La miracolata.
Il reparto è
tranquillo, si respira aria di Natale.
L’altro ieri io e un paio di ragazzi abbiamo aiutato le
infermiere a decorare il nostro reparto e quello dei bambini..
Mi chiamo Alice, ho vent’anni, occhi verdi e capelli
rasati a causa di un cancro al cervello che mi hanno appena asportato
dopo mesi
di cure per ridurne le dimensioni.
Scioccante, vero?
È iniziato tutto con dei mal di testa che non se ne
andavano, dicevano che era stress per l’imminente esame di
maturità, ma si
sbagliavano. Mamma mi ha portato dal medico e lì si
è scoperto che un inquilino
maligno e pericoloso abitava nella mia testa.
Se esiste una parola che annienta è proprio cancro, sa di
sentenza di morte e tutti ne hanno paura.
Io soprattutto avevo paura, paura di non riuscire a realizzare
i miei sogni, di non vivere, di non sposarmi mai.
Prima del cancro dicevo di non volere figli o marito, ma
quando una cosa del genere colpisce la tua vita, le prospettive,
cambiano, le
costrizioni ti sembrano traguardi che non realizzerai mai.
Ho iniziato un primo ciclo di chemio, ma il bastardo non
sembrava volersene andare, così sono proseguiti con un
secondo, io mi
assottigliavo, lui prosperava.
I medici italiani mi davano per morta, parlavano di terapia
del dolore e di trasferirmi in un istituto per i senza speranza come
me, ma mia
madre è stata una leonessa.
Non ha mai mollato, era convinta che potessi guarire e ha
fatto le sue ricerche, mio padre invece mi preparava spiritualmente a
lasciare
questo mondo. Mio padre è napoletano, accetta le cose con un
fatalismo che fa
arrabbiare mia madre, bergamasca di ferro.
Il cancro non le avrebbe tolto la sua piccola prima del
tempo, non senza aver lottato fino in fondo a costo di spendere tutti i
suoi
soldi.
Alla fine ha trovato un ospedale londinese che stava sperimentando
una nuova cura, siamo volati in Inghilterra sebbene in quel periodo
fossi
ridotta a uno scheletro per via delle chemio. Ero pallida e senza
capelli, gli
occhi cerchiati di viola e le vene in evidenza, tutto il contrario
della
ragazza dai chiassosi capelli viola che ero stata.
Pensavo di non avere speranza, ma avevo accettato di
venire per realizzare uno dei miei desideri: vedere Londra. Se fosse
andata
male almeno avrei depennato una cosa dalla lista di quelle da fare
prima di
morire.
I dottori che mi hanno visitato sono stati gentili, hanno
detto che ero debole, ma che la cura si poteva tentare, mia madre ha
pianto di
gioia, io ho a malapena sorriso.
Ero così stanca che persino gioire era uno sforzo
eccessivo e il dottore se n’era accorto, mi ha appoggiato una
mano sulla spalla
e mi ha guardato negli occhi.
Due occhi azzurri franchi da inglese.
“Alice, sei nella parte brutta del paese delle
meraviglie, ma se ti fidi di me come Bianconiglio arriverai anche alla
parte
bella. Ti fidi di me?”
“Sì.”
Ho sussurrato.
“Ottimo.”
Poi ha guardato i miei genitori.
“Dobbiamo ricoverarla subito, rimetterla in forze e poi
iniziare la cura. Alice è giovane, ci sono buone
possibilità che funzioni. Una
volta ridotto il tumore, potremo asportarlo.
È un intervento rischioso, ma credo possa prevenire un
eventuale ritorno.”
I miei hanno annuito e così sono stata ricoverata.
Ormai sono due anni che sono qui, ho attraversato la
valle delle ombre fatta di dolore fisico e morale, il sentirsi deboli e
senza
speranza, le chemio, tremori, allucinazioni, arti che non controlli, il
corpo
che arriva allo stremo delle forze e invoca di morire.
Ci sono stati momenti in cui pensavo di non farcela, ma
invece è andata bene, il cancro regrediva e due settimane fa
sono stata
operata.
Il mostro se n’è andato dalla mia testa, gli esami
hanno
dato esito positivo, potrò vivere ancora un po’.
