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Autore: Watson_my_head    26/12/2017    2 recensioni
Nonostante avessero la stessa età, Victor e Sherlock erano profondamente diversi. Sherlock era sicuramente più intelligente, era più intelligente di tutti i bambini della sua età, questo era un dato di fatto, ma era estremamente infantile nei modi, spensierato e allegro, come se vivesse in un mondo tutto suo fatto di sogni e avventure meravigliose. Victor era diverso. Figlio unico di una famiglia di origini francesi, era cresciuto solo, in una grande casa di campagna con suo padre, un uomo silenzioso, di quelli che non regalano abbracci né complimenti. Un uomo segnato dalla vita e da un amore perduto troppo presto. E Victor era stato costretto a farsi strada nel mondo così, solo, con un padre arido di sentimenti, la cui presenza era quotidiana assenza. Victor cresceva, anno dopo anno, con i suoi occhi tristi, le lentiggini e i lunghi silenzi. Per questo, sembrava più grande della sua età, più maturo e consapevole della vita e delle cose del mondo.
Non poteva ancora saperlo, ma da grande avrebbe cercato l'amore in ogni dove, per riempire quei vuoti che crescevano, silenziosi, dentro di lui.
Opera realizzata per la Challenge estiva 2017 del gruppo "ASPETTANDO SHERLOCK "https://www.facebook.com/groups/
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altro personaggio, Lestrade, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Eccomi qui per la seconda e penultima parte di questa storia. 
Spero che vi piaccia almeno quanto piace a me.
Buona lettura!

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Si chiamava Sophie, era bionda, alta, bella come il sole. E Sherlock la odiava. La odiò dal primo istante in cui le strinse la mano. Avrebbe voluto strattonarla con forza e condurla fuori dalla scuola, dalla città, dalla vita sua e di Victor. Era dolce e sorridente, e lui la odiava. Victor la cingeva con un braccio e le diceva cose stupide all'orecchio. E Sherlock avrebbe voluto ucciderla. Aveva una voce acuta e cristallina. Sherlock immaginò 32 modi diversi per strapparle le corde vocali e renderla muta. Poi ne immaginò 22 per costringerla a non vedere Victor mai più e 15 di questi prevedevano la sua completa ed improvvisa sparizione.

“Sherlock?”- Victor lo richiamò sulla terra. - “Stai facendo di nuovo quella cosa del restare immobili. Ci sei?”

Sherlock annuì. - “Devo andare. Lezione.” - disse, prima di voltarsi e andarsene senza salutare. Camminò lentamente, ignorando la risposta di Victor, qualunque essa fosse. Non ne capì nemmeno una parola. Non sentì più niente. Non c'erano più persone, rumori, la scuola, il mondo. Non c'era più nulla. Si sentì completamente solo. Cervello scollegato. L'unica cosa a cui riuscì a pensare per un attimo, fu che probabilmente qualche pezzo del suo cuore era finito ai piedi di quei due, ma non riuscì a voltarsi per controllare. Calpestatelo pure, per quel che mi importa.

 

Camminò a lungo, sotto una pioggia incessante che scendeva a schernirlo, come se anche lei sapesse. Era andato via da scuola prima del termine delle lezioni senza avvisare nessuno. Non poteva importargli di meno. Si sentiva estremamente ferito e triste, a pezzi. Immaginò di lasciare dietro i suoi passi, mentre camminava, piccole parti di sé, una miserrima scia di sentimenti inutili e stupidi. Piccoli stupidi inutili pezzi. Pensò che a quel ritmo non ne sarebbe rimasto niente di sé quando sarebbe arrivato a casa. E per una frazione di secondo, o forse anche di più, si convinse che sparire del tutto non sarebbe stato affatto male come soluzione.

 

-Se non mi rifletto nei tuoi occhi, a che serve esistere?-

 

Camminò per due ore, due ore di pioggia tra i capelli e i pensieri. E poi le lacrime. Quelle non erano state considerate come un'opzione possibile. Lacrime non contemplate. Eppure, stava piangendo. Se ne se rese conto quando fu costretto a fermarsi sotto il portico di una casa disabitata ad asciugarsi il viso perché non vedeva più niente. E sopraffatto dal peso di sentimenti incontrollabili, dovette sedersi sui quei gradini di legno, fatiscenti e sporchi, che avevano visto l'abbandono e bagnati di pioggia, sembravano piangere anch'essi il loro miserabile stato. Si sentì patetico. Così patetico da desiderare che Victor fosse lì accanto a lui. Ma non c'era.

Per tanto tempo aveva temuto di fare un passo oltre l'ignoto per paura di perdere qualcosa che amava. E invece all'improvviso, in un banale, stupidissimo giorno di pioggia, identico a tanti altri, l'aveva perso comunque. Senza nemmeno provarci. Aveva sbagliato tutto, ogni cosa e l'avrebbe rimpianto per sempre.

La paura uccide. Uccide i se e i forse. Taglia i ponti e recide corde. La paura imbriglia il presente e può tenerlo stretto stretto fino a farlo soffocare. E invece poteva essere così facile...

Pensò che in fondo poteva davvero essere facile. Sarebbe bastato ricambiare ogni carezza. Quindi le riportò alla mente tutte, ad una ad una, proiettandosi in quei ricordi per cercare l'esatto istante che avrebbe potuto cambiare le cose. E gli sguardi. Avrebbe potuto ricambiare anche quelli. O almeno, lo aveva fatto, ne era convinto. Ma evidentemente non ne era stato capace. Lui non conosceva niente dell'amore. Non sapeva cosa si dovesse o non si dovesse fare. Aveva sbagliato tutto ed era tutta colpa sua. Ripensò alle notti in cui avevano dormito insieme e Victor lo aveva abbracciato con gentilezza, ma lui non aveva mai reagito. Era terrorizzato. La paura gli stringeva lo stomaco e lo paralizzava. E Victor era stato così tenero da lasciarlo andare ogni volta e girarsi dall'altro lato per lasciarlo respirare e tranquillizzarsi, senza dire niente. Poteva essere così facile invece allungare una mano e semplicemente abbracciarsi come aveva fatto altre volte al mare, di giorno, nel bosco. Ma il silenzio della notte gli faceva troppa paura perché sapeva che quel buio avrebbe potuto far vedere cose che nessuna luce, nemmeno quella del giorno più assolato, sarebbe stata in grado di mostrare.

