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Autore: Layla    26/12/2017    0 recensioni
So cosa succederà adesso, so che ci baceremo e so che sarà questo il ricordo preferito che mi porterò dietro da Londra, anche se probabilmente non rivedrò mai più Tony.
E succede, le nostre labbra si scontrano in un bacio lieve che poi diventa passionale, le sue mani mi accarezzano la schiena, le mie i suoi capelli.
E per un attimo il mondo smette di esistere ed esistiamo solo noi, due perfetti sconosciuti che si baciano come se si conoscessero da una vita.
Un momento magico che viene interrotto dalla vibrazione del mio cellulare: devo tornare in ospedale.
Mi stacco a malincuore e gli accarezzo una guancia un po’ ruvida di barba.
“Devo andare. Grazie di tutto.
Mi hai regalato una serata magica, sono sicura che la tua vita andrà bene.”
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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La miracolata.

Il reparto è tranquillo, si respira aria di Natale.
L’altro ieri io e un paio di ragazzi abbiamo aiutato le infermiere a decorare il nostro reparto e quello dei bambini..
Mi chiamo Alice, ho vent’anni, occhi verdi e capelli rasati a causa di un cancro al cervello che mi hanno appena asportato dopo mesi di cure per ridurne le dimensioni.
Scioccante, vero?
È iniziato tutto con dei mal di testa che non se ne andavano, dicevano che era stress per l’imminente esame di maturità, ma si sbagliavano. Mamma mi ha portato dal medico e lì si è scoperto che un inquilino maligno e pericoloso abitava nella mia testa.
Se esiste una parola che annienta è proprio cancro, sa di sentenza di morte e tutti ne hanno paura.
Io soprattutto avevo paura, paura di non riuscire a realizzare i miei sogni, di non vivere, di non sposarmi mai.
Prima del cancro dicevo di non volere figli o marito, ma quando una cosa del genere colpisce la tua vita, le prospettive, cambiano, le costrizioni ti sembrano traguardi che non realizzerai mai.
Ho iniziato un primo ciclo di chemio, ma il bastardo non sembrava volersene andare, così sono proseguiti con un secondo, io mi assottigliavo, lui prosperava.
I medici italiani mi davano per morta, parlavano di terapia del dolore e di trasferirmi in un istituto per i senza speranza come me, ma mia madre è stata una leonessa.
Non ha mai mollato, era convinta che potessi guarire e ha fatto le sue ricerche, mio padre invece mi preparava spiritualmente a lasciare questo mondo. Mio padre è napoletano, accetta le cose con un fatalismo che fa arrabbiare mia madre, bergamasca di ferro.
Il cancro non le avrebbe tolto la sua piccola prima del tempo, non senza aver lottato fino in fondo a costo di spendere tutti i suoi soldi.
Alla fine ha trovato un ospedale londinese che stava sperimentando una nuova cura, siamo volati in Inghilterra sebbene in quel periodo fossi ridotta a uno scheletro per via delle chemio. Ero pallida e senza capelli, gli occhi cerchiati di viola e le vene in evidenza, tutto il contrario della ragazza dai chiassosi capelli viola che ero stata.
Pensavo di non avere speranza, ma avevo accettato di venire per realizzare uno dei miei desideri: vedere Londra. Se fosse andata male almeno avrei depennato una cosa dalla lista di quelle da fare prima di morire.
I dottori che mi hanno visitato sono stati gentili, hanno detto che ero debole, ma che la cura si poteva tentare, mia madre ha pianto di gioia, io ho a malapena sorriso.
Ero così stanca che persino gioire era uno sforzo eccessivo e il dottore se n’era accorto, mi ha appoggiato una mano sulla spalla e mi ha guardato negli occhi.
Due occhi azzurri franchi da inglese.
“Alice, sei nella parte brutta del paese delle meraviglie, ma se ti fidi di me come Bianconiglio arriverai anche alla parte bella. Ti fidi di me?”
“Sì.”
Ho sussurrato.
“Ottimo.”
Poi ha guardato i miei genitori.
“Dobbiamo ricoverarla subito, rimetterla in forze e poi iniziare la cura. Alice è giovane, ci sono buone possibilità che funzioni. Una volta ridotto il tumore, potremo asportarlo.