Domani mi dimettono e poi tornerò in Italia dove
finirò
il liceo e inizierò l’università,
sebbene non sappia cosa scegliere, in questi
anni la parola “futuro” è stata come
accantonata.
È sera, le infermiere hanno appena spento le luci in
reparto e io guardo fuori dalla finestra, il giardino
dell’ospedale è ricoperto
da un leggero strato di neve.
Prima di andarmene da questa città c’è
una cosa che mi piacerebbe
fare, andare a un rave e ballare almeno un po’, prima mi
piaceva tanto.
Sono abbastanza in forze da reggere un paio d’ore fuori
di qui o almeno credo. So che non dovrei farlo, ma la tentazione
è fortissima,
mi hanno persino tolto le flebo, quale occasione migliore?
Alla fine decido di farlo, scivolo fuori dal mio letto,
prendo una maglietta, una felpa e un paio di jeans stracciati e vado in
bagno.
Lì mi cambio e mi trucco un pochino, fuori indosso il mio
cappotto e mi calco un
cappellino un po’hippie in testa, prendo la borsa e mi guardo
attorno: non c’è
nessuno.
Con il cuore che batte a mille esco dalla mia stanza e mi
infilo in uno degli ascensori, sono quasi libera, prometto a me stessa
di non
strafare e di tornare il più presto possibile, spero che ci
sarà un’altra
occasione per poter ballare tutta la notte qui.
Magari venirci in vacanza e fare cose da turisti.
Esco dall’ospedale e controllo sul cellulare dove si
tiene il rave di stasera e come raggiungerlo, fa più freddo
di quanto
immaginassi.
Compro un biglietto del pullman a una biglietteria
automatica e aspetto che arrivi, qualcuno mi guarda di sottecchi, ma io
lo
ignoro.
Finalmente arriva il mezzo e io mi siedo su un sedile,
già stanca, e sto attenta alle fermate per tutto il viaggio,
perché se perdessi
quella giusta non saprei più ritrovarla.
Attraverso mezza Londra fino a che arrivo in un quartiere
che ha un’aria trascurata, case malmesse, sporcizia per
terra, persino qualche
siringa.
Stando attenta continuo a camminare fino a che non sento
della musica, proviene da un vecchio magazzino e io mi affretto a
raggiungerlo.
Fuori dal cancello ci sono due tipi, io mi fermo e li guardo spaesata.
“C’è da pagare?”
Chiedo infine.
“No, controlliamo che non arrivino gli sbirri.
L’ingresso
è libero, bambolina.”
“Grazie.”
“Ti va una sigaretta? Hai l’aria di una che ha
bisogno di qualcosa.”
Mi dice uno con il cappuccio alzato e un cappellino da
baseball in testa, somiglia un po’ a Rou Rot dei Crim3s.
“Anche tu avresti bisogno di qualcosa se te ne fossi stato
dove sono stata io.
L’accetto comunque, l’unica della serata.”
“Ah, è perché vieni da un brutto
posto che porti quel
cappello che non c’entra un
cazzo con il resto?”
Mi chiede.
“Già.”
Dico accendendomi la sigaretta.
“Cos’ha il mio cappello che non va?”
Lui sorride, si toglie il suo e me lo calca in testa: un cappellino
nero con
l’interno della visiera verde pieno di scritte fatte a mano.
“Questo ti dona di più…”
“Alice, mi chiamo Alice. Pronunciato all’italiana,
come
si legge.”
“Capito. Io sono Tony comunque.”
“Lieta di fare la tua conoscenza.”
Fumiamo in silenzio, poi alzo una mano in segno di saluto ed entro nel
locale.
Immediatamente vengo attirata dal ritmo ipnotico della
musica e per un paio di momenti dimentico chi sono e perché
sono qui. Il mostro
nella mia testa non c’è mai stato, sono a Londra
per divertirmi , non devo
tornare in un ospedale, ma in un appartamento.
È bello sognare ed essere leggeri qualche volta, a volte
può essere difficile farlo quando il nero si chiude su di
te, ma ne vale la pena.
All’improvviso qualcuno appoggia una mano sulla mia
spalla, io mi volto e mi trovo davanti al ragazzo di prima con il
cappuccio
abbassato, somiglia davvero a Rou Rot con quei capelli castani rasati
ai lati,
frangetta cortissima e capelli lunghi.