Pensò a questo, a quanto ogni cosa era andata nella direzione sbagliata, a quanto era stato stupido e codardo, a quanto si odiasse per quello che stava provando in quel preciso momento. E come se la vita si decidesse a 15 anni e fosse finita lì, seduto sulle scale di quel posto dimenticato da tutti, sentì addosso il peso di una tristezza che gli sembrò incolmabile. Abbassò il capo sul petto e pianse ancora, afflitto e solo.

 

::

 

Si ammalò, come era prevedibile. Era stato sotto la pioggia di settembre per ore e quando finalmente aveva trovato il modo e la forza di tornare a casa, aveva già la febbre. Aveva ignorato il continuo squillare del suo cellulare, non aveva riposto a chiamate e messaggi e quando era rientrato si era beccato una sgridata di quelle che non si dimenticano per anni. Si era seduto su uno degli sgabelli della cucina ed aveva ascoltato passivamente tutti i rimproveri che meritava. Ma poi sua madre si era accorta che qualcosa non andava e aveva deciso che avrebbero rimandato quella discussione a quando si sarebbe sentito meglio.

Sherlock si sdraiò nel suo letto dopo aver mandato giù a forza del cibo e aver preso delle medicine. Si sentiva uno straccio ma era sollevato di non doversi sforzare di fingere di stare bene. Poteva stare liberamente male, tenere il broncio, dormire ed eventualmente anche piangere (ma avrebbe preferito di no). E soprattutto non sarebbe stato costretto a rivedere quella Sophie per un po' di giorni. O Victor. O peggio ancora, Victor e Sophie insieme. In realtà non ebbe tempo per pensare a molte cose perché si addormentò in fretta e dormì a lungo, sfinito.

Sognò di essere nel suo letto, malato, così come era nella realtà. C'era buio. La porta della sua stanza era aperta, e l'ombra di una figura alta si stagliava contro la luce soffusa del corridoio. Si avvicinò silenziosa, lentamente. Sherlock non aveva paura, sapeva benissimo chi fosse. Victor si avvicinava al suo letto e sembrava tremendamente serio. La prima cosa che arrivò fu il suo profumo, inconfondibile. Sapeva di tempesta ma era allo stesso tempo dolce, come l'aria in primavera. L'avrebbe riconosciuto fra mille altre persone, mille altri profumi, ad occhi chiusi. Ed era così forte, così vivido da sembrare reale. Si avvicinò ancora e ancora, fino a fermarsi lì affianco. Lo guardò. Il viso seminascosto dall'oscurità non tradiva espressione alcuna. Sherlock non riusciva a capire, a vedere. Era come guardare qualcosa attraverso un acquario, sfocato e impreciso come un ricordo lontano, o un sogno già dimenticato. Avrebbe voluto chiamarlo per nome, ma non ci riuscì. Victor se ne stava lì fermo, senza dire nulla, senza muoversi. Poi, dopo un tempo indefinito, si mosse leggermente e gli sfiorò una mano con la sua. Sherlock sentì il calore irradiarsi da quel punto e raggiungere ogni parte del suo corpo. Gli annebbiò la vista e gli confuse i pensieri. Toccami ancora. Non te ne andare, avrebbe voluto dire, ma le sue frasi erano parole mute. Nessuno parlava. Solo respiri. Respiri. Sempre più profondi, sempre più affannati. Victor? Victor, o quella figura alta e nera che aveva il suo profumo, si piegò leggermente in avanti, e adesso erano occhi negli occhi. La paura, quella paura che per tanto tempo era stata un freno ad ogni cosa, gli esplose nel petto e lo paralizzò, di nuovo. La vide. Se si può vedere la paura, la vide riflessa in quegli occhi verdi, a pochi centimetri dal suo viso. Era lì, era come la sua. Era proprio lì. E poi un respiro caldo gli accarezzò il viso e lo costrinse a chiudere gli occhi. Non svegliarti mai, si disse. Non svegliarti mai. Inspirò profondamente per non dimenticare quel profumo e quel calore. Cercò di catalogarlo ma la sua mente era confusa, confusa, troppo confusa. Corridoi storti, porte aperte, scale rotte. Era impossibile trovare la strada. E poi... Quando le labbra di Victor si posarono sulle sue non ci fu più niente. Niente più muri, niente più porte da aprire, niente ricordi da archiviare. Fu dolce e tremendo allo stesso tempo. Labbra morbide premute contro le sue, una volta. E poi una seconda. Fu così bello da fare male. Un sogno al confine di un incubo. Labbra gentili e cattive. Non svegliarti.

 

Si svegliò all'improvviso mettendosi a sedere. Era solo. La stanza era buia, la porta aperta. Nessuna figura si stagliava contro la luce del corridoio. Si sfiorò le labbra con le dita. Poteva ancora sentirle,erano ancora lì. Le sue labbra, ultimi istanti di un sogno meraviglioso e crudele. Si lasciò andare sul cuscino, la febbre ancora alta. Chiuse gli occhi, si addormentò di nuovo e dimenticò quasi tutto.

 

::

 

Victor, seduto sui gradini esterni di casa sua, si teneva la testa tra le mani, disperatamente. Sospirò. Lasciò scivolare una mano sugli occhi e poi, lentamente, sulla bocca. Avrebbe voluto dimenticare, tornare indietro, cambiare tutto, ma era troppo tardi.

Aveva cercato Sherlock inutilmente per ore e alla fine si era deciso a presentarsi a casa sua per chiedere di lui. La madre lo aveva accolto con il solito sorriso e lo aveva mandato al piano di sopra a svegliarlo per la cena.

Ma lui, non lo aveva svegliato.