È un intervento rischioso, ma credo possa prevenire un eventuale ritorno.”
I miei hanno annuito e così sono stata ricoverata.
Ormai sono due anni che sono qui, ho attraversato la valle delle ombre fatta di dolore fisico e morale, il sentirsi deboli e senza speranza, le chemio, tremori, allucinazioni, arti che non controlli, il corpo che arriva allo stremo delle forze e invoca di morire.
Ci sono stati momenti in cui pensavo di non farcela, ma invece è andata bene, il cancro regrediva e due settimane fa sono stata operata.
Il mostro se n’è andato dalla mia testa, gli esami hanno dato esito positivo, potrò vivere ancora un po’.
Domani mi dimettono e poi tornerò in Italia dove finirò il liceo e inizierò l’università, sebbene non sappia cosa scegliere, in questi anni la parola “futuro” è stata come accantonata.
È sera, le infermiere hanno appena spento le luci in reparto e io guardo fuori dalla finestra, il giardino dell’ospedale è ricoperto da un leggero strato di neve.
Prima di andarmene da questa città c’è una cosa che mi piacerebbe fare, andare a un rave e ballare almeno un po’, prima mi piaceva tanto.
Sono abbastanza in forze da reggere un paio d’ore fuori di qui o almeno credo. So che non dovrei farlo, ma la tentazione è fortissima, mi hanno persino tolto le flebo, quale occasione migliore?
Alla fine decido di farlo, scivolo fuori dal mio letto, prendo una maglietta, una felpa e un paio di jeans stracciati e vado in bagno. Lì mi cambio e mi trucco un pochino, fuori indosso il mio cappotto e mi calco un cappellino un po’hippie in testa, prendo la borsa e mi guardo attorno: non c’è nessuno.
Con il cuore che batte a mille esco dalla mia stanza e mi infilo in uno degli ascensori, sono quasi libera, prometto a me stessa di non strafare e di tornare il più presto possibile, spero che ci sarà un’altra occasione per poter ballare tutta la notte qui.
Magari venirci in vacanza e fare cose da turisti.
Esco dall’ospedale e controllo sul cellulare dove si tiene il rave di stasera e come raggiungerlo, fa più freddo di quanto immaginassi.
Compro un biglietto del pullman a una biglietteria automatica e aspetto che arrivi, qualcuno mi guarda di sottecchi, ma io lo ignoro.
Finalmente arriva il mezzo e io mi siedo su un sedile, già stanca, e sto attenta alle fermate per tutto il viaggio, perché se perdessi quella giusta non saprei più ritrovarla.
Attraverso mezza Londra fino a che arrivo in un quartiere che ha un’aria trascurata, case malmesse, sporcizia per terra, persino qualche siringa.
Stando attenta continuo a camminare fino a che non sento della musica, proviene da un vecchio magazzino e io mi affretto a raggiungerlo. Fuori dal cancello ci sono due tipi, io mi fermo e li guardo spaesata.
“C’è da pagare?”
Chiedo infine.
“No, controlliamo che non arrivino gli sbirri. L’ingresso è libero, bambolina.”
“Grazie.”
“Ti va una sigaretta? Hai l’aria di una che ha bisogno di qualcosa.”
Mi dice uno con il cappuccio alzato e un cappellino da baseball in testa, somiglia un po’ a Rou Rot dei Crim3s.
“Anche tu avresti bisogno di qualcosa se te ne fossi stato dove sono stata io. L’accetto comunque, l’unica della serata.”
“Ah, è perché vieni da un brutto posto che porti quel cappello che non c’entra un cazzo con il resto?”
Mi chiede.
“Già.”
Dico accendendomi la sigaretta.
“Cos’ha il mio cappello che non va?”
Lui sorride, si toglie il suo e me lo calca in testa: un cappellino nero con l’interno della visiera verde pieno di scritte fatte a mano.
“Questo ti dona di più…”
“Alice, mi chiamo Alice. Pronunciato all’italiana, come si legge.”
“Capito. Io sono Tony comunque.”
“Lieta di fare la tua conoscenza.”
Fumiamo in silenzio, poi alzo una mano in segno di saluto ed entro nel locale.
