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Autore: FRAMAR    26/12/2017    28 recensioni
A Montechiari viveva un bambino di dieci anni: non era bello, aveva tanti capelli arriccicciati sulla fronte, due fratelli e tre sorelline, alla sua casa si arrivava con una scaletta scavata nella roccia
Genere: Azione, Commedia, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il Natale più bello. (Fiaba)




 
In un paesino. Piccolo, piccolo. Poche case scavate nella roccia del monte. Intorno alla piazza, larga quanto una casa grossa ruota di mulino, le case del dottore, del farmacista e del barone. Il dottore era un uomo dai folti baffi grigi e la massiccia pancia. Il farmacista era secco, aveva un colorito giallastro e gli occhi cisposi. Il barone nessuno lo conosceva, abitava la casa qualche volta, ma nessuno lo vedeva arrivare o partire. Si vedeva che c’era solo quando si illuminavano le finestre.

Questo il paese e i personaggi più importanti. Il paese si chiamava Montechiaro.

Salendo per una scaletta scavata nella roccia si giungeva su, al castello Zafferano. Era un antico castello di cui restavano le mura del pianterreno e la grande porta centrale. In quel castello nessuno era mai entrato. Ogni volta che qualcuno tentava, veniva spinto fuori da un’improvvisa tempesta di vento. L’ultimo a tentare era stato certo Pacchione quando aveva vent’anni ed ora, vecchio ottantenne, ne parlava con una tale precisione di particolari terrificanti, che uomini e donne, ogni qualvolta passavano dinanzi al castello, affrettavano il passo, facendosi il segno della croce.

A Montechiaro viveva un ragazzo di dieci anni: Bambolo. Bambolo non era bello, aveva un viso arguto con un grosso naso e una grossa bocca e tanti capelli di colore incerto, che gli si arricciavano sulla fronte. Bambolo aveva tre sorelle e due fratelli. Il padre era muratore e siccome di case se ne aggiustavano poche e se ne costruiva nessuna, era quasi sempre disoccupato. La madre lavorava la terra degli altri. In casa c’era sempre poco cibo e Bambolo aveva sempre fame.

Un giorno, dopo essere uscito dalla scuola, si avviò su per le scale che portavano a Castel Zafferano. Era un giorno piovigginoso e su il cielo pareva più scuro. Bambolo era lì, davanti alla porta del castello e si faceva coraggio cantando una canzone di Natale. Poggiò la mano aperta sull’alto battente di legno e spinse. La pesante porta cigolò un poco, senza aprirsi del tutto. Bambolo spinse di più appoggiandosi con il petto sulla porta e questa, allora, lentamente si aprì, stridendo lamentosamente.

«Vieni avanti e chiudi la porta», disse una voce bassa, roca.

Bambolo stette fermo e pensò di averla immaginata quella voce e non tremò.

«Chiudi la porta, se vuoi entrare», disse la voce. Stavolta Bambolo, capì che l’immaginazione non c’entrava e tremò. «Entra e chiudi la porta», ripeté la voce.

Bambolo chiuse la porta dietro le spalle. Stette fermo a sentire solo il suo respiro affannoso e i battiti del suo cuore, che, su per la gola, gli si ampliavano nel capo come tuoni.

La voce non si sentì più. Bambolo vide una lampadina giallastra accesa su degli scalini e s’avviò verso di essa. Salì i pochi gradini e, giunto sullo stretto pianerottolo, s’accorse di trovarsi di fronte a un’altra porta di legno pesante, coperta di polvere e ben chiusa. Cercò un campanello, una serratura, ma non trovò nulla. Bussò forte, a lungo, con le nocche, con i pugni, con i calci. Nessuno aprì. Al di là dell’uscio i rumori si perdevano in un vuoto smisurato.

Bambolo sedette sugli scalini e guardò avvilito quell’uscio che si poneva fra lui e chissà che cosa. Poi  gridò: «Perché non parli più? Parla, parla!».

Nessuno parlò e Bambolo che prima non aveva pianto per lo spavento, pianse per la disperazione dell’impotenza.

Poi scappò, fuggì fuori di corsa, facendo risuonare sull’acciottolato del viottolo gli zoccoli, ritmicamente.

 
«Bambolo devi andare con papà a monte, alzati».


La madre l’aveva fatto alzare presto. S’era messo il maglione pesante, quello che sul petto aveva un grosso rattoppo rosso, simile a un fiammante stemma.

Seguì il lungo padre, tenendo stretto con una mano un pezzo di pane e con l’altra un cesto.

Passarono davanti al castello e, Bambolo pensò che il padre avrebbe potuto aprire quella porta.