L'aveva guardato dormire invece, restando sulla porta abbastanza a lungo da sentire le gambe cominciare a fargli male e poi si era deciso ad entrare per svegliarlo, finalmente. Ma di nuovo non lo aveva fatto. Si era avvicinato lentamente, lentamente, combattendo ad ogni passo con il desiderio di togliesi le scarpe e infilarsi in quel letto senza vergogna, abbracciare il suo amico, stringerlo forte, dimenticare ogni cosa, baciarlo dovunque, accarezzarlo, toccargli i capelli, sussurrargli parole dolci, e di nuovo stringerlo, così forte da fargli male. Ma non poteva. A lui, non era permesso. Quindi si sarebbe avvicinato e l'avrebbe svegliato. Invece, gli prese una mano, con delicatezza, quasi con riverenza. La accarezzò a lungo. Dita affusolate da musicista. Avrebbe voluto baciarle ad una ad una, intrecciarle alle sue, lasciarsi accarezzare. Avrebbe dovuto svegliarlo e invece si era avvicinato ancora e ancora, come attratto senza possibilità di opporre resistenza. Sentiva il cuore battere così forte che per un attimo ebbe paura potesse saltargli fuori dal petto. Dimenticò dove fosse, dimenticò la porta aperta, dimenticò che era lì soltanto per svegliarlo, dimenticò ogni cosa. E decise che forse quella sarebbe stata l'unica occasione della sua vita per prendere ciò che non gli era destinato, ciò che non avrebbe mai potuto avere. Si era avvicinato. Respiri caldi. Esitazione. Ancora soltanto respiri. E poi, si era preso quello che non gli spettava. L'aveva baciato dolcemente, una, due volte. Solo labbra ed anima. Un sogno diventato reale. Era bastata una frazione di secondo, un tocco leggero, per provare a se stesso quello che aveva sempre immaginato: per tutta la vita gli era mancato qualcosa che non aveva nemmeno mai provato. Ed era bastata un'altra frazione di secondo per arrivare alla consapevolezza che gli sarebbe mancato per sempre e che lo avrebbe cercato altrove. Ma non lo avrebbe ritrovato mai. Lo aveva baciato, e avrebbe voluto perdersi su quelle labbra e farle sue, svegliarlo e pregarlo, baciami ti prego. Baciami e fallo come se lo meritassi. Amami.

 

C'era voluta tutta la forza di cui era capace per staccarsi e allontanarsi, con lunghi passi all'indietro fino alla porta e poi giù per le scale e fuori da quella casa, senza parlare con nessuno, e di corsa, sotto le ultime gocce di pioggia fino a casa sua, fino ai gradini dove ora era seduto disperato e solo, colpevole per ciò che aveva rubato e che aveva provato. Un sogno che assomigliava ad un incubo.

 

::

 

Sherlock tornò a scuola dopo quattro giorni. Victor gli aveva mandato un paio di messaggi piuttosto freddi sul cellulare, un semplice “come stai?” e un “vieni domani?” a cui lui non aveva risposto. Quando si erano rivisti a mensa si erano salutati con un cenno del capo ed un sorriso accennato, ma Sherlock aveva deciso di sedersi vicino a Kate, una ragazza della sua classe, piuttosto che vicino a Victor e alla sua fidanzata. E Victor non aveva battuto ciglio. Alla fine delle lezioni Sherlock si rinchiuse nel laboratorio di chimica per iniziare un esperimento che aveva ritardato a causa della febbre, e ci rimase per tre ore. Concentrarsi su qualcosa che lo appassionava riusciva a distrarlo, se non del tutto, almeno in parte. Quando rialzò la testa fuori era praticamente buio e ne fu piacevolmente sorpreso. Victor aveva occupato solo il trentasette percento dei suoi pensieri. Raccolse le sue cose lentamente e si avviò fuori chiudendo la porta dietro di se. I corridoi erano avvolti nella penombra e la scuola aveva assunto un'atmosfera tetra che avrebbe fatto paura a chiunque, ma non a lui. Amava girovagare per la scuola indisturbato, senza nessuno che lo annoiasse con la sua sola presenza, senza il vociare confuso e le chiacchiere stupide, senza temere di incontrare determinate persone. Trentanove percento. Di nuovo Victor e quella sua ragazza, il cui nome non era degno di essere ricordato. Di nuovo quello strano peso sullo stomaco che assomigliava ad una nausea improvvisa. Sospirò mentre scendeva l'ultima rampa di scale per avviarsi verso la zona degli armadietti e raggiungere il proprio.

Victor era lì. Appoggiato con la schiena sul muro di fronte, la testa girata e rivolta all'insù, verso il cielo che nero e silenzioso si apriva oltre le vetrate di una grande finestra, le braccia incrociate al petto, lo zaino a terra, tra i suoi piedi. A Sherlock mancò il fiato per cinque secondi. Li contò per concentrarsi su qualcosa che non fosse la figura slanciata del suo migliore amico, avvolta dalla penombra, perfettamente immobile e bellissima. Il fantasma di un ricordo, vestito da Romeo, si fece strada nella sua testa per sovrapporsi a quel momento. Un altro Victor, di un altro tempo ma nello stesso spazio gli si materializzò davanti agli occhi e lo costrinse a distogliere lo sguardo. Prese un profondo, silenzioso respiro.

Victor si voltò, e nonostante ormai ognuno sapesse della presenza dell'altro, ci fu silenzio. Sherlock non lo guardò. Si avvicinò al suo armadietto e lo aprì.

“Ti stavo aspettando.”

“Ah davvero? Non l'avevo capito.”

“Non fare lo stronzo con me.”

Sherlock si voltò, con il libro di chimica in mano e una divertita incredulità dipinta sul volto. “Che vuoi, Victor?”

“Perchè non hai riposto ai miei messaggi?”- si era staccato dalla parete e aveva fatto un passo in direzione del suo amico. - “E perché non ti sei seduto con noi oggi a pranzo? Sophie pensa di non piacerti. Non ti piace?”

“Quante domande hai intenzione di farmi prima di lasciarmi rispondere?”- Sherlock si era voltato di nuovo per sistemare il libro nell'armadietto ed armeggiare inutilmente con altre cose. Victor restò in silenzio. - “E comunque certo che mi piace, Sophie. Così si chiama? Beh, trovo che Sophie sia perfetta per te. E non mi sono seduto con voi perché dovevo parlare con Kate e non ho risposto ai tuoi messaggi perché erano stupidi.”- e mentre pronunciava l'ultima parola chiuse con forza l'anta dell'armadietto, poi si incamminò verso l'uscita.

