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Autore: Itsamess    24/12/2017    1 recensioni
Ci sono molti modi di costruire un’abitazione.
Jim Hopper non è un carpentiere, ma sa che alla fine il principio di fondo non è così difficile: un po’ di calce, mattoni, assi di legno e il gioco è fatto.
Ma costruire una casa – quella è tutta un’altra storia.
Ovvero, la Vigilia di Natale in casa Hopper.
Genere: Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jim Hopper, Undici/Jane
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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How to build a home
 





 
Vigilia di Natale, 1984.
 
 
In piedi di fronte ad una delle finestre della baita, con una tazza di caffè nero fra le mani, Hopper stava guardando imperversare la tempesta.
Di solito le tende le tenevano tirate – era una delle regole che aveva imposto fin da subito – ma tanto quella sera il tempo era così inclemente che nessuno dall’esterno avrebbe potuto vederlo. E poi si trattava della notte della Vigilia di Natale, Cristo Santo! Nemmeno un agente del FBI sarebbe stato disposto a passarla in auto a sorvegliare un sospettato, figuriamoci un agente della polizia di Hawkins.
 
La gente ha molto rispetto per le feste, soprattutto nelle piccole città, pensò Hopper, portandosi di nuovo la tazza alle labbra. E fino a quando questo significava meno casini e disturbi per lui, gli andava bene.
 
Erano anni che Jim Hopper non festeggiava il Natale – sette anni, per l’esattezza.
In fondo alla sua memoria restavano ancora gli echi delle risate di una bambina che giocava a fare l'angelo sulla neve fresca senza curarsi del freddo e la sua vocina che intonava la fine del ritornello di Jingle Bells prima di tornare a succhiare un bastoncino di zucchero a righe bianche e rosse.
A Sarah piaceva il Natale.
Ad Hopper adesso non più.
 
Se fosse stato per lui lo avrebbe vissuto come un giorno qualsiasi – un giorno inaspettatamente silenzioso in cui il suo solito drugstore avrebbe avuto  la serranda abbassata – ma ora non si trattava più soltanto di lui.
 
Appoggiò la tazza sul bancone della cucina e lanciò un’occhiata alle proprie spalle: Jane era ancora sul divano, a guardare La Vita È Meravigliosa sotto ad una spessa coperta di lana. Quel film doveva piacerle molto, perché stranamente ancora non aveva chiesto della cena, e sì che erano quasi le otto.
 
«Jane?»
Non gli era mai piaciuto chiamarla Eleven, perché non era un numero, era una bambina e aveva un nome vero, anche  se non lo usava quasi nessuno. Andò a prendere la giacca: «Io esco un attimo a controllare una cosa, due minuti e torno.» 
 
Aspettò che lei gli rispondesse qualcosa per avere la certezza che lo avesse sentito, controllò di avere la pistola con sé e uscì sul portico.
Il freddo lo investì con violenza, intrufolandosi crudele dentro al suo colletto e facendolo rabbrividire, ma Hopper non ci fece quasi caso. Aveva ben altri pensieri, al momento. Gli era sembrato di vedere un'ombra, anche se con quella tempesta era probabile che si fosse sbagliato. In ogni caso, la prudenza non era mai troppa, pensò scendendo i gradini di legno del portico e dirigendosi verso un preciso punto del terreno intorno alla casa.
 
La neve non era molto alta, ma era difficile procedere per via del vento gelido che continuava a sferzargli il viso. Maledette tempeste di neve, chissà perché non esisteva nessuna canzoncina natalizia a riguardo, pensò Hopper con una smorfia, provando ad riscaldare le proprie mani alitandoci sopra.
Fortunatamente, non dovette camminare ancora a lungo: qualche secondo dopo riconobbe i due alberi su cui aveva fissato una delle trappole, che in realtà consisteva soltanto in un semplice filo di nylon attaccato ad un allarme. Si accovacciò per esaminarla più da vicino e avvertì un forte senso di sollievo nel vedere che era ancora intatta.
Nessuno aveva provato ad avvicinarsi a Jane, quel giorno. Nessuno aveva provato a portargliela via.
 