Immediatamente vengo attirata dal ritmo ipnotico della musica e per un paio di momenti dimentico chi sono e perché sono qui. Il mostro nella mia testa non c’è mai stato, sono a Londra per divertirmi , non devo tornare in un ospedale, ma in un appartamento.
È bello sognare ed essere leggeri qualche volta, a volte può essere difficile farlo quando il nero si chiude su di te, ma ne vale la pena.
All’improvviso qualcuno appoggia una mano sulla mia spalla, io mi volto e mi trovo davanti al ragazzo di prima con il cappuccio abbassato, somiglia davvero a Rou Rot con quei capelli castani rasati ai lati, frangetta cortissima e capelli lunghi.
“Ehi, mi hai fatto venire un infarto!”
“Scusa, ma non hai risposto quando mi hai chiamato.”
“Scusa, è che la musica mi aveva preso bene. Per una volta non stavo pensando ai miei problemi, tu piuttosto! Finito il turno di guardia?”
“Mi hanno dato il cambio così tutti possono godersi il rave almeno un po’.”
“Figo.”
“Balli un po’ con me?”
“Sì!”
Ci avviciniamo un altro po' e ci stringiamo uno contro l’altra complice la calca di questo posto, è una sensazione piacevole, sento il suo cuore che batte.
Mi chiedo se anche lui abbia qualche mostro con cui combattere, nonostante l’aria tranquilla ha gli occhi tristi.
“Va tutto bene?”
“Mi sto divertendo alla grande, tu no?”
“Io sì, ma hai l’aria un po’ triste.”
“È che mi hanno sfrattato e non so dove andare, ma so che troverò qualcosa.
Non c’è posto per me nel tuo brutto posto?”
“Credimi, non vorresti essere lì.”
“Cosa era? Il carcere? Una casa famiglia?
Un orfanotrofio?”
“No, niente di tutto questo.”
“Sei misteriosa, vieni dal paese delle meraviglie?”
“No, ma mi piacerebbe andarci.”
Sorrido.
“Dai, balliamo! Non pensiamo alla nostra vita di merda questa sera.”
“Va bene.”
Continuiamo a ballare sempre più vicini, i nostri corpi che si sfiorano, il suo sorriso che si allarga sempre di più e contagia persino gli occhi., con una mosa agile mi toglie il cappellino e me lo rimette.
“Ehi, sei davvero carina e la testa rasata ti dà un’aria da punk dura e pura.”
Io arrossisco.
“Oh, grazie.”
“Davvero.”
Continuiamo e il suo naso sfiora il mio con dolcezza, io sorrido.
So cosa succederà adesso, so che ci baceremo e so che sarà questo il ricordo preferito che mi porterò dietro da Londra, anche se probabilmente non rivedrò mai più Tony.
E succede, le nostre labbra si scontrano in un bacio lieve che poi diventa passionale, le sue mani mi accarezzano la schiena, le mie i suoi capelli.
E per un attimo il mondo smette di esistere ed esistiamo solo noi, due perfetti sconosciuti che si baciano come se si conoscessero da una vita.
Un momento magico che viene interrotto dalla vibrazione del mio cellulare: devo tornare in ospedale.
Mi stacco a malincuore e gli accarezzo una guancia un po’ ruvida di barba.
“Devo andare. Grazie di tutto.
Mi hai regalato una serata magica, sono sicura che la tua vita andrà bene.”
“Cosa?”
“Devo andare, Tony. Il posto brutto mi reclama.”
Detto questo mi faccio largo tra la folla verso l’uscita sentendomi il suo sguardo sulla schiena, io sorrido e mi tocco le labbra. Non mi sentivo così viva da prima della malattia.
Prendo i pullman necessari, rientro in ospedale e poi nel mio reparto. Senza fare rumore mi spoglio e mi metto a letto. Mi addormento sorridendo.

 

La mattina dopo vengo svegliata dalla solita infermiera.
“La colazione è pronta, tesoro.
Dopo potrai cambiarti e andartene, mandaci una cartolina dall’Italia.”
“Lo farò.”
Bevo il solito the con i biscotti e poi mi faccio una doccia, indosso i vestiti di ieri sera e sorrido rigirandomi tra le mani il cappellino. Mi è rimasto un ricordo di questa serata magica!