“Ehi, mi hai fatto venire un infarto!”
“Scusa, ma non hai risposto quando mi hai chiamato.”
“Scusa, è che la musica mi aveva preso bene. Per
una volta non stavo pensando
ai miei problemi, tu piuttosto! Finito il turno di guardia?”
“Mi hanno dato il cambio così tutti possono
godersi il rave almeno un po’.”
“Figo.”
“Balli un po’ con me?”
“Sì!”
Ci avviciniamo un altro po' e ci stringiamo uno contro
l’altra complice la calca di questo posto, è una
sensazione piacevole, sento il
suo cuore che batte.
Mi chiedo se anche lui abbia qualche mostro con cui
combattere, nonostante l’aria tranquilla ha gli occhi tristi.
“Va tutto bene?”
“Mi sto divertendo alla grande, tu no?”
“Io sì, ma hai l’aria un po’
triste.”
“È che mi hanno sfrattato e non so dove andare, ma
so che
troverò qualcosa.
Non c’è posto per me nel tuo brutto
posto?”
“Credimi, non vorresti essere lì.”
“Cosa era? Il carcere? Una casa famiglia?
Un orfanotrofio?”
“No, niente di tutto questo.”
“Sei misteriosa, vieni dal paese delle meraviglie?”
“No, ma mi piacerebbe andarci.”
Sorrido.
“Dai, balliamo! Non pensiamo alla nostra vita di merda
questa sera.”
“Va bene.”
Continuiamo a ballare sempre più vicini, i nostri corpi che
si sfiorano, il suo
sorriso che si allarga sempre di più e contagia persino gli
occhi., con una mosa agile mi toglie il cappellino e me lo rimette.
“Ehi, sei davvero carina e la testa rasata ti dà
un’aria
da punk dura e pura.”
Io arrossisco.
“Oh, grazie.”
“Davvero.”
Continuiamo e il suo naso sfiora il mio con dolcezza, io sorrido.
So cosa succederà adesso, so che ci baceremo e so che
sarà questo il ricordo preferito che mi porterò
dietro da Londra, anche se
probabilmente non rivedrò mai più Tony.
E succede, le nostre labbra si scontrano in un bacio
lieve che poi diventa passionale, le sue mani mi accarezzano la
schiena, le mie
i suoi capelli.
E per un attimo il mondo smette di esistere ed esistiamo
solo noi, due perfetti sconosciuti che si baciano come se si
conoscessero da
una vita.
Un momento magico che viene interrotto dalla vibrazione
del mio cellulare: devo tornare in ospedale.
Mi stacco a malincuore e gli accarezzo una guancia un po’
ruvida di barba.
“Devo andare. Grazie di tutto.
Mi hai regalato una serata magica, sono sicura che la tua
vita andrà bene.”
“Cosa?”
“Devo andare, Tony. Il posto brutto mi reclama.”
Detto questo mi faccio largo tra la folla verso l’uscita
sentendomi il suo
sguardo sulla schiena, io sorrido e mi tocco le labbra. Non mi sentivo
così
viva da prima della malattia.
Prendo i pullman necessari, rientro in ospedale e poi nel
mio reparto. Senza fare rumore mi spoglio e mi metto a letto. Mi
addormento
sorridendo.
La mattina dopo vengo svegliata
dalla solita infermiera.
“La colazione è pronta, tesoro.
Dopo potrai cambiarti e andartene, mandaci una cartolina
dall’Italia.”
“Lo farò.”
Bevo il solito the con i biscotti e poi mi faccio una
doccia, indosso i vestiti di ieri sera e sorrido rigirandomi tra le
mani il
cappellino. Mi è rimasto un ricordo di questa serata magica!
Mi trucco e me lo metto, subito dopo vengo abbracciata dai miei
genitori, quasi
piangiamo dalla gioia, presto inizierò una vita nuova.
Mio padre esce con la borsa delle mie cose in mano e si
dirige verso lo studio del medico che mi ha in cura, mia madre guarda
curiosa
il cappello.
“Chi ti ha dato quel cappellino, Alice?”
“Uno dei ragazzi del reparto.”