Andarono a cogliere funghi.

Bambolo dimenticò ogni cosa per poter trovare più funghi del padre e in minor tempo. Corse per una scorciatoia e raggiunse il bosco, dove vide tanti funghi sotto gli alti alberi. Riempì il paniere che aveva con sé e si sedette per riposare e aspettò di sentire il fischio del padre.

S’addormentò e quando si svegliò il sole era già alto nel cielo, doveva già essere mezzogiorno. Balzò in piedi, prese il paniere e scese giù balzelloni, gridando: «Pa’, ohi pa’!»

Dinanzi al castello si fermò. Volle di nuovo entrare. Spinse il battente e la voce si sentì di nuovo: «Vieni avanti e chiudi la porta.»

S’avviò deciso verso l’altra porta chiusa e disse: «Senti, io ti lascio qui dei funghi, ecco, ti scelgo i più grossi. Questi»,  e ne prese due tondi come palle di bocce e li strofinò facendone cadere il terriccio, «questi sono più belli. Te li metto vicino alla porta, domani mi dirai se ti sono piaciuti».

Fece un mucchietto di funghi e su tutti pose a torreggiare quei due funghi biancastri e odorosi.

 
Il primo pensiero del mattino seguente, per Bambolo, fu quello di andare a vedere su, al castello, se i funghi erano ancora lì.

L’aria lassù era frizzante, fresca e leggera. Sulla porta del castello da un ciuffo erboso era spuntata una margheritina gialla, non ancora tutta aperta, con i petali un po’ accartocciati e umidi di rugiada.

La solita voce si sentì con l’aprirsi e si smorzò con il chiudersi della porta. Bambolo stette un po’ fermo per abituarsi al buio e poi si avviò alla scala. A terra non c’era più il mucchietto di funghi, ma al suo posto c’era un foglietto su cui spiccava una sola parola a grandi caratteri: «Grazie!».

Guardò la porta e bussò di nuovo e lungo. Non aveva più  paura, anzi gli pareva che quel castello, ora fosse anche un po’ suo e perciò avrebbe voluto conoscerne il segreto». Nessuno gli venne ad aprire e andò via malinconicamente.

Il giorno dopo Bambolo iniziò ad andare a scuola. Frequentava la quinta e sapeva che era la classe più difficile, perché c’era l’esame finale. Ma per Bambolo le lezioni e lo studio erano sempre facili e leggeri, tranne la storia: Tutti quei nomi, quelle date e quelle guerre non riusciva mai a ricordarli.

Pensò che al castello ora poteva andarci solo di sabato o di domenica.

La sorella l’accompagnò a scuola.

«Hanno cambiato maestra, Bambolo mi raccomando, sii buono. Lo sai che…», parlava Margherita e, Bambolo pensava che mai in quel paese era tornato per due anni di seguito lo stesso insegnante, che Margherita era diventata una bella figliola, che quel mattino c’era vento, il vento che, buono o cattivo, gelido o tagliente, l’avrebbe accompagnato tutto l’inverno.

La maestra era buffa, piccolina, con i capelli legati dietro la nuca con un nastrino scolorito e un enorme paio di occhiali. Imbronciato si sedette al suo posto, o meglio, nei posti riservate a quelli della quinta. Di scuola ce n’era una sola: di aula, anche. E lì c’erano tutti, dalla prima alla quinta. In quinta, quell’anno, ce n’erano solo tre: Graziano il figlio del farmacista. Marco il figlio del fornaio e Bambolo.

A Bambolo quella sembrava una maestra finta: aveva una vocina delicata e camminava a passettini sincopati. Però la storia non gli fu più difficile: tutte quelle guerre, raccontate dalla sua voce cantilenante, parevano antiche leggende

 
Margerita, un giorno, seppe dalla maestra che Bambolo era molto intelligente e studioso e bisognava farlo continuare a studiare. Margherita lo disse alla madre. La mamma al padre e Bambolo divenne importante nell’ambiente familiare. Infatti si pensò di vendere qualcosa per mandarlo a studiare in città.

Di tutto questo Bambolo non sapeva niente e fu molto meravigliato quando la piccola maestra, in classe, gli disse: «Vorrei prepararti da ora per le scuole superiori. Dillo a casa. Verrai da me il pomeriggio.».

La casa della bambola maestra stava alla Nunziata: uno spiazzo dove c’erano tre case e quattro vie. Era una casetta rossa posta al di là di un fossato e vi si accedeva per mezzo di un ponticello lungo si e no due metri. Bambolo andava dalla maestra il martedì, il sabato e la domenica. Ormai di tempo libero ne aveva poco tra la scuola, lo studio e i vari servizi che faceva in casa o in montagna.

