sincero. Il suo viso stava tornando a una temperatura accettabile.
“Se è come te allora è sufficiente,” ironizzò Gentile.
“Io?” ribatté sconcertato il portiere. “Io sono un dilettante a confronto. E poi io non sono impertinente!”
“Forse,” lo squadrò Salvatore. “Ma sei costituzionalmente incapace di farti i cazzi tuoi.”
Gino abbassò la voce, si voltò verso di lui e gli mormorò all’orecchio: “Lo trovi davvero un difetto dopo tutto?”
Salvatore sorrise e si guadagnò la sua spalla. “Sei comodo, Hernandez, lo sapevi?” Gli appoggiò un bacio leggero sul collo, nascosto com’era dall’ombra della stanza e inalò il suo profumo. Sapeva di sole e di pulito e sarebbe stato un cuscino magnifico.
Gino arricciò il naso perché i capelli del difensore gli facevano il solletico. Voltò il viso e vi appoggiò sopra la guancia, sorrise e chiuse gli occhi.
***
 
Christian li svegliò tutti alle quattro e quaranta del mattino tra improperi e bestemmie vere e proprie. Insistette che dovevano uscire sul tetto a vedere l’alba prevista per le cinque e un quarto o giù di lì. Gino si svegliò con una spalla intorpidita e le mani addormentate, le braccia di Salvatore che gli cingevano mollemente l’addome. Lo chiamò piano e, nell’alzarsi, il difensore gli fece di nuovo il solletico con i capelli. Avevano dormito poco e male, ma Salvatore aveva la faccia di uno che aveva fatto un lungo sonno ristoratore.
Uscirono dall’albergo e l’aria frizzante della notte li investì in pieno. Aspettarono per un tempo indefinito, con i brividi sotto la pelle. Gino e Salvatore si addossarono al muro accanto alla porta, per ripararsi dal vento e dagli sguardi inopportuni. La mano del difensore si mosse lentamente dietro la schiena di Hernandez che gli fece spazio e assecondò le sue intenzioni.
“Ricordami perché siamo qui,” commentò Gentile, incrociando le dita con le sue.
Gino sorrise. Indicò Christian col mento, abbarbicato al parapetto come se vedere il primo raggio di sole fosse una questione di vita o di morte. “Come fai a spegnere tanto entusiasmo?”
Salvatore sbuffò, per poi spaziare con lo sguardo su quella città. Era ancora buio e anche il primo barlume dell’alba non fu sufficiente a far sbiadire le mille luci della metropoli. Ma dava loro una sfumatura diversa, calda, viva. Sentì le bende ruvide sotto la sua mano e le dita di Gino, lunghe, ossute e perennemente ghiacciate. Le strinse più forte, attento a non fargli male, ottenendo in cambio una stretta delicata, ma non meno ferma. Inspirò profondamente l’aria fredda di quel momento sospeso fra la notte e il giorno e lasciò che un sorriso apparisse sul viso, sulle labbra e negli occhi.
Il Giappone non aveva visto solo le sue sconfitte.
***
 

Note dell’autrice:
L’avevo promesso e ce l’ho fatta!
Grazie a tutti voi che siete passati di qua, spero che almeno vi siate divertiti a leggere quanto io a scrivere! Non sapete che emozione mettere la parola fine su questa storia.
Un abbraccio forte a tanti auguri di buone feste!
A presto su questi schermi…
   
 
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