“Sherlock!”- a Victor bastarono tre passi per raggiungerlo e afferrarlo per un braccio facendolo voltare. - “Perché fai così? Non fare così, per favore. Non cambierà niente. Sei il mio migliore amico. Perché ho l'impressione che ci stiamo allontanando?”. E aveva una stretta salda, come lo è la disperazione, e gli occhi lucidi di chi conosce già le risposte.

Sherlock vrebbe voluto rispondere che era vero. Avrebbe voluto dirgli che era già tutto diverso, che lui era diverso, che non potevano più essere amici, solo amici, o ancora amici. Avrebbe voluto urlargli di sparire e di smetterla di farlo soffrire. Avrebbe voluto gridargli che lo odiava per averlo fatto piangere e per avergli fatto desiderare che un sogno fosse vero, per averlo reso stupido e lento, come tutti gli altri, e per averlo fatto lavorare ad un esperimento con solo il sessantaquattro percento della sua mente. Avrebbe potuto dire tutte queste cose ma non lo fece. - “Non cambierà niente.”- ripetè invece. Perché gli occhi lucidi di Victor avevano il potere di trasformare le parole e sopire la rabbia e perché tempo prima aveva promesso a se stesso che mai più sarebbe stato la causa della sua tristezza.

“Non cambierà niente” - disse di nuovo. E questa volta, quasi ci credette.

 

:::

 

Invece, cambiò tutto.

 

Allontanarsi fu inevitabile. Victor sembrava non avere più il tempo per stare con Sherlock. Sherlock non aveva nemmeno la voglia di impegnarsi a cercarlo il tempo per stare un po' insieme. E così passarono i giorni e poi le settimane. A volte, quando Victor diventava particolarmente insistente, pranzavano insieme, ma Sherlock se ne stava in silenzio per la maggior parte del tempo pregando che la tortura finisse in fretta. Sophie aveva cercato di coinvolgerlo varie volte nelle conversazioni o addirittura in uscite di gruppo senza ottenere risultati e quindi alla fine aveva semplicemente smesso. Sherlock non poteva esserne più felice. E più si allontanavano e più a Sherlock sembrava di riacquistare il pieno controllo delle sue facoltà mentali, della sua intelligenza e delle sue capacità deduttive, mentre Victor, in modo direttamente proporzionale, sprofondava nella più assoluta tristezza. Lo avevano notato tutti a scuola, e a casa, aveva persino smesso di dipingere. Si limitava a guardare le tele bianche, completamente svuotato, senza nemmeno la rabbia e le lacrime a fargli compagnia.

 

La prima delle innumerevoli volte in cui si infilò nel letto di Sherlock senza essere stato invitato, avvenne esattamente ventitré giorni dopo la prima stretta di mano tra Sherlock e Sophie. Non si parlavano da giorni e c'era stato solo un saluto accennato all'ora di pranzo, a quattro tavoli e diciannove persone di distanza. A Sherlock faceva male il cuore, ma sentiva di tornare a respirare. Anche a Victor faceva male il cuore, ma invece affogava, affogava lentamente, giorno dopo giorno. Gli mancava Sherlock. Semplicemente, gli mancava. Col trascorrere degli anni si era convinto di non poter meritare nient'altro che la sua amicizia e forse nemmeno quella, e quindi si era costretto, quasi inconsciamente, a cercare altrove quello di cui sentiva la mancanza, quel calore che avrebbe riempito i vuoti e colmato le tristezze radicate profondamente dentro di lui. E aveva funzionato, almeno all'inizio. Sophie era bella, gentile, dolce, affettuosa, come può esserlo una ragazza di quindici anni al suo primo amore. Lui era il più bello della scuola, il più simpatico, il ragazzo più ambito. Tutte lo volevano. Erano una coppia bellissima. E i primi giorni furono una scoperta. Le attenzioni, le accortezze, la gentilezza dedicata, il toccarsi, il calore delle mani, e poi i baci e quella risata cristallina. Victor si sentiva amato. Inebriato, quasi ubriaco. Si lasciò trasportare e fu facile dimenticare le altre cose, quelle che a volte si danno per scontato, quelle che poi, vengono sempre a chiedere il conto.

E a quei giorni infatti, ne seguirono altri, diversi, in cui qualcosa, all'altezza dello stomaco si faceva strada lentamente, per risalire su fino alla gola. E all'improvviso quelle carezze non erano più così calde e quei baci non riempivano più i vuoti, e le attenzioni non colmavano tristezze ma le alimentavano spalancando voragini spaventose. Non fu difficile capire cosa stesse accadendo quando un giorno, durante la pausa pranzo, Victor si fermò ad osservare le bellissime labbra di Sophie e per la prima volta si scoprì a pensare che erano belle, ma non belle come quelle di Sherlock. E che i suoi baci erano caldi e rassicuranti, ma nessuno delle centinaia che si erano scambiati poteva essere paragonabile a quell'unico bacio che aveva rubato a Sherlock. Allora lo cercò con lo sguardo ma non lo vide. E si sentì improvvisamente e infinitamente solo. Fu quello il giorno in cui si infilò nel suo letto per la prima volta.

 

Sherlock quasi dormiva quando lo sentì entrare sotto le coperte, contro la sua schiena. Era freddo come la morte e lui vigliacco come sempre, non ebbe il coraggio di voltarsi.

“Tua madre mi ha fatto salire. Non mandarmi via per favore.” - ed era una voce che suonava così famigliare eppure sconosciuta, infinitamente piccola, dolce da fare male, triste, come sono tristi le cose dimenticate.

“Sei congelato.”- sussurrò Sherlock immobile, le braccia strette intorno al petto, come se avesse avuto paura di poter perdere pezzi e il cuore, che batteva folle senza contegno.

“Sono stato un'ora sotto la tua finestra prima di avere il coraggio di entrare.”- rispose Victor con voce quasi impercettibile, mentendo sul fatto che di ore ne erano passate quasi tre e che quella non era la prima volta.

Sherlock non rispose e chiuse gli occhi. Avrebbe voluto piangere, perché tornare a respirare in quei giorni di separazione forzata non era minimamente paragonabile alla bellezza del sentire il respiro mancare di nuovo e il cuore battere forte per riprendersi il suo posto. E anche Victor avrebbe voluto piangere, e alla fine pianse davvero, perché gli sembrò di poter finalmente mettere la testa fuori dall'acqua e tornare a vivere.