A Natale fu libero. La mattina, mentre tutti i suoi erano in chiesa, egli salì al castello. Aveva in mano un cartoccetto. La porta resisté un poco, poi si aprì, ma Bambolo non sentì nessuna voce. La luce c’era ancora, corse all’altra porta, ma la vide sempre chiusa. Poi svolse il cartoccetto: un pane dolce, due caramelle e un’immagine di Gesù Bambino. Posò il tutto nella carta aperta a conca, a terra , vicino alla porta. Un cenno di saluto  e uscì.

Due giorni dopo tornò al castello. Era stato a casa della maestra e le aveva portato un cesto colmo di castagne. Da lì era andato al castello, per un’altra via, quella, quella della montagna. Il vento soffiava forte e le cime degli alberi si piegavano gemendo e l’acqua di un torrentello gorgogliava nervosa, correndo sul terreno, spumeggiando sui sassi, spezzando ramoscelli. Quella via era più lunga, ma giunti su, si vedeva tutto il castello. Poche mura, un tetto cadente e una torre sbilenca che mancava da un lato.

«Che fai qui?»

Bambolo con un sussulto si girò per vedere chi mai gli parlasse così vicino. Era un uomo: un vecchio alto, dai capelli bianchi e gli occhi chiari.

«Che cosa fai qui?» chiese di nuovo il vecchio.

«Nulla signore».

«Guardavi, forse, il castello?».

«Si, signore».

«E perché?».

«Per… Così, signore».

«Andavi al castello?».

«No… Sì, signore».

«Vengo con te: E’ per di là che debbo andare. Come ti chiami?»
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«Bambolo».

«Come?».

«Bambolo Carnevale.»

«Che nome strano. E quando festeggi il tuo onomastico?»

«Il giorno di Natale, signore perché il mio vero nome è Bambino in onore di Gesù, ma poi mi hanno sempre chiamato Bambolo».

«Dove abiti?».

«Giù alle Crocette. Sono figlio di Totuzzo. Il muratore.»

«Bene. E vai a scuola?».

«In quinta elementare. Ora mi preparo con la maestra per le scuole superiori. Sono l’unico in paese. Dovrò alzarmi molto presto per prendere la corriera, ma sarà bello».

Erano giunti al castello. Il vecchio signore si fermò e disse: «Ecco io sono giunto. Ciao Bambolo», e spinse la porta del castello ed entrò.

Bambolo fu così meravigliato  del fatto che non si mosse, non lo chiamò. Diede un calcio a un sassolino e spingendolo dinanzi a sé riprese la via del ritorno.

Bambolo fece l’esame ed ebbe una bella pagella. Quel giorno la mamma gli aveva preparato  un piatto fumante di fagioli pieni di sugo. Bambolo disse che tornava subito, che avrebbe fatto in un batter d’occhio, perché aveva fame, ma doveva andare su, da un compagno, per dargli la notizia della sua promozione.

«Da chi?», chiese il padre.

«Un amico pa’».

«Torna presto», disse la mamma e Bambolo già correva per la scorciatoia, ansando un po’?

La porta si aprì e si richiuse ancora silenziosa. Bambolo aveva sperato che la “voce” ci fosse stavolta.

Gridò: «Sono stato promosso, sai?  Sei contento? Io lo sono tanto, tanto… », e cominciò a girare su se stesso. Girò, girò, finché cadde esausto seduto a terra. La testa continuava a girare e le forze gli venivano meno. Erano ventiquattro ore che non mangiava.


All’improvviso la porta si aprì e venne il vecchio signore che sollevò Bambolo e lo prese in braccio.

Passarono attraverso la porta, salirono tanti scalini, percorsero un lungo corridoio e Bambolo s’accorse che erano sul dietro della casa del baronetto. Ecco perché, in paese, non lo si vedeva mai, aveva un’altra  via d’accesso che passava per il castello.

Giunsero in una sala ampia, dove c’era una sedia a rotelle, due pianoforti e una lunga tavola. Nella sedia a rotelle s’intravedeva un buffo viso che usciva da una spessa coperta. Un viso grinzoso, spettrale, giallastro.
Il vecchio signore adagiò Bambolo su una poltrona rosa e disse: «Aspetta, ora ti porto da mangiare».

Bambolo non si mosse, abbassò gli occhi per non guardare il visetto mostruoso. Ritornò il vecchio signore con un vassoio pieno di cibo.»

«Mangia piccolo.»