Mento io.
Entriamo nello studio, il dottore è seduto dietro alla
scrivania sorridente.
“Sembra che la nostra Alice sia uscita dal paese delle
meraviglie, le tac sono tutte positive, il cancro se
n’è andato. Questo non
significa che puoi darti a una vita di eccessi, per i primi due mesi
devi
riposare molto e poi gradualmente reinserirti nella tua vita.”
“Non si preoccupi. Credo che la cosa più faticosa
che
farò in questi due mesi sarà mettere e togliere
le decorazioni di Natale.”
Lui ride e poi parla un altro po’ con i miei genitori della
situazione e dei
farmaci che devo prendere, io ascolto a metà, continuo a
pensare a stanotte e
alla sua magia.
Sono impaziente di tornare in Italia, ma adesso ho anche
qualcosa che mi lega a Londra.
“Bene, adesso potete andare.”
Usciamo dallo studio del dottore e poi dall’ospedale.
“Cosa facciamo adesso?”
“Beh, l’aereo parte nel pomeriggio, possiamo fare
un giro per Londra e poi
tornare a casa.”
“Va bene.”
Come deciso visitiamo un pochino Londra, giusto il tempo di vedere il
cambio
della guardia a Buckingham Palace, il Big Ben e fare un giro sul London
Eye.
Dopo un breve pranzo andiamo all’aeroporto, fa
così
strano lasciare questa città in cui sono vissuta per tanto
tempo, ma è per il
mio bene.
Quando l’aereo prende quota saluto silenziosamente il
Tamigi e la città, do un bacio con il pensiero alla notte
appena passata, so
che sarà il mio segreto e che non ne parlerò con
nessuno, nemmeno con mia
madre. Non credo capirebbe, forse penserebbe che sono una pazza
incosciente,
non so se comprenderebbe che sono ancora giovane e ho voglia di fare
nuove
esperienze.
“Ci sarà la neve?”
Chiedo.
“Dove? A Bergamo?
Sì, è nevicato un po’, la zia mi ha
mandato delle foto.”
“Ottimo, mi piace l’idea di un bianco
Natale.”
“Che non ti venga in mente di partire per uno dei tuoi giri,
fotograferai la
neve solo in giardino, sei ancora in via di guarigione.”
Mi risponde perentoria mamma.
“Ok, ho capito.”
“Lo so che per te è difficile, che sei giovane e
tutto il resto, ma per un po’
devi riguardarti.”
“Va bene.”
Poi mi addormento, sebbene non abbia fatto molto sono già
stanca.
Al mio risveglio siamo all’aeroporto di Orio, prendo il
bagaglio a mano e scendo dall’aereo, non mi hanno mentito:
c’è davvero un po’
di neve.
Attraversiamo la pista, ritiriamo i bagagli e
raggiungiamo gli arrivi internazionali dove mia zia si sbraccia.
“Bentornata in Italia, tesoro.
Adesso ti accompagno a casa così puoi riposare.”
“Ciao, zia. Mi sei mancata,”
“Anche tu, Alice.”
Usciamo e con i nostri bagagli su dei carrelli attraversiamo il
parcheggio fino
alla macchina della zia, papà carica le valige nel
bagagliaio e quando siamo
tutti dentro mia zia mette in moto.
La strada verso la città è mediamente affollata,
la città
è decorata con delle palline di luci molto scenografiche e
io mi sento una
turista nella mia città.
Finalmente arriviamo a casa, io abbraccio la zia e poi
apro il cancellino, un’ombra si stacca dalla parete e Nana,
la mia gatta, mi
salta in braccio. È una gatta nera dagli occhi gialli con
una folta coda.
“Ciao, amore.
Sono tornata a casa, mi sei mancata e io?
Io ti sono mancata?”
Lei fa le fusa più forte e si struscia contro il mio
cappotto.
Nel frattempo i miei genitori hanno portato le valige in
casa.
“Alice, Nana! Venite dentro.”
Con la gatta in braccio rientro nella villetta a due piani,
è confortevole come
la ricordo: solida come una casa bergamasca e a colori vivaci come
quelle del
sud.
Metto a terra Nana e prendo le mie valige, le porti in
camera mia in cui ci sono ancora poster di Londra e di gruppi pop-punk,
non è
cambiata.