Mi trucco e me lo metto, subito dopo vengo abbracciata dai miei genitori, quasi piangiamo dalla gioia, presto inizierò una vita nuova.
Mio padre esce con la borsa delle mie cose in mano e si dirige verso lo studio del medico che mi ha in cura, mia madre guarda curiosa il cappello.
“Chi ti ha dato quel cappellino, Alice?”
“Uno dei ragazzi del reparto.”
Mento io.
Entriamo nello studio, il dottore è seduto dietro alla scrivania sorridente.
“Sembra che la nostra Alice sia uscita dal paese delle meraviglie, le tac sono tutte positive, il cancro se n’è andato. Questo non significa che puoi darti a una vita di eccessi, per i primi due mesi devi riposare molto e poi gradualmente reinserirti nella tua vita.”
“Non si preoccupi. Credo che la cosa più faticosa che farò in questi due mesi sarà mettere e togliere le decorazioni di Natale.”
Lui ride e poi parla un altro po’ con i miei genitori della situazione e dei farmaci che devo prendere, io ascolto a metà, continuo a pensare a stanotte e alla sua magia.
Sono impaziente di tornare in Italia, ma adesso ho anche qualcosa che mi lega a Londra.
“Bene, adesso potete andare.”
Usciamo dallo studio del dottore e poi dall’ospedale.
“Cosa facciamo adesso?”
“Beh, l’aereo parte nel pomeriggio, possiamo fare un giro per Londra e poi tornare a casa.”
“Va bene.”
Come deciso visitiamo un pochino Londra, giusto il tempo di vedere il cambio della guardia a Buckingham Palace, il Big Ben e fare un giro sul London Eye.
Dopo un breve pranzo andiamo all’aeroporto, fa così strano lasciare questa città in cui sono vissuta per tanto tempo, ma è per il mio bene.
Quando l’aereo prende quota saluto silenziosamente il Tamigi e la città, do un bacio con il pensiero alla notte appena passata, so che sarà il mio segreto e che non ne parlerò con nessuno, nemmeno con mia madre. Non credo capirebbe, forse penserebbe che sono una pazza incosciente, non so se comprenderebbe che sono ancora giovane e ho voglia di fare nuove esperienze.
“Ci sarà la neve?”
Chiedo.
“Dove? A Bergamo?
Sì, è nevicato un po’, la zia mi ha mandato delle foto.”
“Ottimo, mi piace l’idea di un bianco Natale.”
“Che non ti venga in mente di partire per uno dei tuoi giri, fotograferai la neve solo in giardino, sei ancora in via di guarigione.”
Mi risponde perentoria mamma.
“Ok, ho capito.”
“Lo so che per te è difficile, che sei giovane e tutto il resto, ma per un po’ devi riguardarti.”
“Va bene.”
Poi mi addormento, sebbene non abbia fatto molto sono già stanca.
Al mio risveglio siamo all’aeroporto di Orio, prendo il bagaglio a mano e scendo dall’aereo, non mi hanno mentito: c’è davvero un po’ di neve.
Attraversiamo la pista, ritiriamo i bagagli e raggiungiamo gli arrivi internazionali dove mia zia si sbraccia.
“Bentornata in Italia, tesoro.
Adesso ti accompagno a casa così puoi riposare.”
“Ciao, zia. Mi sei mancata,”
“Anche tu, Alice.”
Usciamo e con i nostri bagagli su dei carrelli attraversiamo il parcheggio fino alla macchina della zia, papà carica le valige nel bagagliaio e quando siamo tutti dentro mia zia mette in moto.
La strada verso la città è mediamente affollata, la città è decorata con delle palline di luci molto scenografiche e io mi sento una turista nella mia città.
Finalmente arriviamo a casa, io abbraccio la zia e poi apro il cancellino, un’ombra si stacca dalla parete e Nana, la mia gatta, mi salta in braccio. È una gatta nera dagli occhi gialli con una folta coda.
“Ciao, amore.
Sono tornata a casa, mi sei mancata e io?
Io ti sono mancata?”
Lei fa le fusa più forte e si struscia contro il mio cappotto.
Nel frattempo i miei genitori hanno portato le valige in casa.
“Alice, Nana! Venite dentro.”