Hopper poteva non essere il massimo come genitore - perché non amava i giochi da tavola e non sapeva cucinare altro che bistecche e waffle surgelati – ma aveva imparato che la cosa più importante che un padre potesse fare era proteggere la propria figlia.
La prima volta non c'era riuscito.
Questa volta non avrebbe mandato tutto a puttane, fosse stata anche l'ultima cosa che faceva.
 
 
Andò a controllare che anche le altre trappole fossero inserite e che dall’esterno la baita non fosse troppo illuminata e quindi visibile da chi la guardasse dal bosco. Solo allora, in un parziale stato di ibernazione ma con il cuore più leggero, risalì i gradini di legno della baita. Nonostante avesse le chiavi, prima di entrare bussò comunque sulla porta seguendo la sequenza che aveva concordato con Jane, una sequenza che in codice Morse significava noi. Era il genere di cose che sperava la facesse sentire al sicuro, e rendesse la loro baita un po’ meno baita e un po’ più casa.
 
Non fece in tempo a richiedere la porta dietro di sé che quasi si prese un colpo nel ritrovarsi di fronte Jane. Non l'aveva sentita avvicinarsi: aveva un passo leggerissimo, il passo di chi è abituato a nascondersi, il passo di chi è pronto a scappare da un momento all’altro.
La bambina reggeva fra le braccia la spessa coperta di lana blu sotto alla quale Hopper l'aveva lasciata.
 
«Hey, tutto bene? È successo qualcosa mentre ero fuori?» 
 
In tutta risposta, Jane si alzò in punta di piedi e con un gesto goffo ma affettuoso gli mise la coperta intorno alle spalle.
 
«Grazie, ragazzina.» 
 
Lei abbozzò un sorriso e spiegò: «Blizzard» 
 
Era stata una delle prime parole che lui le aveva insegnato, qualche settimana dopo che l’aveva trovata nel bosco. Era un buon segno notare che l'aveva tenuta a mente, soprattutto dal momento che non di trattava di una parola di uso quotidiano come amico  o soap opera. Hopper ce la stava mettendo tutta per ampliare il vocabolario della bambina, assegnandole una parola al giorno e spingendola a leggere il più possibile, ma a Jane i libri non piacevano molto, perché erano troppo lunghi e complicati. Preferiva passare i pomeriggi davanti alla televisione, ripetendo sottovoce fra sé e sé i termini che non capiva ed aspettando la cena per chiederne il significato ad Hopper (ed era andato tutto bene fino a quando una sera non gli aveva chiesto cosa volesse dire puttana e Hopper le aveva definitivamente proibito di guardare Dallas, perché già usava abbastanza parolacce lui e non c’era bisogno che le sentisse anche in tv).
Hopper sorrise ed annuì.
«Brava, si tratta di un blizzard. Ti ricordi anche cosa significa?» 
 
«Tempesta di neve con forti venti e bassa visibilità» citò lei a memoria, chiudendo gli occhi come faceva sempre quando voleva concentrarsi.
 
«Esatto. Non se ne vedeva uno da decenni. Spero non faccia troppi danni al raccolto, altrimenti il signor Shuester andrà fuori di testa.» 
 
«Neve fredda, scivolosa. Fastidio.» sentenziò Jane, rabbrividendo al solo ricordo. Hopper non ebbe difficoltà a capire il perché. Dopotutto l'ultimo inverno era stato particolarmente freddo e lei lo aveva passato da fuggitiva, dormendo all'aperto e riparandosi Dio solo sa dove.
 
Era nevicato anche la notte in cui Hopper l’aveva incontrata nel bosco.
Per mesi aveva aspettato quel momento, lasciandole in una cassetta nel cuore della foresta avanzi, provviste, una volta perfino una sciarpa. Ma non era stato lui a trovarla.
Era stata Jane che aveva scelto di farsi trovare.
Quando era sbucata fuori da dietro un albero e aveva fissato gli occhi nei suoi, nel suo sguardo Hopper aveva intravisto la diffidenza di un animale selvatico unita alla debolezza di un animale ferito: quei mesi di solitudine l'avevano resa se possibile ancora meno incline a fidarsi degli altri, ma lui aveva saputo conquistare la sua fiducia un passo alla volta, un waffle alla volta, una Parola del Giorno alla volta.
 