Sospiro e comincio a disfare le valige, lavoro che mi
stanca più del previsto, dopo una bella doccia mi metto a
letto e mi addormento
con Nana che dorme accanto a me sul cuscino facendo le fusa.
Davvero un bel ritorno a casa.
Finalmente è arrivato
il giorno di Natale.
La casa è decorata, l’ho fatto io con
l’aiuto di mio
padre, quello con il maggior senso artistico della famiglia, ed
è venuta
proprio bene. L’albero bianco con luci e palline argentate
è molto elegante,
dovunque ci sono piccole decorazioni e in camera mia ci sono le lucine
di
Natale sulla testata del letto.
Ieri sera siamo andati alla messa di mezzanotte e adesso
stiamo aspettando i parenti, la zia e suo marito sono i primi ad
arrivare e
inizio il primo giro di baci e abbracci che comprende anche i mie due
cugini.
A seguire arrivano i nonni materni e poi quelli paterni,
il fratello scapolo di mia madre, l’altro zio paterno i suoi figli e qualche
altro parente
sconosciuto arrivato direttamente da Napoli per salutare la miracolata
dal
cancro.
Una volta salutati tutti e risposto a ogni domanda
iniziamo a bere l’aperitivo, siamo tutti allegri e
c’è una buona atmosfera.
Quelle natalizie di una volta si direbbe, mi piace molto,
ho bisogno di calore umano dopo due anni passati in ospedale, indosso
ancora il
cappello di quel ragazzo e lo accarezzo distratta.
Chissà dov’è?
Avrà trovato casa?
Starà festeggiando il Natale?
All’improvviso suona il campanello, mio cugino più
grande
va ad aprire e lo sento litigare aspramente, è protettivo
come un fratello
siciliano, alla fine entra di nuovo in salotto.
C’è un silenzio sospeso.
“Alice, c’è un tizio che sembra un
barbone che cerca te.
Inglese.”
Io arrossisco ed esco dalla stanza.
Appoggiato allo stipite della porta c’è Tony con
mia
grande sorpresa.
“E quello chi era? Il tuo ragazzo?”
“No, è Raffaele. È mio cugino,
è molto protettivo.
Ma tu come mai sei qui? Come mi hai trovata?”
“Beh, mi hai lasciato solo con un bacio e non riuscivo a
levarmelo dalla testa.
Volevo vederti, ma sembravi sparita dalla faccia della
Terra.”
“Aspetta, io ti piaccio?”
“Direi di sì, non mi sarei precipitato qui se non tu non mi
piacessi.”
Io lo abbraccio forte e mamma ci coglie così.
“Oh, e così è lui il misterioso ragazzo
del cappello.
Entrate, Alice non può prendere freddo.”
“Va bene. Mamma, io vado in camera mia con lui, dobbiamo
parlare.”
“Sì, io aggiungo un posto a tavola e calmo le
nonne.”
Mi fa l’occhiolino e torna in salotto.
“Vieni, andiamo in camera mia.”
Lui mi segue docile fino al secondo piano della villetta,
una volta dentro la stanza si guarda attorno curioso.
“Bella, ma non sembra molto vissuta.”
“Sono stata via due anni. A proposito come hai fatto a
trovarmi?
Io sono curiosa, spaventata, ma ammiro anche le tue
capacità investigative.”
Lui ride.
“Beh, dopo quella notte ti ho aspettato. Speravo ti
rifacessi viva in giro o al prossimo rave, ma – come ho detto
– sembravi
sparita dalla faccia della Terra. Allora ho chiesto a tutti quelli che
conosco
se ti avessero vista, mi hanno detto che ti hanno vista solo quella
sera che
prendevi un autobus verso l’ospedale.
Allora ho pensato che fossi ricoverata lì e ci sono
andato, ma all’accettazione non mi hanno detto nulla, nessuno
sapeva di Alice.”
“Beh, c’è la privacy.”
“Sì, allora ho deciso di aggirare
l’ostacolo.”
Io alzo un sopracciglio.
“Conosco un sacco di gente e mi sono fatto aiutare da un
hacker che ha trovato la tua cartella nell’archivio
pazienti.”
Io faccio per aprire bocca, ma lui alza una mano.