Con la gatta in braccio rientro nella villetta a due piani, è confortevole come la ricordo: solida come una casa bergamasca e a colori vivaci come quelle del sud.
Metto a terra Nana e prendo le mie valige, le porti in camera mia in cui ci sono ancora poster di Londra e di gruppi pop-punk, non è cambiata.
Sospiro e comincio a disfare le valige, lavoro che mi stanca più del previsto, dopo una bella doccia mi metto a letto e mi addormento con Nana che dorme accanto a me sul cuscino facendo le fusa.
Davvero un bel ritorno a casa.

 

Finalmente è arrivato il giorno di Natale.
La casa è decorata, l’ho fatto io con l’aiuto di mio padre, quello con il maggior senso artistico della famiglia, ed è venuta proprio bene. L’albero bianco con luci e palline argentate è molto elegante, dovunque ci sono piccole decorazioni e in camera mia ci sono le lucine di Natale sulla testata del letto.
Ieri sera siamo andati alla messa di mezzanotte e adesso stiamo aspettando i parenti, la zia e suo marito sono i primi ad arrivare e inizio il primo giro di baci e abbracci che comprende anche i mie due cugini.
A seguire arrivano i nonni materni e poi quelli paterni, il fratello scapolo di mia madre, l’altro zio paterno  i suoi figli e qualche altro parente sconosciuto arrivato direttamente da Napoli per salutare la miracolata dal cancro.
Una volta salutati tutti e risposto a ogni domanda iniziamo a bere l’aperitivo, siamo tutti allegri e c’è una buona atmosfera.
Quelle natalizie di una volta si direbbe, mi piace molto, ho bisogno di calore umano dopo due anni passati in ospedale, indosso ancora il cappello di quel ragazzo e lo accarezzo distratta.
Chissà dov’è?
Avrà trovato casa?
Starà festeggiando il Natale?
All’improvviso suona il campanello, mio cugino più grande va ad aprire e lo sento litigare aspramente, è protettivo come un fratello siciliano, alla fine entra di nuovo in salotto.
C’è un silenzio sospeso.
“Alice, c’è un tizio che sembra un barbone che cerca te.
Inglese.”
Io arrossisco ed esco dalla stanza.
Appoggiato allo stipite della porta c’è Tony con mia grande sorpresa.
“E quello chi era? Il tuo ragazzo?”
“No, è Raffaele. È mio cugino, è molto protettivo.
Ma tu come mai sei qui? Come mi hai trovata?”
“Beh, mi hai lasciato solo con un bacio e non riuscivo a levarmelo dalla testa.
Volevo vederti, ma sembravi sparita dalla faccia della Terra.”
“Aspetta, io ti piaccio?”
“Direi di sì, non mi sarei precipitato qui  se non tu non mi piacessi.”
Io lo abbraccio forte e mamma ci coglie così.
“Oh, e così è lui il misterioso ragazzo del cappello.
Entrate, Alice non può prendere freddo.”
“Va bene. Mamma, io vado in camera mia con lui, dobbiamo parlare.”
“Sì, io aggiungo un posto a tavola e calmo le nonne.”
Mi fa l’occhiolino e torna in salotto.
“Vieni, andiamo in camera mia.”
Lui mi segue docile fino al secondo piano della villetta, una volta dentro la stanza si guarda attorno curioso.
“Bella, ma non sembra molto vissuta.”
“Sono stata via due anni. A proposito come hai fatto a trovarmi?
Io sono curiosa, spaventata, ma ammiro anche le tue capacità investigative.”
Lui ride.
“Beh, dopo quella notte ti ho aspettato. Speravo ti rifacessi viva in giro o al prossimo rave, ma – come ho detto – sembravi sparita dalla faccia della Terra. Allora ho chiesto a tutti quelli che conosco se ti avessero vista, mi hanno detto che ti hanno vista solo quella sera che prendevi un autobus verso l’ospedale.
Allora ho pensato che fossi ricoverata lì e ci sono andato, ma all’accettazione non mi hanno detto nulla, nessuno sapeva di Alice.”
“Beh, c’è la privacy.”
“Sì, allora ho deciso di aggirare l’ostacolo.”
Io alzo un sopracciglio.