La prima volta che Jane lo aveva visto impugnare un martello si era ritratta, spaventata, perché non riusciva a capire come potesse, un oggetto che lei considerava soltanto un'arma, servire invece per costruire qualcosa.
Purtroppo, ci sarebbe voluto del tempo. Hopper non era un carpentiere, ma sapeva che per costruire un’abitazione bastavano un paio di settimane, mentre per una casa a volte non bastava una vita. Lui poteva solo fare del proprio meglio, e sperare che fosse sufficiente.
 
Con un sospiro si sfilò gli stivali zuppi di neve.
«Spegni la TV, è ora di cena.» 
 
(In realtà cena nel loro caso è un arrosto cucinato da Joyce e dell’eggnog che ha davvero troppo alcol dentro per essere bevuto da una bambina di undici anni, per cui Hopper gliene lascia assaggiare solo una cucchiaiata e poi va a scaldarle, tanto per cambiare, degli Eggos).
 
Hanno da poco finito di mangiare quando lo sguardo di Jane si fa improvvisamente più cupo, come se le fosse venuto in mente qualcosa. Probabilmente è triste di non essere piú riuscita a vedere Mike, dopo il ballo, eppure Hopper non aveva voluto correre dei rischi inutili: tanto nel giro di poche settimane le cose sarebbero cambiate e lei avrebbe potuto smettere di restare nascosta e comportarsi come una bambina come tutte le altre. Si trattava solo di portare pazienza e far passare quei giorni senza commettere cazzate. Per questo, nonostante tutti i pianti e i giacconi strattonati e gli occhi imploranti, Hopper aveva proibito a quei ragazzini di venire a passare la Vigilia nella baita. Sarebbe stato un gesto stupido e – come ripeteva sempre a Jane - loro non erano stupidi.
Lei non l'aveva presa bene, ma aveva capito – o almeno così pensava Hopper.
 
«Hey, c'è qualcosa che non va?» le domandò, ma la bambina continuò a guardare fuori dalla finestra con aria desolata. Possibile che avesse notato qualcosa? Possibile che le trappole non fossero scattate?
«Jane, hai visto qualcuno?» 
Il cuore di Hopper perse un battito e l'uomo scostò la tenda per vedere quello che stava guardando Jane, ma fuori dalla finestra non c'era altro che neve.
 
Stava per chiederle cosa le fosse preso quando Jane mormorò in un tono di voce quasi impercettibile
«È Natale.» 
 
«Sì…» rispose Hopper, senza capire.
 
«E tu sei qui.»  continuò lei, questa volta guardandolo negli occhi. Aveva un espressione tremendamente seria, e confusa, come quando gli aveva chiesto di spiegarle come funzionava un microonde e Hopper non aveva saputo dirle pressoché nulla. Ancora una volta, nella meravigliosa e impenetrabile mente di Jane era sorta una domanda, o un dubbio. Si trattava solo di capire quale.
 
«Sì, è Natale e sono qui… qual è il problema? Non mi vorresti qui?»  provò a dirle, mentre sbocconcellava gli ultimi pezzi di waffle rimasti.
 
«È Natale.» ripetè Jane e poi in tono monocorde aggiunse qualcosa che doveva aver sentito dire in tv: «Natale si passa con la famiglia» 
 
Hopper smise di mangiare e guardó la bambina fisso negli occhi.
«Infatti, lo sto facendo. Sei tu la mia famiglia, hai capito? Non c'è nessun altro con cui vorrei passarlo.»
 
Jane distolse lo sguardo, come faceva sempre quando Hopper le dava una risposta che non riteneva soddisfacente. Era già successo nel caso del microonde e in decine di volte prima di quella, ma quella sera era particolarmente importante che lei credesse alle sue parole, perché lui le intendeva sul serio.
«Vieni. Ti faccio vedere una cosa.» 
 