Fu tutto molto lento, in bilico tra il sonno e la veglia. Victor appoggiò la fronte sulla schiena di Sherlock e una mano sul suo braccio, con un movimento lentissimo, come a chiedere il permesso. Calde, silenziose lacrime, bagnarono la maglietta del suo amico e per un po' nessuno disse niente.

“Mi sei mancato”.- Sussurrò Victor quando il buio fu abbastanza buio da lasciare le parole scivolare via senza timore.

“Perchè piangi?”.- Sherlock avrebbe voluto voltarsi e abbracciarlo stretto, non lasciarlo respirare, parlare o piangere. Ma non lo fece e restò immobile.

Victor a quella domanda non rispose. Non era il tempo e non era il luogo. Si asciugò gli occhi e non gli importò più di niente e si fece più vicino, sempre più vicino, fino a stringersi completamente contro il corpo del suo amico. Fece scivolare la mano in avanti, lentamente, e lo avvolse in un abbraccio caldo e disperato. Sherlock non lo assecondò, ne lo respinse. Fu come paralizzato e il suo cuore, che non aveva smesso di battere all'impazzata per tutto il tempo, sembrò quasi uscirgli dal petto.

“Sento il tuo cuore.”- gli disse Victor all'orecchio. -“Vuol dire che posso restare?” e gli baciò il collo così come aveva fatto quella volta d'estate dopo aver corso a perdifiato nel bosco e ansimanti e rossi in viso, si erano guardati a lungo negli occhi.

Sherlock non fu capace di rispondere, tradito dal suo stesso corpo e poi ci fu solo il silenzio e la notte a prendersi cura di loro. Si addormentarono così, stretti in un abbraccio che in un secondo li aveva riportati a casa.

 

La mattina dopo Sherlock si svegliò solo. Fu strano. La bellezza di quella notte aveva lasciato il posto ad una specie di angoscia che adesso gli chiudeva lo stomaco. Ripensò al corpo caldo di Victor, alle sue lacrime, a quel bacio sul collo. Forse avrebbe dovuto dirgli di andarsene, per il bene di entrambi. Voltò la testa verso il posto che Victor aveva occupato fino a poco prima. Di lui restava solo il suo profumo. Lo respirò appieno e chiuse gli occhi. Avrebbe dovuto dirgli di andarsene, senza dubbio. O forse avrebbe potuto voltarsi e avvicinarsi, sfiorare il naso contro il suo e sussurrargli parole dolci e poi reclinare un po' la testa e baciarlo dolcemente, una, due, dieci volte. E avrebbe potuto accarezzargli il collo e i capelli e con una mano scendere giù, sulla clavicola e poi sul suo petto e ancora più giù, lentamente e intanto avrebbe continuato a baciarlo e così avrebbe sentito davvero qual è il suo sapore, e forse gli avrebbe succhiato la lingua piano e poi più forte per fargli del male e sentire che rumore fa il piacere e magari poi avrebbe trovato anche il coraggio per scendere ancora più giù, sempre più giù fino ad oltrepassare una linea oltre la quale non sarebbero mai tornati indietro... Sprofondò la testa nel cuscino per cercare di fermare quella fantasia, ma fu inutile. Victor Trevor occupava ufficialmente il cento per cento dei suoi pensieri. Di nuovo.

 

:::

 

Le cose cambiarono, improvvisamente. Non parlarono di quella notte, né il giorno successivo, né quelli a venire. Sophie fu scaricata malamente, a giudicare dagli sguardi che le sue amiche lanciavano in direzione di Victor ogni volta che lo incrociavano nei corridoi. Victor, da parte sua, sembrava non potersene interessare di meno. Tornò al centro dell'attenzione di tutti, sorrisi smaglianti e atteggiamento strafottente, come una batteria completamente ricaricata. Con Sherlock tutto tornò alla normalità. Pranzavano insieme, tornavano a casa insieme, studiavano insieme. Victor sembrava felice. Sherlock aspettava solo che la cosa si ripetesse. Ne era praticamente certo. Stavano facendo un gioco pericoloso, ne era consapevole, eppure non trovò la forza di tirarsi indietro.

E poi arrivò Amanda.

Lo schema fu lo stesso, solo che lei, a differenza di Sophie, aveva i capelli scuri e gli occhi verdi. Tutto il resto avvenne nella stessa identica maniera. E di nuovo, ci furono pomeriggi solitari seduto nel laboratorio di chimica ad occupare la mente con i più disparati esperimenti. E lunghe camminate fino a casa, senza nessuno con cui parlare. Pranzi solitari o con persone di cui a malapena ricordava i nomi e soprattutto, le notti insonni. Le lunghe notti spese a guardare il soffitto, a sentire il cuore fare male, a pensare agli occhi di Victor, alle sue mani tra i capelli di lei, alle sue labbra. Per questi pensieri, Sherlock smise quasi del tutto di dormire. Il suo corpo si abituò lentamente alla privazione del sonno, tanto da riuscire a stare in piedi ed essere reattivo dormendo solo tre, quattro ore a notte. Giunse alla conclusione che tutto ciò non poteva che essere positivo e che gli sarebbe stato molto utile nel futuro. Intanto, quando non dormiva, studiava. Se ne stava seduto sul letto a gambe incrociate, con la bassa luce della lampada ad illuminare le pagine, e passava le ore a leggere. A volte si addormentava con il libro ancora in mano, quando ormai era quasi mattina. A scuola si sentiva un po' annebbiato, eppure, trovava fosse piacevole. Gli sembrava così di eliminare un ronzio inutile di sottofondo e di evitare di concentrarsi troppo su qualcuno che non desiderava la sua compagnia.

Forse aveva imparato a restare sveglio la notte in attesa che qualcuno arrivasse e si addormentasse insieme a lui. Ma questo non lo ammise mai, nemmeno a se stesso.