“Non ho guardato che cosa avessi, mi sembrava poco carino
invadere la tua privacy così, ho solo preso il tuo
indirizzo. Abitavi in
Italia, come pensavo.”
“Da cosa l’avevi capito.”
“Da come hai detto il tuo nome, hai detto pronunciato
all’italiana, non ti
ricordi?”
“Sì, hai ragione. Ho detto esattamente
così.
Allora cosa hai fatto?”
Lui ride.
“Mi sono infilato nel primo treno merci che portasse nel
continente e poi, di treno in treno, sono arrivato qui.”
“Vuoi dire che hai girato mezza Europa senza
biglietto?”
Questo tizio è pazzo da legare, ma mi piace.
Chi fa follie ogni tanto è più interessante ai
miei occhi
di chi si adagia in una vita normale e senza scosse, sarà il
mio lato
napoletano.
“Certo, non ho soldi e sono senza casa.”
“Mi dispiace, sono sicura che troverai qualcosa.”
“E tu? Qual è il brutto posto che dicevi?
L’ospedale?”
Io annuisco.
“Come mai eri lì, se ne vuoi parlare?”
“Sì, non c’è problema. Dopo
tutto il viaggio che ti sei fatto te lo meriti.
Due anni e mezzo fa mi hanno diagnosticato un cancro al
cervello, sembrava fossi destinata a morire perché qui in
Italia non riuscivano
a trovare qualche cura che facesse effetto. Così mia madre
ha preso in mano la
situazione e ha scoperto che in un ospedale di Londra c’era
una cura
sperimentale per i casi come il mio. Mi hanno portata là e
ci sono rimasta due
anni.
Sono entrata ridotta a uno scheletro ambulante e ne sono
uscita come mi vedi, sono ancora magra, non posso stare troppo tempo al
freddo
o fare sforzi eccessivi, devo prendere ancora un sacco di pastiglie, ma
sto
meglio.
Sto guarendo.
La notte che mi hai incontrata era la mia ultima a
Londra, il giorno dopo sono tornata in Italia, ho deciso di fare
qualcosa di
folle. Sono andata a un rave perché avrei sempre voluto
andare a uno e ti ho
incontrato, non pensavo che… qualcuno si sarebbe interessato
a me, conciata
come sono.”
“Secondo me sei bellissima, senza capelli risaltano gli
occhi. Sono di un verde
a cui ho pensato spesso, e tu?
Mi hai pensato ogni tanto?”
Io arrossisco.
“Tutti i giorni, ma pensavo che non ti avrei più
rivisto.”
“E così ti sei tenuta il cappello.”
“Sì, volevo qualcosa che mi ricordasse di te, di
quella notte.”
“Alice…”
“Sì?”
“Mi piaci tanto, come non credevo potesse piacermi una
ragazza.
Non ho molto da offrirti, sono uno scarto della società
senza casa e con lavori precari.
Fumo sigarette e a volte dell’erba, ho un passato da
tossico, ma mi sto lasciando tutto alle spalle, ci sto davvero provando.
So che non è molto, ma vorresti essere la mia ragazza o
almeno frequentarmi?”
“Sì.”
Rispondo decisa.
“La vita mi ha dato una seconda possibilità e non
voglio
sprecarla.”
Lui mi sorride e mi abbraccia, io mi lascio andare, curiosamente mi fa
sentire
bene.
“Posso baciarti o sei troppo debole?”
Per tutta risposta lo bacio io.
Ci sorridiamo a vicenda e ci baciamo di nuovo, con
passione, come se non ci fosse un domani.
Quando ci stacchiamo scoppiamo a ridere e rimaniamo
abbracciati.
“Dobbiamo andare.”
“Dove?”
“Al pranzo di Natale, pronto alla prova parenti?”
“Sì, non sarà peggio di viaggiare in
treni merci.”
Io sorrido.
“E allora andiamo.”
Mano nella mano scendiamo le scale.
Mi seno felicissima e grata a Dio per questo regalo
inaspettato.
So che non sarà facile portare avanti questa storia, ma
sono sicura che ce la faremo.
In qualche modo ce la si fa sempre.
I lieto fine esistono e sono possibili.
Buon Natale, Alice.