Bambolo cominciò a mangiare, prima lentamente, poi divorò ogni cosa: uno sguardo alla forchetta e uno al visetto.

«Ne vuoi ancora?»

Aveva parlato il visetto, Bambolo l’aveva visto.


«Chi siete?» chiese.

«Sta sicuro, figliolo», disse  il visetto e agitò delle braccia che parevano pertiche. Pareva un ragno.

«Figliolo, io ti conosco da tanto tempo. Non ha importanza chi sia io. Ho atteso tanto tempo: avevo bisogno di qualcuno a cui dedicarmi. Io sono stato tanto infelice per questo mio corpo sbilenco. Cerco da sempre uno scopo nel mio luogo di vagare. Ti ho seguito da quando sei nato e mi sei piaciuto sempre. Ti ricordi, quando mangiasti le formiche, per scommessa? E a ogni formica guadagnavi dieci centesimi?».


Bambolo, stupito, ricordò e il sapore gli risalì alla bocca: non era riuscito a mangiarne più di cinque.

«E Ciccio?», disse l’uomo-ragno, «quel bambino povero a cui comprasti una bacchetta di zucchero con il tuo unico euro?»

«Come li sapete questi fatti?»

«E quando hai assistito tuo padre, all’ospedale?»

«Chi siete?» chiese Bambolo.

«Qualcuno che ha vissuto con te e vuole continuare a vivere con te, finché tu lo vorrai.»

«E il signore dai capelli bianchi chi è».

«E’ un’anima buona, che mi aiuta, qualche volta. Vedi io ti lascio tutto quello che ho. Questa casa, le terre e molto denaro. Io andrò via, ma tornerò. Ma tornerò per te ogni primo del mese: dalle quattro alle cinque pomeridiane».

«Chi siete?», ripeté Bambolo, «Siete il Baronetto?».

«Sono stato il baronetto e ho abitato questa casa, che ora è tua e tutto quello che ho è tuo: l’ho scritto sai? Domani ti porteranno le carte».

«A me?», si meravigliò Bambolo. «E perché?»

«Perché sei buono. Diventerai un grande medico».

«Io?»

«Si. E io lo so, perché leggo nel tempo. Non chiedere altro, Bambolo. Io voglio solo vederti un’ora al mese, nient’altro. Questo basta al povero uomo-ragno».

Bambolo si stupì che lui sapesse anche come si chiamava.

«Verrai ad abitare qui e quando io verrò in questa camera, tu mi dirai tutto quello che credi o che pensi: io ti aiuterò. Poi verrà anche il giorno in cui non avrai più bisogno di me e io sarò felice di saperti un uomo. Non verrò più, ma di te saprò sempre tutto».

«E come farai?», chiese Bambolo dandogli spontaneamente il “tu”. «Sei un mago?».

«Anche».

«Un Marziano?»

«Forse», disse l’uomo ragno. «L’orologio ha suonato quattro colpi, starai qui per un’ora. Iniziamo da oggi. Mi piacerebbe sentirti leggere.»

«Ma io, bene non so leggere».

«Non ha importanza. Prendi quel libro sul tavolo. Leggi qui. Piano».

La voce di Bambolo era fresca, ricca di cadenze dialettali, come la “a” aperta e la “e” strascicata.

 
Il mattino dopo un signore portò delle carte a casa di Bambolo e gli consegnò la chiave della casa del barone. Disse che il barone, dieci anni prima, quando era morto aveva stabilito che si facesse così.

Verso mezzogiorno, seguito dalla famiglia, disposta in fila dietro di lui, salì le scale del palazzo e aprì la porta.

Lui conosceva quasi tutto, ma i suoi si meravigliarono di ogni cosa: i tappeti dai mille colori, i mobili lucidi, le tende leggere come ali di farfalle, gli oggetti d’argento brillante e i tanti libri colorati e i quadri di enorme valore. Toccavano le superiori dei mobili. Quando Bambolo si sedette, si quietarono tutti.

Bambolo lo guardò e si sentì, all’improvviso, lui così piccolo, già responsabile di tutta la famiglia.

Disse: «Man mano porteremo qui la nostra poca roba, ognuno di voi sceglierà la propria camera, ma quella stanza laggiù non bisogna toccarla. Lo ha detto il baronetto. Finché vorrà lui, quella stanza è sua»
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I fratelli lo guardarono stupiti, la madre e il padre assentirono col capo e guardarono quel loro figliolo che pareva essere diventato grande tutto in una volta.

Di bambino conservava solo l’età.

Quello per Bambolo è stato il Natale più bello della sua vita.

   
 
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