 

La seconda volta in cui Victor si infilò nel letto di Sherlock, avvenne esattamente 56 giorni dopo la prima volta che Sherlock lo aveva visto nel giardino della scuola con Amanda, mentre chinato leggermente su di lei, le sorrideva giocando con una ciocca dei suoi lunghi capelli. Sherlock li aveva guardati dalla finestra per qualche secondo, poi era tornato al suo esperimento. Non versò una lacrima. Pensò che qualcosa si fosse rotto dentro di lui e non funzionasse più come avrebbe dovuto. Ne fu contento.

Quella notte Victor si presentò alla porta della sua camera e si appoggiò con la testa allo stipite. Non era facile coglierne l'espressione nella penombra, ma Sherlock, seduto sul suo letto con un libro tra le mani, riuscì lo stesso a percepire quanto fosse distrutto. Si guardarono. Poi Victor si staccò dalla porta e lentamente si avvicinò. Sherlock non si mosse, ma alzò lo sguardo per fissarlo negli occhi e vide che aveva pianto. E il cuore gli batteva già così forte da sentirlo su per la gola. Non disse niente, non avrebbe potuto, neanche se lo avesse voluto con tutte le sue forze. Dopotutto, era sempre così. Victor aveva lo straordinario potere di ridurlo al completo silenzio.

Fu un attimo e il mondo si concentrò tutto in quello spazio, in quella camera, in quei quattro passi tra la porta ed il letto e all'improvviso gli sembrò che non ci fosse abbastanza aria per vivere. Socchiuse le labbra, aveva bisogno di respirare. Victor si fermò davanti a lui, lo guardò per qualche secondo, poi con un movimento lento afferrò il libro che Sherlock teneva tra le mani, lo chiuse e lo appoggiò sul comodino, delicatamente. Sherlock lo lasciò fare. Nessuno parlò. Poi Victor posò un ginocchio sul letto e il peso fece sbilanciare Sherlock che istintivamente alzò entrambe le mani per cercare di non cadere. Victor si sporse in avanti e poi si lasciò andare completamente, quasi a peso morto su Sherlock, costringendolo a sdraiarsi sotto di lui. Non fu affatto delicato. Sherlock restò senza fiato, per la sorpresa e l'imbarazzo e per quel peso così dolce che quasi gli impediva di respirare, letteralmente.

“Soffocherò.” - gli disse, quando riuscì a trovare le parole.

“Che mi importa. Puoi non puntualizzare l'ovvio per una volta?” - sussurrò Victor, nascondendo la testa nell'incavo tra il collo e la spalla di Sherlock, ma spostando appena il peso per permettergli di respirare meglio.

Sherlock, che non sapeva dove mettere le mani, le poggiò sulla sua schiena, ma non fu un abbraccio vero e proprio. Non si lasciò andare. Fu come congelato, anche se faceva caldissimo.

“Tu pensi troppo. Te lo dico sempre.”- disse Victor all'improvviso. Non accennava a spostarsi, comunque.

“Tu pesi troppo.” - fu la risposta che ottenne. E non ci voleva un genio per capire quanto Sherlock stesse tentando di nascondere l'imbarazzo con un'ironia di dubbio gusto.

“Anche tu mi sei mancato.”- gli disse Victor, facendo scivolare un braccio lentamente sulla sua spalla.

“Victor...”

Sospirò. “Dimmi che devo andarmene, allora.”

“Devi andartene.”

Victor sorrise. Non era questa la reazione che Sherlock si aspettava, ma lo percepì sorridere chiaramente, sulla pelle del suo collo.

“Dillo di nuovo e io me ne andrò.”- gli sussurrò dolcemente in un orecchio. Non era leale. Non era affatto leale.

Sherlock restò in silenzio. Si trovò a combattere con se stesso nel tentativo di capire cosa fare. Sapeva bene che per il suo benessere mentale avrebbe dovuto porre fine a quello che stava accadendo, qualunque cosa essa fosse, ma ogni volta che provava a dire qualcosa, le parole sembravano morirgli in gola. Si maledisse più volte e alla fine non disse niente. Restarono in quella posizione per un po', Victor silenzioso e docile, abbarbicato su Sherlock, come se avesse avuto bisogno di conforto e riparo, e Sherlock silenzioso e in conflitto con se stesso. Il suo palazzo mentale era un completo disastro.

“Ne vuoi parlare?” - gli disse, quando capì che forse comportarsi almeno da amico sarebbe stato appropriato, anche se in verità sentire una storia strappalacrime su Amanda e su qualsiasi cosa fosse accaduta tra loro, era l'ultima cosa che voleva.

“No. Possiamo dormire?”

“Hai intenzione di restare così tutta la notte?”

Victor alzò finalmente la testa e lo guardò negli occhi. C'era divertimento nel suo sguardo, ed erano così vicini che Sherlock credette di poter morire.

“Vuoi che mi muova?” - gli sorrise malizioso, e fu luminoso, come un giorno di agosto.

“Sei un idiota.”

Victor scoppiò a ridere e poi lo baciò sul collo, veloce, troppo veloce. Rotolò su un fianco e gli diede la schiena.

“Buonanotte Sherlock.”

Seguì un silenzio che, ad ascoltare bene, avrebbe avuto il rumore di tutte le domande che nel mondo rimangono inespresse.

 

“Devi smetterla di fare così.”- sussurrò Sherlock con un filo di voce e gli occhi fissi al soffitto, quando trovò il coraggio scavando a fondo dentro se stesso.

“Lo so.”

E poi non dissero più nulla. Victor si addormentò. Sherlock lo coprì e poi restò sveglio per ore, cullato dal respiro regolare del suo amico che dormiva rannicchiato accanto a lui. Si sentì in pace ed in guerra allo stesso momento, distrutto dai sentimenti opposti che si agitavano confusi dentro di lui. Pensò che avrebbe dovuto chiudere la porta, la prossima volta. O lasciare la luce accesa per affrontare a viso aperto le sue paure. Ma Victor non era un mostro. Victor non era affatto uno di quei mostri della sua infanzia che abitavano sotto il letto o dentro l'armadio. E non poteva essere tenuto a bada con una semplice lampadina accesa o tenendo i piedi ben nascosti sotto le coperte. Al contrario. Victor era la cosa più umana e viva che Sherlock avesse mai temuto. Lo guardò. Respirava tranquillo, nel silenzio della notte. Era vero. Vero e tangibile, ed era caldo. Così docile eppure, così spaventoso. Allungò un braccio e gli accarezzò i capelli. Sherlock lo amava e lo odiava, allo stesso tempo. E lo temeva, più di ogni cosa.