Gli occhi di Jane per un attimo si illuminarono di speranza.
«Regalo?» 
 
«No, il regalo più tardi. Questo è un favore che mi hanno fatto. Un… regalo che hanno fatto a me.» 
Le fece segno di restare seduta a tavola, mentre lui tirava fuori dal cassetto una busta, custodita con cura da mesi, ormai.
 
La consegnò nelle mani di Jane, che la aprì senza capire.
Si trattava delle carte per l'adozione.
 
«Jane Hopper»  lesse la bambina ad alta voce.  «Hopper. Come Jim Hopper.» 
 
«Si. Avrai il mio cognome. Significa che per la legge sarai mia figlia.» le spiegò lui, sorprendendosi di sentire il proprio cuore battere all’impazzata. Non ricordava di essere mai stato tanto nervoso, e sì che si era ritrovato faccia a faccia con un Demogorgone.  
 
«E tu il mio papà?» domandò lei. Dalla voce non si riusciva a capire se fosse arrabbiata o felice.
 
«Sì.»  rispose Hopper, prima di affrettarsi ad aggiungere «Ma potrai chiamarmi come vorrai. Non sei obbligata a chiamarmi papà, né in nessun altro modo. Ci siamo capiti?» 
 
Jane annuì, con le labbra incurvate in quel lieve sorriso che le veniva sempre quando qualcuno si comportava in modo gentile con lei, come se per un attimo la sua armatura da dura (da strafiga, avrebbe detto lei) si incrinasse e lasciasse intravedere la semplice bambina di undici anni che in realtà era.
 
Hopper ricambiò il suo sorriso e con il tono più convincente che riuscì a trovare sclamò: «E ora che ne dici, mettiamo su un po’ di musica?» e senza nemmeno aspettare una risposta andò ad accendere il giradischi.
 
Jim Hopper, maestro nel trovare diversivi per evitare di parlare dei propri sentimenti dal 1949.
Il diversivo in quel caso si trattava di improvvisare passi di danza imbarazzanti sulle note dell'album più natalizio che era riuscito a trovare, ovvero un greatest hits di Frank Sinatra. Hopper si era appena esibito in una delle sue mosse migliori quando sentì Jane ridacchiare.
 
«Che c’è, non ti piace come ballo?»  la rimbrottó lui, fingendosi ferito nell'orgoglio «Magari potresti insegnarmi qualche passo… Mi sembra che tu te la sia cavata piuttosto bene allo SnowBall» 
 
«Mike balla meglio di te.»  gli fece presente lei.

«Mike Wheeler ha un quarto dei miei anni. Avresti dovuto vedermi da giovane, ragazzina, le mie mosse facevano impazzire tutti. Un vero Tony Manero!» 

Jane rise di nuovo, anche se probabilmente non aveva colto la citazione, e Hopper le tese una mano come per invitarla a ballare, senza aspettarsi di vederla accettare. E invece Jane si alzò da tavola e fece un mezzo inchino – come lui le aveva insegnato a fare in vista del ballo scolastico. Non aveva ancora lasciato la mano di Hopper.
Lui la fece salire sulle proprie scarpe e la strinse a sé perché non perdesse l’equilibrio. Ti tengo io le promise e per mezza canzone ballarono in quel modo - Hopper con una coperta sulle spalle e Jane senza pantofole - mentre fuori imperversava la tempesta di neve.

«Hai voglia di scartare il tuo regalo?» Le domandò lui una volta finita la canzone. Erano già le dieci e non voleva che Jane andasse a letto troppo tardi, Vigilia di Natale o no.
«Tu aspettami in soggiorno, vado a prenderlo.» 
 
Jane annuì, e corse fuori dalla cucina.
Non doveva aver ricevuto molti regali in vita sua e l’idea sembrava riempirla di gioia.
 
Non che il regalo si presentasse benissimo: non soltanto era incartato in un vecchio foglio di giornale, ma era anche unito ad un biglietto d'auguri ricavato da un Abre Magique (che quantomeno aveva la forma di un albero di Natale).
Sopra, in una pessima calligrafia, Hopper aveva scritto semplicemente Per Jane.
 