“Conosco un sacco di gente e mi sono fatto aiutare da un hacker che ha trovato la tua cartella nell’archivio pazienti.”
Io faccio per aprire bocca, ma lui alza una mano.
“Non ho guardato che cosa avessi, mi sembrava poco carino invadere la tua privacy così, ho solo preso il tuo indirizzo. Abitavi in Italia, come pensavo.”
“Da cosa l’avevi capito.”
“Da come hai detto il tuo nome, hai detto pronunciato all’italiana, non ti ricordi?”
“Sì, hai ragione. Ho detto esattamente così.
Allora cosa hai fatto?”
Lui ride.
“Mi sono infilato nel primo treno merci che portasse nel continente e poi, di treno in treno, sono arrivato qui.”
“Vuoi dire che hai girato mezza Europa senza biglietto?”
Questo tizio è pazzo da legare, ma mi piace.
Chi fa follie ogni tanto è più interessante ai miei occhi di chi si adagia in una vita normale e senza scosse, sarà il mio lato napoletano.
“Certo, non ho soldi e sono senza casa.”
“Mi dispiace, sono sicura che troverai qualcosa.”
“E tu? Qual è il brutto posto che dicevi?
L’ospedale?”
Io annuisco.
“Come mai eri lì, se ne vuoi parlare?”
“Sì, non c’è problema. Dopo tutto il viaggio che ti sei fatto te lo meriti.
Due anni e mezzo fa mi hanno diagnosticato un cancro al cervello, sembrava fossi destinata a morire perché qui in Italia non riuscivano a trovare qualche cura che facesse effetto. Così mia madre ha preso in mano la situazione e ha scoperto che in un ospedale di Londra c’era una cura sperimentale per i casi come il mio. Mi hanno portata là e ci sono rimasta due anni.
Sono entrata ridotta a uno scheletro ambulante e ne sono uscita come mi vedi, sono ancora magra, non posso stare troppo tempo al freddo o fare sforzi eccessivi, devo prendere ancora un sacco di pastiglie, ma sto meglio.
Sto guarendo.
La notte che mi hai incontrata era la mia ultima a Londra, il giorno dopo sono tornata in Italia, ho deciso di fare qualcosa di folle. Sono andata a un rave perché avrei sempre voluto andare a uno e ti ho incontrato, non pensavo che… qualcuno si sarebbe interessato a me, conciata come sono.”
“Secondo me sei bellissima, senza capelli risaltano gli occhi. Sono di un verde a cui ho pensato spesso, e tu?
Mi hai pensato ogni tanto?”
Io arrossisco.
“Tutti i giorni, ma pensavo che non ti avrei più rivisto.”
“E così ti sei tenuta il cappello.”
“Sì, volevo qualcosa che mi ricordasse di te, di quella notte.”
“Alice…”
“Sì?”
“Mi piaci tanto, come non credevo potesse piacermi una ragazza.
Non ho molto da offrirti, sono uno scarto della società senza casa e con lavori precari.
Fumo sigarette e a volte dell’erba, ho un passato da tossico, ma mi sto lasciando tutto alle spalle, ci sto davvero provando.
So che non è molto, ma vorresti essere la mia ragazza o almeno frequentarmi?”
“Sì.”
Rispondo decisa.
“La vita mi ha dato una seconda possibilità e non voglio sprecarla.”
Lui mi sorride e mi abbraccia, io mi lascio andare, curiosamente mi fa sentire bene.
“Posso baciarti o sei troppo debole?”
Per tutta risposta lo bacio io.
Ci sorridiamo a vicenda e ci baciamo di nuovo, con passione, come se non ci fosse un domani.
Quando ci stacchiamo scoppiamo a ridere e rimaniamo abbracciati.
“Dobbiamo andare.”
“Dove?”
“Al pranzo di Natale, pronto alla prova parenti?”
“Sì, non sarà peggio di viaggiare in treni merci.”
Io sorrido.
“E allora andiamo.”
Mano nella mano scendiamo le scale.
Mi seno felicissima e grata a Dio per questo regalo inaspettato.
So che non sarà facile portare avanti questa storia, ma sono sicura che ce la faremo.
In qualche modo ce la si fa sempre.
I lieto fine esistono e sono possibili.
Buon Natale, Alice.

 

 

   
 
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