“Mi distruggerai”- gli sussurrò, accoccolandosi al suo fianco e stringendolo per la vita. Quindi chiuse gli occhi e si addormentò.

 

Avrebbe dovuto chiudere la porta o lasciare la luce accesa, la prossima volta. O magari Victor avrebbe smesso e non ci sarebbe stato da preoccuparsi. Forse da piangere, quello si, ma non da preoccuparsi.

Ma Victor non smise. Non smise mai. Dopo Amanda fu la volta di Taylor, poi di Louise, di Jenny, di Cathy, di Barbara, di Alyssa, di Elizabeth e di Anne. Solo per nominare quelle più importanti, quelle che erano durate più di un mese. Tra l'una e l'altra, brevi periodi di stallo e confusione. E Victor si infilava nel letto di Sherlock mentre Sherlock se ne stava in silenzio a guardarlo dormire. Una sera, una di quelle sere dove ogni cosa nel mondo ti sembra terribile e ti senti profondamente ferito e solo, Sherlock iniziò a piangere silenziosamente, seduto con un libro in mano, illuminato debolmente dalla lampada sul comodino. Victor, che non stava affatto dormendo nonostante fosse immobile da un'ora, si mise a sedere accanto a lui, con la schiena appoggiata alla testiera del letto cercando di consolarlo, ingenuamente, chiedendogli perché stesse piangendo. Sherlock tirò su col naso e scosse la testa.

Avrebbe voluto dirgli che era colpa sua.

Avrebbe voluto urlargli che ogni cosa era colpa sua. Spezzare quel silenzio così pesante e nauseabondo che riempiva la stanza e la sua testa e gridargli di andarsene, di andarsene via e lasciarlo in pace e di smetterla di abbandonarlo ogni volta, ogni singola volta. Oppure, semplicemente, di smetterla di tornare. Ogni male del mondo quella sera, era colpa sua. Di quel bambino dagli occhi lucidi seduto sul bordo del pozzo, tanti anni prima. Di quello che l'aveva consolato sulla scogliera quel giorno, per la morte del suo cane. Di quel ragazzino che guardava la neve, come fosse ogni volta una magia, una triste, terribile magia. Di quello che usava i colori e la rabbia per esprimere il suo dolore. Di quello che poteva sorridere e cambiare ogni cosa, come fosse niente. Di quel ragazzino che l'aveva baciato sul collo una volta, la prima, e l'aveva fatto come fosse stata la cosa più naturale del mondo, come se non gli fosse costato notti insonni e sospiri. Di quello che lo aveva difeso tante volte, che lo aveva ascoltato suonare nelle lunghe giornate di pratica prima degli esami, che gli aveva preparato la colazione e gli aveva accarezzato i capelli tante, troppe volte. Di quello che una volta gli aveva portato lo zaino perché era troppo pesante e che un giorno, mentre se ne stavano sdraiati sulla spiaggia a non fare nulla, gli aveva detto “sei straordinario” e poi aveva sorriso tristemente. Di quello che gli impediva di concentrarsi sui suoi esperimenti, che compariva all'improvviso ed era sempre un tuffo al cuore, che recitava a teatro come fosse la vita vera e che riusciva a farti credere che Romeo amasse davvero Giulietta più della sua stessa esistenza. Di quello che sapeva raccontare poesie guardandoti negli occhi e che si perdeva guardando il mare e quasi piangeva per una sfumatura di blu del cielo di marzo. E poi, di quello che era troppo egoista o troppo stupido per capire quanto male gli facesse ogni volta che si infilava nel suo letto dopo avergli presentato una ragazza nuova ed essere sparito per settimane. Di quella parte stupida e idiota di lui che non capiva mai nulla e di quel ragazzo, ormai quasi adulto che quella sera si era seduto accanto a lui e gli aveva chiesto “perché stai piangendo?”. Ogni battito di cuore, ogni lacrima, ogni silenzio era colpa di Victor Trevor. Il suo migliore amico. L'unico al mondo. Era tutta colpa sua.

 

“Non è niente.”

“Non è vero. Stai piangendo, Sherlock.”- Victor lo cinse con un braccio, come se questo potesse servire.

“Già.”- rispose, asciugandosi gli occhi velocemente e scrollandosi di dosso il braccio che Victor si ostinava a tenere sulla sua spalla. Il gesto fu così freddo da immobilizzare entrambi per un istante.

“...che succede?”- chiese Victor con un filo di voce.

“Niente. Torna a dormire.”

Victor si sentì ferito all'istante. Rimase a guardarlo cercando di capire cosa ci fosse di diverso questa volta, rispetto a tutte le altre volte, ma era impossibile. Era impossibile capire quello che si agitava nella testa di Sherlock e lui non era bravo con le deduzioni, non lo era mai stato. Gli sembrò di avere un muro di ghiaccio di fronte a se. Si morse le labbra in attesa di capire cosa fare. Con un movimento lento si spostò, si mise a sedere di fronte a lui e si scompigliò i capelli. Lo faceva sempre quando aveva bisogno di risolvere una situazione.

“Smettila.”- Sherlock non aveva nemmeno alzato la testa, non lo aveva guardato. - “Smettila di fare così. Ti ho detto di tornare a dormire.” - guardava il suo libro e nient'altro.

Victor fu come paralizzato da questo comportamento, investito da parole che erano pronunciate da Sherlock, che avevano il suono della sua voce e quell'intonazione annoiata inconfondibile, ma che tuttavia non appartenevano allo Sherlock che conosceva. Il suo. All'improvviso, gli venne mal di stomaco. Fu una nausea improvvisa, che assomigliava al disgusto di aver mangiato inconsapevolmente qualcosa di andato a male. Gli venne quasi da vomitare. Spostò lo sguardo verso il pavimento. Mai, in tutti quegli anni, aveva percepito tra di loro una simile distanza. Eppure le loro ginocchia quasi si toccavano. Cercò di dire qualcosa.