La bambina lo staccò dal pacchetto, lo annusò e sorrise nel sentirlo profumare di vaniglia.
Un attimo dopo si era già fiondata a scartare il regalo, con lo sguardo accesso di trepidazione e un’espressione gioiosa sul volto, ma non appena vide il contenuto del pacchetto perse il sorriso.
«Carta.» commentò, un po’ delusa.
 
«È un quaderno.» si affrettò a specificare Hopper, sperando che l'assenza di testo scritto rappresentasse un punto a favore. Sapeva fin troppo bene quanto Jane disprezzasse i libri. «Puoi usarlo per disegnare. O per esercitarti a scrivere...  ho pensato ti potesse piacere.» 
 
«Grazie… papà.» 
La parola suonò giusta sulle sue labbra, come la risposta ad una domanda che si erano fatti entrambi per fin troppo tempo.
 
Hopper rimase per un attimo interdetto, poi disse in fretta: «Aspetta, ti prendo delle matite.» 
 
Tornò portando un vecchio astuccio di stoffa rosa decorata con un motivo di stelline, una di quelle cose che Hopper aveva portato nella baita anche solo per farla apparire meno vuota. Jane ne estrasse una matita azzurra e aprì il quadernetto che aveva appena ricevuto, ma un attimo prima di appoggiare la mina sul foglio notò un'etichetta incollata sulla matita.
E sull'etichetta, un nome.
«Sarah H.» lesse lei.
 
«Mia figlia.» spiegò Hopper, con la voce insolitamente ferma. Non gli capitava spesso di parlare di lei. «Le matite erano sue.» 
 
«Carina?» 
 
Era molto carina, sì. Un po' ti assomiglia.
Non era del tutto vero, perché Sarah aveva avuto i capelli biondi, mentre Jane aveva una cascata di ricci scuri impossibili da pettinare, eppure le due bambine non erano poi così diverse: erano entrambe troppo giovani per sopportare il dolore a cui erano state sottoposte è troppo innocenti per aver fatto qualcosa per meritarlo. Ma soprattutto, si trovo a realizzare Hopper, entrambe erano sua responsabilità. D'accordo, forse Jane non era biologicamente sua figlia - ma era difficile tenerlo a mente mentre le rimboccava le coperte e le leggeva una fiaba della buonanotte. Forse non era sua figlia, ma era come se lo fosse e cazzo se non avrebbe fatto ogni cosa per tenerla al sicuro, anche se significava controllare le trappole in giardino anche la notte della vigilia di Natale. Questa figlia Hopper l’avrebbe salvata, fosse stata anche l’ultima cosa che faceva.
«Sai, le piaceva tanto disegnare... Su, prova.» 
 
«Cosa devo disegnare?» domandò Jane, che aveva passato tutta l’infanzia a seguire ordini e si trovava sempre un po’a disagio quando le si chiedeva di scegliere per sé.
 
«Quello che vuoi.» 
 
Jane ruotò il quadernetto in orizzontale e iniziò a disegnare due cerchi, uno grande e uno piccolo. Uno scarabocchio marrone per fare i propri capelli e qualche lineetta per quelli di Hopper, che ridacchiando le disse di non essere ancora così calvo. Intorno a loro, tracciò un rettangolo che voleva assomigliare una baita con le finestre illuminate, poi scrisse in cima al foglio la primissima Parola del Giorno che aveva imparato
Casa.
 
E forse solo in quel momento, per la prima volta, Hopper sentì che lo era davvero.
 





Angolo dell'autrice

Ho scritto questa storia solo perchè mi sono innamorata del rapporto che si è creato fra Hopper e Jane nella serie, tanto che fra loro due e Dustin e Steve non so quale possa essere eletta la miglior amicizia della Season 2.
Se vi va di farmi sapere cosa ne pensate, il modo lo conoscete. 
Intanto, un abbraccio a chiunque sia arrivato fin qui e che il vostro Natale possa essere pieno di abbracci danzanti e coperte di lana.

Itsamess
  
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