“Io...Sherlock?”- furono le uniche cose che riuscì a pronunciare. Allungò una mano e sfiorò quella del suo amico. Gli sembrava di dover immediatamente colmare quella distanza che sentiva e per questo il contatto fisico aveva sempre funzionato. Ma questa volta Sherlock ritrasse la mano. Non fu un gesto sprezzante e veloce, ma piuttosto lento e rassegnato. Consapevole. La luce soffusa della lampada si rifletteva sui capelli di Victor e nei suoi occhi che in un istante furono liquidi e così grandi da riempire una stanza intera.

“Sherlock non fare così, ti prego.” - ed era un sussurro quasi disperato. - “dimmi che cos'hai.”

Ma Sherlock era triste ed era arrabbiato, più di ogni altra cosa. Sentì la rabbia salirgli di nuovo agli occhi e scivolare via sulle sue guance contro la sua volontà. Pianse. Senza alzare mai lo sguardo dal suo libro, pianse tristemente, elegante e composto come solo lui poteva fare. Victor respirava affannosamente invece. E piangeva. Anche lui piangeva. Lo guardava ignorarlo e piangeva. Perché faceva male come poche cose gli avevano fatto male in passato. E poi, come avveniva sempre, il dolore si trasformò in rabbia. Senza pensarci, afferrò il libro che Sherlock si ostinava a fingere di leggere e lo scaraventò contro il muro. Nel silenzio della notte il rumore fu assordante. Sherlock alzò lo sguardo tendendo l'orecchio in attesa di rumori esterni, ma nessuno sembrò svegliarsi. Poi guardò Victor.

“Sei fuori di testa?”

“Perché non mi guardi? Perché non mi parli? Perché fai così?”

“Lo so che non capisci”- rispose, facendo per alzarsi e andare a raccogliere il libro. Ma Victor lo fermò afferrandolo per un polso e stringendo forte. Sherlock guardò quella mano che lo teneva fermo e poi lui. Scosse appena la testa. - “E' quello che fai sempre.”

“Che cosa?”

“Tenermi fermo.”

Victor restò immobile, gli occhi fissi nei suoi. Le lacrime gli rigavano le guance e a quella vista, Sherlock sentì una stretta allo stomaco. Aveva giurato a se stesso che mai più lo avrebbe ridotto in quello stato, eppure, continuava a farlo. Non avrebbe saputo dire chi dei due fosse più stupido in quel momento. Victor lo lasciò andare lentamente.

“Mi dispiace..?” - e suonava come una domanda. “Vuoi che..” - faticava a trovare le parole. “Vuoi che me ne vada? Adesso?”. - Fuggire per mettersi in salvo, fu la prima cosa che gli venne in mente.

“Non essere stupido. E' notte fonda.”

Sherlock aveva un piede sul pavimento e uno ancora sul letto. Decise che il libro poteva essere lasciato lì dov'era e si sedette di nuovo, a gambe incrociate di fronte al suo amico. Victor stava guardando i palmi delle proprie mani ora, dopo averli usati per asciugarsi gli occhi.

Nessuno disse niente. Avevano pianto, l'uno di fronte all'altro, come era accaduto tante volte in passato, ma mai come allora si erano sentiti più soli. Erano soliti condividere il dolore perché gli sembrava che così facesse meno male. Quando l'uno piangeva, l'altro non riusciva a trattenere le lacrime. Condivisione. Ma questa volta era diverso. Questa volta avevano pianto, l'uno di fronte all'altro, vicini e così distanti. Soli. Sherlock immaginò che quello fosse davvero un momento di svolta. Sarebbe bastata una sola parola per uscire da quel limbo e allontanarsi per sempre. E ci provò a trovare il coraggio che non aveva. Scavò a fondo, nel silenzio e nella sua testa, ma non lo trovò. Pensò che fosse solo un'altra notte, l'ennesima, dell'infinita non-storia sua e di Victor. Un giorno sarebbe finita sul serio, lo sapeva bene, ma non doveva essere proprio quel giorno, in fondo. Non quel giorno. Con Victor seduto inerme di fronte a lui a guardare i palmi delle proprie mani come se vi fossero contenute le risposte alle domande che nessuno dei due osava chiedere. Con Victor seduto silenzioso di fronte a lui, con i capelli in disordine e gli occhi rossi. Con quel Victor, dai tratti quasi infantili, le guance arrossate dal pianto e forse dalla vergogna, le labbra un po' gonfie e quello sguardo triste che avrebbe ucciso chiunque. No, non doveva essere proprio quel giorno. Non quel giorno.

“Basta.”- disse Sherlock spezzando il silenzio e sporgendosi verso di lui.- “Basta. Vieni qui”, sussurrò abbracciandolo. Le loro ginocchia si toccarono e le mani di Victor, che per qualche secondo erano rimaste ferme tra i loro due corpi, scivolarono sui fianchi di Sherlock per abbracciarlo a sua volta. Victor nascose la testa tra i suoi ricci neri e inspirò a fondo.

“Sento cose qui dentro che non so dire.”- gli sussurrò all'orecchio, - “a volte è tutto così confuso e fa male e io non riesco a capire che cosa devo fare o dire. E l'unica cosa a cui riesco a pensare è il mio punto fermo in mezzo al caos. Sei tu Sherlock, il mio punto fermo. E anche se tu non...anche se tu...” - si fermò, incapace di dirlo, poi aggiunse in un breve sussurro quasi impercettibile, - “Non mi lasciare.”

Sherlock lo strinse. Sapeva che il battito del suo cuore era così forte da attraversare il suo petto, la maglietta, il corpo di Victor e forse anche la porta di quella stanza, le pareti della casa e il giardino, poi i campi sterminati e infine la scogliera e arrivare fino al mare dove forse solo il rumore delle onde sarebbe stato in grado di coprirlo.

“Sento il tuo cuore.”- gli disse Victor all'orecchio, esattamente come aveva fatto la prima volta che si era infilato nel suo letto. -“Vuol dire che posso restare?”

E Sherlock, proprio come quella volta, non disse niente. Si accoccolò tra le sue braccia, con la testa sulla sua spalla, in cerca di un conforto che avrebbe dovuto dare o forse ricevere, non ne era più sicuro, fino a che le prime luci dell'alba si fecero strada attraverso la finestra proiettando piccoli rettangoli di sole sul pavimento e poi lentamente su di loro.

   
 
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